I delitti di Prima Linea e la redenzione con Don Mazzi, giusto prima che la sua ricetta di ritrovata dignità arrivasse anche a Cassino
Carmine Civitate venne ammazzato a Torino il 18 luglio del 1979 dai terroristi di Prima Linea che lo accusavano di essere “l’infame” che aveva provocato la morte di due loro compagni di lotta. Il 9 agosto successivo le indagini presero la piega giusta, quelli erano tempi in cui ogni investigatore sapeva dove ravanare e come farlo, negli ambienti dell’eversione.
Carmine Civitate non era un infame e per due motivi. Il primo, perché denunciare le brutture dei brigatisti rossi non è roba da infami ma da cittadini probi. Il secondo, perché lui non aveva soffiato proprio nulla alla polizia in quel giorno di febbraio che innescò la sua futura morte a luglio, quando morirono sforacchiati Matteo Caggegi e Barbara Azzaroni, nomi di battaglia “Charlie” e “Carla”.
La targa per l’uomo che non c’entrava nulla
Carmine non poteva aver soffiato nulla alla “pula” perché lui il bar dell’Angelo lo aveva rilevato dopo quei fatti, e prima non ci era mai andato. Solo che i terroristi avevano preso tanto d’aceto, e tanto lo stesso era percolato nella furia cieca del piombo da elargire ad ogni costo a qualcuno, che ammazzarono un innocente. Un uomo perbene a cui solo nel 2019 era stata riconosciuta una targa a memento della sua morte atroce.
Si trova lungo il muro esterno del bar che per Carmine avrebbe dovuto rappresentare una scommessa per migliorare la sua vita e che invece divenne il suggello assurdo alla sue fine. Ad ammazzare Carmine in quel locale vicino Piazza Stampalia in un afoso pomeriggio dei nostri torridi Anni di Piombo furono Maurice Bignami e Marco Donat Cattin. Cioè l’uomo che non trovava pace e che alla fine la trovò tra le braccia di Don Antonio Mazzi, che si sarebbe preso cura anche di un suo stretto congiunto nella sede Exodus di Cassino a fine anni ‘90.
Ma inquadriamo il contesto: giusto mentre a Cassino e Piedimonte San Germano le indagini sull’omicidio brigatista del capo della sicurezza Fiat Carmine De Rosa arrivavano ad un punto di svolta l’Italia era in una morsa. In particolare al Nord industrializzato e più adatto a foraggiare la lotta armata come reazione agli scenari di compromesso storico tra Dc e Pci.
L’omicidio De Rosa a Cassino e la Torino rossa
Prima Linea non erano le Brigate Rosse, che agivano secondo un rigido per quanto atroce organigramma gerarchico. No, Prima Linea era il lato brado, anarcoide ed impulsivo del già truculento terrorismo rosso. E a Torino puntava soprattutto a “punire” gli esponenti del Pci che promuovevano sondaggi sul rifiuto dell’eversione come rotta politica. Prima Linea ammazzava i giudici liberali come Emilio Alessandrini. Insomma, quei ceffi là non colpivano i membri riformisti della società che combattevano ideologicamente il terrorismo. Colpivano quelli, ben più pericolosi, che spiegavano come il terrorismo fosse un vicolo cieco.
Anche Alessandrini venne ammazzato dai colpi di Marco Donat-Cattin “Alberto”, quella volta assieme a Sergio Segio detto “Sirio”. Nella Dc in quegli anni primeggiava un ministro, Carlo Donat-Cattin, il padre di Marco. Era il leader della sinistra democristiana e fu tra i padri fondatori della Cisl, nata dalla scissione dalla Cgil del 1950.
Quel padre visse il tormento assoluto di essere uomo delle istituzioni nel contempo in cui era genitore di un uomo che le istituzioni le sovvertiva ammazzando. E quel padre fu anche sospettato, assieme all’allora presidente del Consiglio Francesco Cossiga, di aver “favorito” la latitanza del figlio in Francia.
Dal padre ministro alla cascina del “Don”
Nell’autunno del 1985 Marco Donat-Cattin aderì al programma di dissociazione e collaborazione ed ottenne la libertà nel 1987.
A quel punto nella sua vita entrò l’uomo che forse più di tutti avrebbe conosciuto i modi con cui il suo travaglio di ex terrorista andò a crogiolo con la rinascita dell’uomo. Era don Antonio Mazzi. Era l’uomo che sa capire che perdonare equivale a riscoprire il lato buono di ognuno di noi, posto che si abbia voglia e forza per farlo riaffiorare.
Che se lo chiamò a co-fondare la sua prima cascina per accogliere i tossicodipendenti in quel di Verona, la prima di una lunga serie in cui oggi spicca quella di via San Domenico Vertelle a Cassino diretta da Luigi Maccaro. E che di lui avrebbe detto: “Si buttava nelle cose a capofitto. Capisco la pazzia che ha fatto sull’autostrada, nel tentativo di salvare altre persone. Da noi, al centro di recupero dei tossicodipendenti, dava tutte le sue forze, con entusiasmo. E aveva quel carisma del capo, un po’ guascone. Come suo padre peraltro, che lo aiutava molto nel lavoro”.
E ancora: “Era andato a Roma, ma si era tenuto in contatto con tre ragazzi. Anzi, proprio di recente li aveva invitati nella capitale per trascorrere insieme qualche giorno”. Dei suoi trascorsi in Prima Linea, Marco Donat-Cattin parlava malvolentieri. Aveva forti rimorsi, viveva con dolore il ricordo di quegli anni. “Una volta, mentre mi raccontava un episodio, è stato male fino a vomitare”.
Rimorso e morte in autostrada
Ma Marco non fece in tempo a vomitare via il suo rimorso. La morte lo colse mentre, sceso dalla vettura, cercava di avvisare gli automobilisti di un incidente poco più avanti.
Il 19 giugno del 1988, lungo l’autostrada Serenissima, il terrorista che ammazzò un giudice ed un barista incolpevole venne travolto ed ucciso da un’auto in corsa. Un gesto di altruismo che, a pensarci bene, ci dice che sì, forse Marco Donat-Cattin il suo rimorso lo aveva già vomitato via.