Le leggi razziali posero molti davanti ad un bivio. Ci furono uomini e non. Anche in Ciociaria. Come il podestà Marini di San Donato Valcomino. Ed i suoi concittadini. Che fecero di tutto per salvare degli innocenti
A partire dal 1937 cominciò a svilupparsi in Italia una campagna di stampa antiebraica. Fra l’altro fu ripubblicato il libro “I Protocolli dei Savi Anziani di Sion” che è un falso storico. La falsificazione era avvenuta in Francia mezzo secolo prima nel pieno dello sviluppo dell’affaire Dreyfus, l’ufficiale ebreo dell’Esercito francese, che era stato sottoposto a processo e ingiustamente condannato con l’accusa, rivelatasi falsa, di aver trasmesso segreti militari alla Germania.
Nel capitolo del libro intitolato Il cimitero ebraico di Praga e il Consiglio dei rappresentanti delle Dodici Tribù di Israele, l’autore immagina un’assemblea segreta di rabbini, in cui tredici anziani (di cui uno era l’ebreo errante), illustrano in ventiquattro «Protocolli» i metodi per impossessarsi del mondo, complottando per riunire ricchezza e potere nelle loro mani.
Le leggi contro gli ebrei
Quindi dall’estate del 1938 prese avvio la legislazione antiebraica. E dire che il fascismo partiva da posizioni diametralmente opposte. Mussolini aveva offerto il sostegno dell’Italia alla proposta di costituire in una parte della Palestina non un focolare ma uno Stato ebraico vero e proprio; aveva criticato la politica razziale attuata nella Germania nazista e negato l’esistenza in Italia di un problema ebraico. Esaltando, anzi, il contributo che gli ebrei italiani avevano offerto «alle vicende nazionali e alla prima guerra mondiale».
Tuttavia la situazione di isolamento internazionale in cui si era venuta a trovare l’Italia dopo la guerra d’Etiopia, il fallimento della politica diplomatica attuata che era stata condotta in «ambienti ebraici (sionisti e non) inglesi e palestinesi» sollecitati «a svolgere un’azione favorevole» all’Italia tesa a evitare le sanzioni comminate dalla Società delle Nazioni, aveva convinto Mussolini di una cospirazione demo-plutocratica, di un complotto giudeo-massonico-comunista e di una «internazionale ebraica» ostile e antifascista. A tutto ciò si andò poi ad aggiungere l’alleanza con la Germania nazista sempre più stretta nel corso degli anni.
Il 13 luglio 1938 venne pubblicato il «Manifesto della razza» mentre il 22 agosto successivo venne attuata la prima misura antiebraica con l’avvio del censimento degli ebrei che ufficialmente veniva utilizzato per sapere quanti ebrei risiedessero in Italia ma che invece serviva per schedarli.
Decreti e disposizioni
Seguirono poi una serie di decreti e di disposizioni. È il caso dei “Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista” (Rdl 1390/1938) con divieto di iscrizione nelle scuole di alunni di razza ebraica ed espulsione degli insegnanti di razza ebraica da scuole, accademie, istituti di cultura. Così come dei “Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri” (Rdl 1381/1938) che introdusse il divieto agli stranieri ebrei di fissare stabile dimora nel regno, in Libia e nei possedimenti dell’Egeo. Inoltre decretò la perdita della cittadinanza italiana concessa a «stranieri ebrei posteriormente al 1° gennaio 1919».
Venne poi l’ “Istituzione di scuole elementari per fanciulli di razza ebraica” (Rdl 1630/1938). Dava la possibilità di creare nelle scuole elementari statali delle sezioni speciali per gli alunni ebrei oppure di istituire, da parte delle comunità ebraiche, delle proprie scuole elementari. Ci fu quindi la “Dichiarazione sulla razza” emanata dal Gran Consiglio del fascismo il 6 ottobre 1938 che anticipava altri provvedimenti di divieto adottati successivamente.
Vennero con i “Provvedimenti per la razza italiana” (Rdl 1728/1938). Fu il pilastro normativo della legislazione razziale: introduceva l’accertamento dell’appartenenza alla razza ebraica sulla base di criteri biologici e culturali. Poi fu l’ora delle “Modificazioni allo statuto del Partito Nazionale Fascista” (Rdl 2154/1938). Dispose l’espulsione dal Pnf di tutti i circa 7000 ebrei che erano iscritti, anche quelli con benemerenze fasciste.
