Emanuela, l’ultimo angelo di Paolo Borsellino

Il senso dello Stato. Servito fino in fondo. Anche sapendo che si pagherà con la vita. Lo splendido ricordo di Emanuela Loi e del giudice Paolo Borsellino, nel giorno di quella maledetta strage in via D'Amelio

di Giampiero Casoni

Ciccio Madonia si sentiva sempre un po’ in imbarazzo quando di piantone gli montava davanti l’uscio quella ragazza, una rossa tondetta e impunita che guardava dritta davanti a sé, vigile e distaccata. Un po’ come un totem vivente della voragine che separava gli uomini dello Stato dagli uomini d’onore.

Era spiaggiato da mesi all’ospedale civico di Palermo ed aveva evitato l’onta dell’Ucciardone. Tuttavia quella situazione iniziava a non piacergli più. Lui era un ‘punciuto’ di razza, della vecchia guardia, capo del mandamento di Resuttana e convintissimo vassallo dei Corleonesi. Gente antica, di zappa, pistola e capotavola. Non gli piaceva perciò che a fargli la guardia arrivasse ogni santo giorno quella ‘fimmina’ in divisa con lo sguardo fermo dello sbirro missionario. I suoi capelli raccolti e quello scorcio di tette sotto il blu della divisa gli parevano un affronto.

EMANUELA LOI

Aveva parlato di questo suo disagio anche a don Peppe, il direttore dell’ospedale, ma non era certo lui che poteva risolvergli la grana. Semmai il fratello, Salvatore, l’onorevolissimo. Ma don Ciccio prima dell’arresto si era seduto in Commissione e sapeva benissimo che Salvo Lima era uno sparapose che, dopo U’Maxi, non aveva fatto quel che doveva fare. Dall’aula bunker erano usciti troppi ergastoli e Lima ormai era la ceralacca rotta su un patto infranto.

La ragazzina che piantonava don Ciccio intanto si era fatta notare in Questura per quella certa aria di sicurezza che di solito i giovani hanno o perché sono giovani o perché sono convinti di quel che fanno. E lei, Manu, di quello che faceva era convintissima.

Sarda di origini, si era fatta le ossa alla Scuola Allievi di Trieste, negli anni in cui essere un’aspirante poliziotta era molto più difficile che essere un aspirante poliziotto. Quella sua tigna nevrile per cui nulla che facesse un uomo doveva essere pregiudicato a una donna la portò, spedita a Palermo, ad essere ammessa al servizio scorte.

BEPPE MONTANA

A quei tempi era l’incarico che tutti odiavano, perché al meglio comportava orari impossibili, assetto operativo perenne, sudore e sporcizia. E poi auto blindate ma con le marce sgranate, docce sognate, tangenziali consumate, attese snervanti e “turni negrieri”. Così li chiamava Beppe Montana, lo scattista degli inseguimenti alla Vucciria, morto al mare nell’unico giorno in cui si era sottratto a quella vita di merda.

E con essi uno stato di vigilanza che mandava i nervi in pappa dopo pochi mesi. Scalciare via le portiere appesantite dalle piastre dei giubbotti usate come placche, coprire l’angolo assegnato, brandeggiare il Pm 12 unto e puzzolente di olio di lino, scrutare in alto e sguinciare i possibili angoli di tiro con le palpebre salate di sudore. Tutto sempre con quella tremenda impressione di imminenza, quel presagio di peluria ritta alla base della nuca che pare essere lì lì per scavalcare la sensazione e tramutarsi nella certezza del piombo viddano che ti sfonda le carni.

E poi il continuo bruxare, il digrignare i denti freneticamente per scaricare l’adrenalina in eccesso. A 24 anni, con i capelli rossi e le guance paffute di un’adolescenza finita ma non cassata, Manu era sempre in bilico fra quello che la vita ti offre e quello che la vita ti potrebbe offrire, se solo le rendessi le cose un po’ più facili. Se solo avessi fatto la maestra come sognavi a 18 anni. E se solo dessi ascolto agli sberleffi sfacciati dei carusi siciliani che una donna in divisa la vedono come una macchietta oscena.

EMANUELA LOI

Fare la sbirra d’estate a Palermo dava l’esatta misura della forza che ci vuole per servire lo Stato senza arrivare a odiarlo. Fare la sbirra a Palermo in quell’estate del ‘92 dava il senso di essere attaccati alla vita come quei manifesti torturati dal vento. Pezzi di carta stanca. Che solo un lembo di colla all’angolo tengono ancora appiccicati alla malta fragile del muro. Una cosa flebile, una cosa che solo la faccia allegra di un giudice che va a trovare sua madre poteva esorcizzare, con un gesto più da liceale che da uomo, una polla di tenerezza gigiona in un mare di fiele.

Il sole cocente, una palazzina anonima e un magistrato tabagista che cicca via la seicentesima sigaretta prima di avvicinarsi al campanello aggirando con fare scattista una 126 rossa parcheggiata sull’asfalto liquefatto dal sole di luglio.

Poi, mentre scarrelli la Beretta, pensi al sole. E il sole all’improvviso lascia il cielo e ti viene a trovare rombando, viene giusto da te, Emanuela Loi, da te e da Walter, da Agostino, Claudio e Vincenzo.

LA STRAGE DI VIA D’AMELIO

E da Paolo, che tu non chiamavi Paolo ma dottore o giudice. Perché Paolo quello faceva. Ed esattamente per quello stava morendo lì con te. Ed è un sole che brucia più del sole perché è il sole del tritolo mafioso che ti toglie dalle ossa le guance pienotte, e i capelli rossi e le membra e la vita e quelle ferie che tanto aspettavi.

Ferie non più dal lavoro, ma dalla vita. E quel sogno di essere utile che, per amarissimo paradosso, trova sostanza esattamente nel momento in cui muori.

Emanuela Loi avrebbe voluto fare la maestra ed insegnare. E ci è riuscita benissimo. Perché Emanuela, il 19 luglio del 1992 a via D’Amelio, proprio quello ha fatto. Ci ha insegnato che la mafia la batti con gli esempi. Come lei, come Walter, Come Agostino, come Claudio, Come Vincenzo. E come Paolo. Paolo Borsellino.

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