La figlia del generale ucciso dalla mafia ha accusato (non troppo) velatamente il leader democristiano, forse con comprensibile avventatezza
Di Giulio Andreotti se ne sono dette, scritte, raccontate e per parte comprovate in Aula talmente tante, di cose, che alla fine si va in confusione. E quando si va in confusione su personaggi del calibro di Andreotti c’è sempre un rischio. Quello, certificato oltre ogni ragionevole dubbio, del “mappazzone nero”. Di una mistica cioè per la quale ogni cosa che in una certa Italia abbia avuto patente di sconcio possa essere attribuita, senza se e senza ma, al “Divo”.
Chiariamoci: la colpa è soprattutto sua, di Andreotti, e non solo perché lo diceva a suo tempo una arguta canzone di Francesco Baccini, ma perché – obiettivamente – il tipo ebbe le mani in pasta in quasi tutti i misteri d’Italia. Un’Italia che a quei misteri ha pagato pegno, perché per ognuno di essi c’è stato del sangue versato e delle verità seppellite assieme alle vittime. A volte assieme agli autori stessi, di quegli sconci. Ci fu un tempo in cui anche l’Italia aveva una suprema ragion di Stato.
La sola bussola per capire il Divo
Come ci si orienta con Andreotti da questo punto di vista? La bussola del buon senso è quella dei procedimenti giudiziari, del rigore storico e dell’analisi. Senza iperboli celestiali e senza complottismi ex post.
Per la Ciociaria ad esempio Giulio Andreotti è stato una via di mezzo tra Padre di benessere in salsa clientelare e Padrone di un sistema che aveva allestito un serbatoio elettorale monstre. Un sistema tutto centrato su figure locali come quella di Vincenzo Ignazio Senese, il potentissimo senatore-cineasta sorano, o di Franco “Limone” Evangelisti, braccio destro del “Divo” ed ex sindaco di Alatri divenuto celebre per il proverbiale “A Frà che te serve?”.
Celeberrime le sgambate a casa sua, con la mitologica signora Enea alla reception, di alcune famiglie del Frusinate. Arrivavano con ceste oranti di uova e se ne andavano con un’assunzione o con una bolletta pagata.
Fiat Cassino, Permaflex e ceste di uova
Assunzione alla Fiat di Piedimonte San Germano o alla Permaflex diretta per un po’ da Licio Gelli. E la mafia? La Corte di Appello di Palermo spiegò che, dal 1980, è comprovabile per tabulas uno scenario. “Andreotti ha avuto piena consapevolezza che i suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi”.
“Ha quindi coltivato, a sua volta, amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha palesato agli stessi una disponibilità non meramente fittizia, ancorché non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi. Ha loro chiesto favori; li ha incontrati; ha interagito con essi”. I reati commessi in quel range temporale sono prescritti. E la verità giudiziaria senza un giudicato è monca, ma storicamente valevole almeno come indirizzo analitico.
Amnesia di un Paese
E sul fronte storico non si può prescindere da una verità: furono i mafiosi siciliani a preparare il terreno alle truppe statunitensi quando sbarcarono in Italia ricevendone in cambio una serie di benefici. Come ricorda benissimo Paolo Alberto Valenti su Euronews presentando il volume di Domenico Anfora Il Giorno dell’Invasione per i tipi di Mursia.
La storiografia dello sbarco in Sicilia dibatte da sempre sul ruolo della mafia ed ha sviscerato la documentazione relativa al gangster Lucky Luciano che nel 1942 dal carcere di Dannemora (dove scontava un pena di 30 anni) venne trasferito nella prigione modello di Comstock. Qui iniziò a far salotto con altolocati personaggi dell’amministrazione a stelle e strice.
Nel 1946 Luciano venne definitivamente scarcerato, ufficialmente perché aiutò a neutralizzare i sabotatori tedeschi nei porti americani in realtà (come confermato da due commissioni d’inchiesta, una statunitense e una parlamentare italiana, quest’ultima risalente agli anni Novanta) gli vennero riconosciute tre legittimazioni concesse dagli statunitensi alla mafia. “La prima, il ricorso a capi mafiosi per la preparazione dello sbarco in Sicilia; la seconda, l’appoggio dato al movimento separatista; la terza la collocazione ai vertici delle amministrazioni comunali di politici sostenuti dai mafiosi o addirittura di boss mafiosi” (Cfr. pagina 4 di “Malpaese”, Alessandro Silj, Donzelli Editore 1994, Roma).
Tre epoche e (quasi) un solo protagonista
Una cosa è certa: Il Divo è stato come il Paranà, il fiume sudamericano che attraversa lungo 5000 km Brasile, Argentina e Paraguay. Lui ha attraversato le tre grandi fasi dell’Italia: il boom, gli anni di piombo ed il reflusso orgiastico degli ‘80-primi ‘90. Gli anni in cui la mafia uccise di più e peggio di sempre. Gli anni in cui venne ammazzato ad esempio Carlo Alberto Dalla Chiesa.
E il fatto che la di lui figlia Rita, oggi deputata di Forza Italia, abbia indirettamente accusato Andreotti di essere stato il mandante dell’assassinio di suo padre un po’ ci sta. Ci sta perché una figlia i suoi perché se li pone e le sue risposte le trova in una benevola promiscuità di ricordo che noi non avremo mai.
Ma è sbagliato, del tutto. Non basta creare una liaison tra le indubbie frequentazioni di Andreotti in Sicilia e tutte le morti illustri siciliane ad opera delle coppole storte, per confezionare una verità così greve e per giunta su un morto che non può difendersi.