Via pure gli scienziati
Seguirono ancora altri provvedimenti che portarono gradualmente gli ebrei all’estromissione da ogni aspetto della vita sociale pur se il complesso piano di politica razziale prevedeva delle specifiche esenzioni e confermava il “libero esercizio del culto“.
Furono emanate disposizioni sul collocamento a riposo del personale militare delle Forze Armate; sul divieto di esercizio delle professioni (che potevano essere svolte, con dovute eccezioni, solo all’interno della comunità ebraica), del commercio ambulante, della gestione di rivendite commerciali, sull’esclusione dal campo dello spettacolo. Gli ebrei non potevano avere a servizio personale italiano, né potevano essere celebrati matrimoni misti.
Dal comparto dell’istruzione furono espulsi alcune migliaia di studenti, decine di impiegati, circa quattrocento tra maestri, direttori didattici, professori e presidi, novantasei docenti universitari e di circa duecento tra aiuti, assistenti, incaricati e lettori universitari. Alcuni docenti universitari e scienziati di origine ebraica, come Emilio Segré, Bruno Pontecorvo e Bruno Rossi, lasciarono l’Italia per emigrare negli Stati Uniti, dove, tra il 1943 e il 1945, parteciparono al “progetto Manhattan” per la realizzazione della prima bomba nucleare sotto la direzione di Enrico Fermi.
Il suicidio di Morpurgo
Alla guerra civile spagnola che si stava combattendo in quei momenti presero parte vari ebrei, alcuni a sostegno dei repubblicani antifranchisti, come Rita Montagna, Leo Valiani, Carlo Roselli. Mentre altri erano nei quadri dell’Esercito italiano schierato a fianco dei nazionalisti del generale Francisco Franco.
Mentre in Spagna si combatteva accanitamente, in Italia veniva emanata la legislazione antiebraica che disponeva il collocamento a riposo dei militari ebrei. Così uno dei due ufficiali di Stato maggiore dell’Esercito italiano di origine ebraica, Giorgio Morpurgo, rimase «ucciso in combattimento il 23 dicembre 1938, nel corso di un attacco suicida effettuato immediatamente dopo aver appreso di essere stato espulso dall’esercito perché ebreo».
Altri ebrei si suicidarono in Italia in seguito all’adozione della legislazione antisemita come nel caso di Angelo Fortunato Formíggini, scrittore, editore e vulcanica personalità della cultura italiana.
L’opinione pubblica italiana rimase sorpresa e nell’autunno del 1938 Benedetto Croce, davanti all’approvazione delle leggi razziali, scriveva: «Nessuno avrebbe potuto sospettare e immaginare ciò che poi si è veduto, e con nostra meraviglia, ai nostri giorni».
Uomini e non
Ci furono degli zelanti fascisti che per ingraziarsi le autorità nazionali o scimmiottando la Germania nazista cominciarono a esporre sulle vetrine di bar e negozi cartelli con la scritta “negozio ariano“, oppure “in questo locale gli ebrei non sono graditi”.
Tuttavia il sentimento antisemita non fece mai breccia totalmente negli animi degli italiani. Lo dimostrarono soprattutto gli anni di guerra sia in Italia che all’estero nelle zone di occupazione militare. Ad esempio la «tendenza generale dei comandi militari italiani e delle autorità civili italiane fu quella di non consegnare» ai tedeschi quegli ebrei «che si rifugiavano sotto la protezione dell’Italia» riuscendo a salvare la maggioranza parte di ebrei di nazionalità italiana che si trovavano in Grecia al momento dell’occupazione tedesca.
Al pari militari e funzionari italiani riuscirono a proteggere gli ebrei francesi. Infatti dalla zona di occupazione italiana in Francia, prima limitata a una piccola area attorno a Montone e poi allargatasi a una lunga striscia di terra tra Tolone e Nizza che risaliva fino al confine con la Svizzera, nel corso del periodo di amministrazione italiana non venne deportato nessun ebreo. I funzionari italiani impedirono di fatto l’avvio di ebrei verso i campi di sterminio accampando sempre nuove scuse burocratiche, nonostante le forti proteste dei gerarchi nazisti fatte direttamente a Mussolini e a Galeazzo Ciano.
