Il libro di Alessandro Fulloni sul terzino che vinse la Rimet Eraldo Monzeglio e sulla sua controversa vita durante il Ventennio
Nei mesi in cui Benito Mussolini stava decidendo di abolire la Provincia di Caserta e dare il primo vagito istituzionale a quella di Frosinone Eraldo Monzeglio giocava con il Bologna, ed aveva già fatto vedere mirabilia come terzino. Cioè come difensore centrale, a contare che nel calcio le denominazioni tattiche e di ruolo dell’epoca erano diverse.
Con i felsinei Monzeglio avrebbe vinto uno scudetto e due Mitropa Cup a fronte di oltre 250 presenze. Era il 1927, e Mussolini stava per sopprimere la Terra di Lavoro. Pare che la riorganizzazione logistica ed istituzionale di quei territori fosse nata dal fatto che il “Duce” non riusciva a mettere fine al dominio delle “bande” che governavano quelle terre feraci.
I fascisti ciociari ci provano
I fascisti di Frosinone colsero l’occasione per lanciare un progetto che fino a due decenni fa aveva titillato le aspettative di molti, quello di dividere la provincia in due creando quella di Cassino. La cosa andò in vacca, avrebbe detto un giovanissimo Guareschi, perché Mussolini non amava molto Cassino. Qualcuno dice perché la città all’ombra dell’Abazia era sede di Tribunale. Qualcun altro, più preciso su teme medesimo, perché patria “di molti arroccati ciarlieri e chiacchieroni”.
Cioè di avvocati molti dei quali avevano pubblicamente arringato contro il delitto Matteotti. E Monzeglio? Proseguì la sua fulminante carriera calcistica e la sua straordinaria parabola di vita, tanto che nel 1934 divenne Campione del Mondo. Avrebbe bissato quel titolo. In Nazionale ci era arrivato nel ‘30, esordendo in quell’Ungheria-Italia 0-5 che consacrò l’era del paròn Vittorio Pozzo, che lo adorava.
Il libro di Alessandro Fulloni
Monzeglio è il protagonista di uno splendido libro scritto da Alessandro Fulloni, ‘Il terzino e il Duce’. Un libro che dimostra come il magnetismo dei personaggi superi gli steccati ideologici delle persone. E la cui presentazione è servita a Gianfranco Fini ad esempio, a spiegare che quella di un nuovo fascismo è genesi non solo impossibile, ma addirittura iperbolica e goffamente funzionale solo alle attuali opposizioni.
“Torna il fascismo? Quando si è disperatamente alla ricerca di argomenti per delegittimare l’avversario si arriva a dire anche questo… Ma è una cosa che fa ridere e fa ridere anche chi la dice perché sa che non è vero”.
Quando il fascismo invece era non solo un pericolo vero, ma già compiutamente e cupamente realizzato Monzeglio si distinse, e non solo nel calcio. Dopo la conquista da parte della Nazionale della Coppa Rimet entrò nelle grazie di Mussolini e si accasò a Villa Torlonia. In quegli anni il campione del mondo insegnò a calciare ai figli del Duce, Bruno e Vittorio. Ed essendo anche un bravo tennista avviò ai rudimenti della racchetta la sempre poco loquace Donna Rachele, ma con scarso successo.
Mussolini a caccia di petrolio nel Frusinate
Nel 1942 Mussolini in Provincia di Frosinone ci veniva soprattutto per fare il rabdomante di petrolio e l’Ispettore Massimo nei cantieri dove si operava per la “compressione ed estrazione di metano”.
Lo sforzo bellico – già fallimentare ed in akmè con la Campagna di Russia – e la necessità di energia spingevano Mussolini a trivellare il suolo italiano come una gruviera. Alla fine di quelle visite Mussolini immancabilmente arrivava in città. E “tutta la fiera e laboriosa gente della Ciociaria si stringe intorno a lui manifestando il più ardente entusiasmo”, come proclama un cinegiornale dell’Istituto Luce dell’epoca.
