
Il concitato pomeriggio prima del bombardamento di Montecassino del 14 febbraio '44 e l’evacuazione dei civili riuscita a metà
“Noi vi avvertiamo perché voi abbiate la possibilità di porvi in salvo. Il nostro avvertimento è urgente: Lasciate il Monastero. Andatevene subito. Rispettate questo avviso. Esso è stato fatto a vostro vantaggio”. Firmato: “La V Armata”. Parole in una bomba e parole che erano una bomba, quel 14 febbraio del 1944. E la parola “vantaggio” sembrava la più salvifica ed ipocrita delle lusinghe, dato che chi l’aveva usata sapeva benissimo che di lì a poco su Montecassino si sarebbe scatenato l’inferno.
Quale vantaggio ci sarebbe nel capire che sta per arrivare la morte se non quello, ipocrita, della possibilità di sottrarti alla morte ma non al destino che segna la tua terra? C’era la guerra, è vero, la Guerra Mondiale numero due, e le caselle di uomini, famiglie e diritto al raziocinio erano state spazzate via. Cartesio preso a spallate burbere da un Dioniso bombarolo che doveva arrivare a Roma.
Arrivare a Roma: e bombardare

Rubare al nazifascismo la prima Capitale d’Europa e poi distogliere truppe per quella Faccenda Grande e Cardinale a nord, in Normandia. E che soprattutto doveva spezzare il maleficio di quel monte che era bastione ad ogni avanzata e macelleria di fanti. Il messaggio con cui il comando d’armata che faceva capo a Mark Wayne Clark e, in rotazione di sub comando, al neozelandese Bernard Freyberg, avvisava i civili del Cassinate rifugiatisi a Montecassino che stava per arrivare l’inferno era stato messo, a decine di copie, nei proiettili di artiglieria.
Poi, quando quei proiettili erano diventato proietti ed avevano terminato la loro traiettoria curva disegnata da un cannone da 8 inch (203 mm) il messaggio si era sparso nelle forre intorno all’abazia come pioggia. Come uccelli di monito.
Le schegge di carta scritta

Carta invece che shrapnel, speranza invece che morte, o via di fuga da una morte che comunque sarebbe arrivata. Era successo – lo spiega con insuperabile maestria Roberto Molle sulle pagine dell’Associazione Battaglia di Cassino, Centro Studi e Ricerche – che l’abate Gregorio Diamare era riuscito a mandar via i civili già a novembre 1943. Erano tutti accorsi all’ombra delle Grandi Mura: per paura, fame e senso malcelato di protezione.
Perché tutti sentivano l’usta del fronte che si avvicinava. Il tam tam tra le famiglie di Vallerotonda-Valvori e quelle di San Pietro Infine e dell’alto Molise-Venafrano portava brutte nuove: gli Alleati erano ormai in Terra di Lavoro ed erano vicinissimi a Montelungo, ad un sputo da Cassino. Perciò molti di loro erano saliti a Montecassino da cui erano stati poi allontanati dai monaci.
Arriva il fronte e arriva la guerra
Perché il fronte era una cosa mobile. Perché i fronti avanzano. E perché la Guerra è una ruspa implacabile che non si ferma, ma spazza solo le terre dove significa la sua mission di morte. Perciò il 5 febbraio, quando il fronte era arrivato tra Monte Trocchio e Cassino, ci fu una nuova ascesa al monte. Fino a quel pomeriggio del 14 febbraio 1944, quando donne, monaci e bambini raccolsero quei biglietti usciti dai fiori neri dell’artiglieria campale.

Il senso era chiaro: quello che era apparso come rifugio poteva diventare trappola mortale. Acquartierati intorno all’abazia c’erano circa 700 civili, e la notizia che gli alleati avrebbero bombardato mise terrore nelle ossa di ognuno. Perciò Diamare si predispose ad evacuarli, con lui ed altri 8 monaci che sarebbero rimasti ad attendere il destino ed a “vigilare la tomba di San Benedetto”.
Diamare sentinella del Santo
Toccò ad un monaco andare a concordare con il comando tedesco l’evacuazione, altrimenti sarebbero state solo raffiche alle spalle dei fuggitivi. L’ufficiale diede assenso mentre tutto intorno era un fiorire di granate e si predispose a statuire una tregua con gli alleati per il giorno dopo.
Ma era già pomeriggio avanzato, praticamente sera. E, mentre la diplomazia affannosa della guerra sul fronte cercava di fare il suo dovere prima del timing dell’orrore, arrivò il 15 febbraio 1944. E fu l’inferno. Quello che non dobbiamo dimenticare mai.