La figlia del generale e le rivelazioni
Non basta fare un “mappazzone” tra gli interessi della Dc, il ruolo del generale e il sacrosanto diritto di una figlia di piangerselo per impalcare uno scenario così. Scenario plausibile, sia chiaro, ma fesso in senso etimologico, cioè spaccato tra verità e verosimiglianza. Soprattutto non è possibile accostare in eziologia Andreotti alla morte del generale e Prefetto di Palermo per motivi storici ed analitici accertati.
Il primo dei quali è quello per cui Dalla Chiesa non venne ucciso, il 3 settembre del 1982 con moglie ed agente autiere, perché aveva già fatto qualcosa di irreparabilmente dannoso per la mafia. Ma solo perché, lasciato solo e senza i poteri speciali che chiedeva, era “ammazzabile” solo in quel dato momento.
La versione di Rita Dalla Chiesa, le cui stimmate di figlia restano intoccabili su ogni piano, è invece diversa. Ed è quella di una narrazione in concausa diretta con le azioni del generale contro i palermitani languenti, i catanesi terzi incomodi ed i viddani che emergevano.
Il post e l’intervista della deputata
Il post della Dalla Chiesa era evidente. Quello della morte di suo padre resta un “grande punto interrogativo, mai chiarito, di un favore che venne fatto a qualcuno, che aveva chiesto che fosse ucciso. Chi era questo qualcuno? Io posso immaginarlo. Per questo non dimentico”.
E a Tango, incalzata da Luisella Costamagna, la figlia del generale aveva risposto: “Era un politico. Potrebbe essere passato il tempo per dirlo, quel nome, ma c’è una famiglia di questo politico e io evito di parlarne”. Non dimentichiamo il preambolo: “Io posso immaginarlo…”.
Poi però, in barba al volersi schernire dal far capire, Dalla Chiesa aveva fatto capire e come. “Comunque era una persona che quando mio padre è andato a Palermo gli aveva detto: ‘Stia attento a non mettersi contro la mia corrente perché chi lo ha fatto è sempre tornato praticamente in una bara’“.
“Non tocchi la mia corrente o sarà bara”
Costamagna si era infilata nella voragine ed aveva sparato di carabina: “Ma se io dico Andreotti tu cosa dici?”. Dalla Chiesa resta in silenzio e, come riporta Libero, “con un mezzo sorriso sul volto, amaro, e un cenno che sembra un assenso”.
La prima obiezione è solo di stilema esistenziale. Davvero è possibile immaginare un Andreotti bifronte, che in pubblico parla come se gli si dovessero cavar via le su celeberrime locuzioni di grana grossa con una tenaglia ed in privato minaccia un generale come un ras di borgata?
E che lo fa evocando addirittura una bara come destino ultimo e ligneo di chi si mette contro il suo essere capoccia di un sistema misto politica corrotta-criminali associati? Ma anche questa è obiezione concettuale. Quella di merito è un’altra.
Niente poteri speciali: ammazziamolo
Ad essa neanche serve il conforto del carteggio epistolare del ’79 esibito da Stefano Andreotti, carteggio benevolo tra suo padre ed il generale in occasione del suo incarico arrivato dopo quello anti terrorismo. Il generale non fu ammazzato dopo aver inferto colpi eclatanti, organici e clamorosi alla mafia. Non ne ebbe il tempo perché da Roma nessuno gli conferiva i poteri speciali per farlo.
Dalla Chiesa venne ucciso per dimostrare che se sei solo sei vulnerabile, e che l’invulnerabilità di quella mafia poggiò sempre e solo sul cortocircuito doloso fra Stato centrale ed i suoi uomini eticamente più tetragoni.
Perché quindi Andreotti avrebbe dovuto “far ammazzare” Dalla Chiesa se Dalla Chiesa non fece assolutamente nulla, impossibilitato in timing, per sabotare uomini, strategie e piani dei malommi indicati come afferenti la sua corrente?
Né tempo, né modo: solo solitudine
Una cosa è dire, con certezza assoluta, che quell’assassinio venne agevolato o non osteggiato in esito da una certa Roma inerte e forse dolosamente tale. Una minoritaria ma Sozza Matrigna pronta sbarazzarsi di qualunque crociato avesse già minacciato-compromesso i suoi appetiti. Altra cosa è dire, dalla posizione eticamente ed emotivamente blindata di consanguinea, che Andreotti “fece punire” Dalla Chiesa per qualcosa che quest’ultimo avrebbe fatto.
Perché il generale non fece nulla per innescare quel che la figlia insinua che successe. Non ne ebbe né tempo né modo e, se li avesse avuti, probabilmente lo avrebbe fatto. Lui era quello che a Via Fracchia non fece sconti neanche allo Stato “buono”, ed il suo format antiterrorismo applicato alle coppole storte sarebbe stato devastante.
Senza benaltrismo, però…
Ma la vecchia storia della Storia e dei se vale per tutti. Anche per una figlia che piange il padre. E che, specie se figura istituzionale di un partito che ha nel suo fondatore un’altra figura equivoca sul tema, ha un dovere. Senza far diventare cardinale il benaltrismo.
Analizzare, senza difendere o accusare a seconda delle prospettive. Soffrire, certo, ma senza mettere la sofferenza a crogiolo di ipotesi poco mutabili in tesi. Perché il bacio a Riina non lo ha visto nessuno, non tra i probi almeno, ma Mangano a Villa San Martino lo hanno visto tutti. E non badava certo ai cavalli.