Anzi a Lione e in altri Comuni francesi gli ebrei arrestati e in procinto di essere deportati vennero liberati dai militari italiani. Quella porzione di territorio francese divenne un sicuro rifugio per gli ebrei. Così quando gli ebrei francesi che vivevano nella Repubblica di Vichy si accorsero che nella zona di occupazione italiana non c’erano persecuzioni tedesche e deportazioni, a migliaia si rifugiarono nell’area militarmente occupata dagli italiani.
Un avvio tranquillo
Anche in Italia nei primi anni di guerra la comunità ebraica italiana nonostante limiti, divieti e difficoltà materiali, poté continuare a svolgere una vita relativamente tranquilla. Anzi agli ebrei italiani, una comunità che contava circa 50.000 persone, si andò ad aggiungere una folta schiera di circa 10.000 ebrei stranieri. Erano arrivati in Italia negli anni che precedettero la scoppio della guerra scappati dalle nazioni dell’Europa centrale.
Erano fuggiti in seguito alla politica antisemita attuata nei loro Paesi d’origine e avevano cercato rifugio in Italia che non rappresentava un punto di approdo ma solo una via di transito per raggiungere posti sicuri. Oltre centomila erano riusciti a imbarcarsi a Trieste e a raggiungere la Palestina. Ma la maggior parte di essi fu costretta a permanere in Italia a causa di difficoltà burocratiche nell’emissione dei visti di ingresso da parte di quei Paesi che intendevano raggiungere. Per di più molte nazioni, dalla Gran Bretagna a quelle del continente americano, continuavano a gestire le richieste degli ebrei come normali flussi d’immigrazione soggetti a quote, aliquote e contingentamenti o come normali flussi turistici.
Inoltre a molti di quegli ebrei scadde il passaporto che non poteva essere più rinnovato dallo Stato di provenienza e nemmeno dell’Italia per cui assunsero lo status di apolidi. Quando poi anche l’Italia entrò in guerra furono costretti a rimanervi.
Verso l’internamento
Nel corso dei nove mesi di “non belligeranza” il fascismo aveva avviato i preparativi per l’internamento degli ebrei stranieri non autorizzati a risiedere in Italia nonché delle persone giudicate pericolosissime, compresi gli antifascisti schedati. L’internamento era costituito dal soggiorno obbligato in località militarmente non importanti, oppure in campi di concentramento appositamente costituiti.
Alla fine ne fu costruito specificatamente uno solo, ubicato a Ferramonti di Tarsia, in provincia di Cosenza, mentre si decise di utilizzare anche una cinquantina di strutture (palazzi, alberghi, ex caserme ecc.) di località molisane, abruzzesi e marchigiane. Quindi furono individuate circa 250 località a cosiddetto internamento libero inizialmente previsto solo per le donne, ma con l’andar del tempo furono autorizzati trasferimenti e ricongiungimenti familiari. L’internamento libero era una sorta di confino. Gli ebrei non erano sottoposti a nessuna particolare restrizione della libertà ma dovevano recarsi regolarmente presso la locale stazione dei Carabinieri, non potevano uscire al di fuori dei confini comunali né potevano lavorare.
Lo Stato italiano erogava agli internati dei sussidi giornalieri e delle indennità per alloggio la cui entità dipendeva dal sesso, dall’età e dalle condizioni economiche e che servivano per le spese di sostentamento nei Comuni di internamento.
L’internamento libero in Ciociaria
Nel luglio del 1940, dopo lo scoppio della guerra, anche in provincia di Frosinone giunsero varie donne ebree straniere. La prefettura del capoluogo, che aveva già individuato dei Comuni di internamento, le smistò principalmente tra San Donato Val di Comino, Picinisco, Sora e Fiuggi.
A fine mese un gruppetto di 13 donne arrivò a San Donato Valcomino. Con i movimenti e i trasferimenti dei mesi successivi la piccola comunità si andò ampliando fino a raggiungere una trentina di unità e ci furono dei ricongiungimenti familiari. Provenivano dalla Polonia, dall’Austria, dalla Germania e perfino dalla Russia dove avevano lavorato come commercianti, impiegati, dipendenti, rappresentanti di commercio, artigiani, artisti circensi. Ma c’erano anche persone di cultura e studenti universitari. Il fiduciario del gruppetto era un medico, Mordko (Marco) Tenenbaum internato con la moglie, un’ostetrica. E con la figlioletta che nei mesi d’internamento era nata a Sora.
