Fortapàsc con Giancarlo di vedetta: allora come oggi, e per sempre

Il giornalista che nel 1985 smascherò la trama camorristica dietro un omicidio: e che per fare il suo lavoro pagò con la vita

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Giancarlo Siani neanche ce lo aveva, il tesserino rosso da professionista. Aveva però una cosa che sui tesserini non compare o non fa testo, come la vecchia impronta del dito sulle carte di identità un po’ datate. Lui aveva quel guizzo che, il mestiere di giornalista, te lo qualifica come mestiere di stomaco e basta. Né di cuore, men che mai di cervello.

E’ lì, sotto lo sterno, in profondità, che qualcosa comincia a ravanare quando ti accorgi che hai imboccato la strada giusta e hai addentato una notizia. Un po’ come quando devi transitare davanti ad un incidente stradale-macelleria appena avvenuto e capisci che quella è una tragedia, oltre che un fatto di rilievo per i lettori.

Fare le pulci alla camorra

don Giuseppe Diana ucciso in chiesa dalla camorra

Di solito, nel giornalismo che conta i peli alla camorra, la strada giusta porta alla tomba, alla botta del piombo sulla carne. Ed al tuo sangue che ruscella lì, proprio lì, sul tuo corpo ed è il tuo e si porta via la luce, in un oceano di paura e prima ancora che arrivi il dolore. Non hai tempo di urlare perché sono i vivi che urlano e tu sei morto.

Come don Peppe Diana, un altro colpevole benedetto. Colpevole di non aver tenuto la bocca chiusa. Un altro esempio per questa società che marcisce nel fragore omertoso dei social.

Non esistono antimafie vere ed antimafie false e non ci sono categorie, se non nelle nostre smanie assolutorie da classificazione. Esiste solo chi vive cercando la verità e chi vive cercando di vivere e basta. La mafia è un di più, semmai un deterrente più forte, ma nulla più. E con quelli come Giancarlo e don Peppe quel deterrente non funziona.

Lo sgarro a don Lorenzo Nuvoletta

Non hai tempo di chiederti come è potuto succedere, come ci sei arrivato, riverso a pisciarti addosso in quella Citroen Mehari brutta e bellissima. E allora tocca agli altri spiegarlo, come è potuto succedere. Nel caso di Giancarlo venne innescato tutto dalla tigna di sapere oltre lo scibile. E di capire oltre l’apparenza. Tigna di scavare sotto la vernice di comodo e collegare i fatti.

Un articolo che insinuava come i Nuvoletta di Poggio Vallesana avessero potuto barattare la latitanza di Valentino Gionta con l’apparentamento col suo nemico di sempre, il Bardellino furioso.

A pensarci bene 74 righe del cavolo che ti riempiono di orgoglio per aver scoperto il gioco di don Lorenzo il maranese. L’amante dei cavalli di razza, il punciuto alla mafia sorella di Palermo. Il primo boss che era al contempo: milionario per spocchia, sanguinario per vocazione e snob per indole. Almeno fin quando quel camorrista voyeur non lo presero i carabinieri mastini del colonnello Giuseppe Cortellessa.

Il marchio dell’infamia da lavare

Foto © Stefano Strani

Un articolo che ti rimpingua l’ego e poi via, a casa, al mare, a vivere senza sapere che sei un morto che fa progetti su cose che non sono più tue… Perché l’arma scarrella prima ancora che venga tirata fuori dal cassetto.

E perché un animale ha deciso che, se un cronistucolo uagliòne da quattro soldi gli dà dell’infame, non deve fare figli e vederli crescere, ma deve vedere solo il buio che porta il piombo.

Nato e morto a settembre

In questi giorni Giancarlo Siani avrebbe compiuto gli anni e li avrebbe visti finire: era nato il 19 settembre del ‘59 ed è morto di piombo il 23 settembre del 1985. E l’unica candelina accesa a suo nome è un lumino, una decina di card social pronte a soccombere davanti ai dissing tra trapper e quattro trafiletti-coccodrillo sui media campani.

Poi un bel film, qualche libro e quel nodo allo stomaco che ci ha lasciato. Quello che senti quando sei costretto a scegliere fra vita e verità e non ci pensi neanche una volta… a farla, la scelta.

Mediamente scegli la vita e campi da mediocre, ma campi… perché la verità è solo per pochi, piccoli, immensi eroi. Gente come Giancarlo che se ne sta arroccato sugli spalti di Fortapàsc. Perché dall’Italia la verità come cardine etico ha espatriato da troppo tempo per non farci capire che quella è una sentinella benedetta. Che con il suo esempio ci protegge. Non dalla mafia, quella è un di più: dalla parte peggiore di noi stessi che la mafia la concima.