Proprio in quei mesi Monzeglio indossò la divisa grigioverde e partì per il fronte russo. Da quel carnaio il calciatore sarebbe tornato vivo, giusto in tempo per vivere l’armistizio dell’8 settembre e seguire Mussolini a Salò dopo la liberazione da Campo Imperatore. Fu lì che il terzino visse la stessa contraddizione che ammalò i cuori di moltissimi italiani, anche di rango.
Era fedele a Mussolini ma non poteva restare fedele agli effetti di quel che Mussolini fece all’Italia. Perciò iniziò a salvare partigiani pur restando il confidente numero uno della famiglia del capo del fascismo repubblichino. Nonché il teste della proverbiale baruffa tra Donna Rachele e Claretta Petacci sgamata nel suo ruolo di amante fissa. E grazie a contatti mai cancellati con la Resistenza fece salvare un partigiano.
Fini e il pericolo che non c’è
Chi era? Giuseppe Peruchetti, ex portiere dell’Inter e della Juve “colto dai fascisti a trasportare armi e condannato a morte”. Poi “accompagnò Edda Ciano dal marito Galeazzo, in prigione a Verona dopo il 25 luglio 1943. E conobbe agli allenamenti della Nazionale Michele Moretti, poi partigiano nella brigata che arrestò il Duce, giustiziato a Giulino di Mezzegra”.
Quel periodo buio è l’icona di quel che portò all’Italia il peggio di se stessa, ed oggi viene spesso riesumato come neo pericolo. Ma per Gianfranco Fini il solo pericolo attuale è l’incapacità del centrosinistra di trovare un’amalgama vera, perciò quel che resta ad esso è evocare fantasmi ormai cassati dalla Storia.
“Il centrosinistra? Ci si può anche mettere tutti insieme contro le destre ma poi si dura poco. Serve un progetto. Il centrosinistra non ha trovato il modo di stare in campo né l’allenatore. È un problema di contenuti”. Nella sua “affascinante e controversa biografia” di Monzeglio, Fulloni ha rimesso a fuoco un pezzo di storia italiana dimenticato.
“Non reagimmo alle leggi razziali”
E l’ossimoro è evidente perché quella è una Storia che gli italiani hanno spezzettato, rielaborato, analizzato a fondo, ma senza trovare una quadra sistemica. Senza una pace per poggiarci sopra il piede e ricominciare, mondi. Forse perché fummo (quasi) tutti fascisti quando il fascismo era in auge e (quasi) tutti antifascisti quando il fascismo cadde.
Fini l’ha messa giù ancora più al curaro, e su un tema che per quell’Italia fu una macchia. “La reazione degli italiani alle leggi razziali? C’è stata una reazione? La domanda forse è questa. Non si aveva la più pallida idea di cosa significasse realmente. Non c’era la libertà di stampa”.
Nel 1946 Monzeglio diventò allenatore e rimase quel che meglio aveva saputo essere: un campione del calcio secondo solo a Meazza per prestigio, ma marchiato come filo fascista. Eppure c’è un’Italia, quella che oggi ci fa tutti “allenatori”, ammalata di calcio e non sempre superficiale, che di Monzeglio non si scordò.
Salvato da un collettivo di operai
E che, secondo una leggenda ricorrente, all’epoca lo salvò dalle grinfie dei partigiani più oltranzisti. Pare che un collettivo di operai di Sesto San Giovanni lo tolse da ceppi. Lui non aveva mai avuto parte attiva in azioni armate, pestaggi o violenze.
E poi, che diamine, quello era Monzeglio, quello che aveva ubriacato gli ungheresi e vinto due Mondiali. E quando tocchi la palla come la toccava Monzeglio perdonare le idee sbagliate è più facile. Perché grazie ai piedi fatati poi perdoni anche una vita sdrucciola.
E qualcuno a Napoli questo lo sa meglio di tutti.