I rapporti con la popolazione locale furono sempre buoni. Il podestà, l’avvocato Amedeo Fabrizi, si interessò degli internati e assieme ai Carabinieri della locale stazione offrirono, per quanto poterono, il loro intervento sollecitando più volte la prefettura a corrispondere le indennità.
Il medico condotto dottor Guido Massa si prese cura di loro e in particolare di Margareth (Grete) Bloch che si diceva fosse stata l’amante di Franz Kafka, l’importante filosofo di Praga, da cui avrebbe avuto un figlio segreto in quei frangenti fuggito a Londra. In alcune sere d’estate si tennero degli spettacolini di piazza organizzati da un internato, Enrico Levi, che era stato un artista circense. Proprio in quei frangenti nacque la sua secondogenita, Noemi.
Resto a San Donato Valcomino
Paradossalmente nell’estate del 1943 la famiglia Levi aveva ricevuto la revoca del provvedimento di internamento. Non sapendo dove trasferirsi decise di rimanere a San Donato e lì visse il periodo di guerra caratterizzato dall’attacco alla Linea Gustav. Nel tentativo e nella speranza di poter camuffare, in qualche modo, l’appartenenza alla razza ebraica, alcuni internati si convertirono alla religione cattolica. Fu il caso, ad esempio, di tutta la famiglia Levi e di Margareth Bloch che furono battezzati dal parroco del paese, don Donato Di Bona. E poi cresimati dal vescovo di Sora monsignor Michele Fontevecchia.
Tale situazione, a San Donato, in provincia di Frosinone, in tutta Italia e nella zona di occupazione in Francia durò fino all’8 settembre 1943. Poi cambiò tutto per gli ebrei e anche per gli italiani. Dopo l’Armistizio le Divisioni italiane dislocate in Francia si avviarono con difficoltà verso l’Italia con al seguito migliaia di ebrei francesi. Come i militari italiani salirono sulle montagne piemontesi e liguri per sfuggire alla retate tedesche.
A ottobre iniziarono le azioni di rastrellamento operate dai tedeschi: il 9 a Trieste e il 16 a Roma. Nella Capitale, dove risiedeva la comunità di ebrei italiani più numerosa, furono tratte in arresto 1.259 persone. Dopo il rilascio di 237 di loro, tra non ebrei arrestati per errore e figli di matrimoni misti, furono 1.023 i deportati ad Auschwitz. Ne tornarono in 12.
I cassinati rastrellati al ghetto
La retata di quel 16 ottobre non interessò solo il ghetto di Roma ma anche altri quartieri. Tra i rastrellati ci furono anche due famiglie di ebrei nati a Cassino, i cugini Efrati.
Si trattava di Marco Giacomo Giuseppe Efrati, nato a Cassino il 7 maggio 1880, ufficiale dell’Esercito posto in congedo in seguito all’entrata in vigore delle leggi razziali e della moglie Clara Barroccio. Il figlio Augusto inizialmente scampò al rastrellamento ma fu arrestato il 16 aprile 1944 in seguito a una delazione a Roma. Anche Settimio Efrati con la moglie Alda Fiorentino e la figlia Mirella furono arrestati. Nessuno di loro è tornato da Auschwitz.
Nelle settimane successive al rastrellamento di Roma, gli arresti vennero estesi in tutta la penisola. Ancora in quella prima fase le deportazioni riguardarono solo solo ebrei catturati dai tedeschi. Solo dall’inizio del 1944 sembrerebbe essere stato raggiunto l’accordo tra nazisti e fascisti per la consegna ai tedeschi degli ebrei arrestati dagli italiani e conseguente deportazione.
Tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945 furono complessivamente allestiti dall’Italia quarantaquattro convogli che raggiunsero Auschwitz, di cui venti partirono dal territorio di diretta competenza della Rsi. Ventitré (di cui uno annullato) furono quelli provenienti dalla Zona di Operazione Litorale Adriatico (annessa al Reich) ed uno dal Dodecaneso. Furono tre i Campi di concentramento allestiti in Italia che erano campi di transito verso quelli di sterminio del centro Europa. Erano quello di Borgo San Dalmazzo, in provincia di Cuneo, quello di Fossoli vicino Carpi in provincia di Modena, quello di Gries alla periferia di Bolzano. Mentre un quarto, la Risiera di San Sabba a Trieste, fu l’unico che fungeva anche da campo di sterminio.
I tedeschi a San Donato
Nell’autunno 1943 anche nella cittadina di San Donato giunsero i tedeschi che la occuparono al pari di tutti i centri del territorio. La popolazione locale mise a repentaglio anche la propria vita nel tentativo di proteggere il gruppetto di ebrei internati. E non solo loro, perché nel frattempo erano arrivati anche militari alleati fuggiti dalle prigioni e delle confinante jugoslave. Giunsero pure alla falsificazione dei loro documenti personali.
Il podestà Gaetano Marini e cinque dipendenti comunali falsificarono i documenti d’identità degli ebrei internati, cercando così di creargli una nuova identità. Ed evitargli l’avvio verso i campi di sterminio. Ne salvarono decine a rischio della loro vita. Infatti, una delazione rivelò ad un certo punto il trucco. La giovanissima impiegata Pasqualina Perrella il 6 aprile 1944, scoperti i falsi, venne prelevata dai tedeschi e interrogata. Al termine la portarono verso un camion sul quale avevano caricato al tre donne, tutte ebree: Pasqualina si salvò perchè non c’era più posto. È morta il 25 ottobre 2021 all’età di 99 anni. Era l’ultima sopravvissuta di quel gruppo di Giusti.
Quel 6 aprile 1944, a poche settimane dalla liberazione del territorio dislocato sulla Linea Gustav da parte degli alleati, tutti i componenti della piccola comunità di internati ebrei di San Donato, composta da una trentina di persone, furono arrestati. Accadde dopo che alcuni soldati della Wermacht erano casualmente venuti a conoscenza della loro presenza nel Comune della Val di Comino. Pare su una delazione di una di loro. Alcune donne del paese cercarono di salvare almeno la piccola Noemi Levi tentando di farla passare per una loro figlia. I tedeschi erano però ben informati e presero anche la bambina.
Da San Donato verso la morte
Si salvò dall’arresto solo la famiglia Tenenbaum che era riuscita qualche tempo prima a raggiungere Roma. Tutti gli altri vennero portati a Roma, rinchiusi prima nel carcere di Rebibbia, poi trasferiti nel campo di Fossoli. E da qui deportati ad Auschwitz dove arrivarono il 16 maggio 1944. La maggior parte di loro fu uccisa subito dopo l’arrivo nel campo di sterminio. Altri morirono dopo.
Si salvarono solo in tre. A San Donato Val di Comino è stato ottimamente allestito Il Museo del Novecento e della Shoah. È un luogo di memoria e documentazione che serve a mantenere e a tramettere il ricordo di quanto drammaticamente accaduto solo ottanta anni fa).
Paradossalmente il Campo di Ferramonti di Tarsia, dove era concentrato il più alto numero di ebrei, essendo ubicato in Calabria fu liberato dagli alleati già con lo sbarco di Salerno, nelle prime fasi della Campagna d’Italia. Non subì gravi conseguenze. Nelle altre parti d’Italia a nord di Napoli la solidarietà di militari, religiosi e religiose, civili, persone normali che misero a repentaglio la propria vita senza aspettarsi riconoscimenti, consentì di salvare vite umane. Giovani e meno giovani. Ci furono casi straordinari. Come quello di Giorgio Perlasca, anche se agì in Ungheria salvando circa 5000 ebrei ungheresi.
I Giusti
Tutti coloro che negli anni di guerra hanno salvato ebrei sono stati riconosciuti come Giusti. Una definizione che trae origine da una tradizione khassidica. Afferma che il mondo si sostiene su 36 giusti, si chiamano lamedvavnik, dalle lettere ebraiche lamed e vav che formano insieme il numero trentasei. Non si sa chi siano, a quale ceto appartengano, se siano semplici o con una alta formazione culturale.
Lo Yad Vashem di Gerusalemme ha assegnato il titolo di Giusti fra le nazioni ad oltre 22.000 persone nel mondo che salvarono ebrei durante la Shoah. Più di 700 sono italiani. E ancora ce ne sono di sconosciuti. Lidano Grassucci su queste pagine, ad esempio, riporta il caso di Quirino Ricci di Sezze detto Cucchiarone. Che ospitò a casa sua in palude, insieme ai suoi figli anche i bimbi ebrei. E quando i tedeschi gli chiesero: ma di chi sono questi bimbi? Lui rispose “i me, tuchi i me’ “. Sono tutti i miei. E diceva la verità … Per salvare loro mise a rischio i suoi di sangue, ma per lui erano figli, erano bambini, erano creature di Dio. E davanti agli orchi devi avere la forza di essere uomo.