Vent'anni fa venne ammazzata una giovane donna, vittima innocente di una camorra macellaia che faceva affari anche da noi. E a volte con noi.
I Di Lauro di Scampia riciclavano a Cassino, è un fatto accertato. Il più grande ed organizzato potentato criminale degli ultimi 30 anni aveva scoperto il Cassinate e la Provincia di Frosinone per mettere a regime legalitario parte dei proventi del più grande e capillare supermercato a cielo aperto della droga mai esistito in Europa. E attenzione, si tratta di una realtà molto meno “banale” di quanto non suggerisca una narrazione ricorrente e suffragata per tabulas. Quella che vede da sempre la camorra guardare a queste terre come posti di ridondanza criminale, più che operatività in purezza.
Perché se a riciclare nel Cassinate è qualche piccolo clan aversano o i cascami fratti del potentato che fu dei Casalesi è solo tangenza geografica, ma se a riciclare sotto l’Abazia è gente che nel 2004 su una sola delle 140 piazze di spaccio censite metteva nei borsoni fino a 250mila euro a settimana allora le cose cambiano.
Pulire (anche) da noi i soldi di Scampia
Cambiano anche perché quella è la stessa gente che mise Gelsonima Verde in mezzo alla sua faida più clamorosa e macellaia e la ammazzò. Così, per niente, solo per dare prova provata ad un suo ex schierato che ‘O Sistema può colpire chiunque. Per mandare un segnale stroncando la vita di una giovanissima donna che con quei macellai non aveva avuto mai niente a che fare. La ammazzarono il 21 novembre del 2004 Gelsomina.
Più o meno quattro anni prima che si scoprisse come i “colletti bianchi” degli “spagnoli” lavorassero da tempo anche nella provincia di Frosinone e nel Cassinate. Lo scoprì una articolata inchiesta della Guardia di Finanza coordinata dagli inquirenti della DDA di Napoli che culminò in un blitz clamoroso. Tra gli arrestati c’erano 80 affiliati al clan Amato-Pagano, 4 ai Di Lauro e uno ai Licciardi, i vecchi detentori del potere di Secondigliano.
Tutti gli uomini di “Ugariello”
Questo prima che il loro capo, Gennaro A’ Scigna, morisse di setticemia in carcere e consegnasse le redini di quella sconfinata prateria di crimine a Paolo Di Lauro, “Ciruzzo o Milionario” che nel frattempo aveva ammazzato il vecchio sub reggente di via Cupa dell’Arco, Aniello la Monica. Tra quelli che all’epoca vennero fermati c’erano anche due uomini di “Ugariello De Lucia”, forse il più spietato killer di camorra di sempre dopo il cutoliano Pasquale Barra, “O’ Animale”.
E De Lucia fu quello che, atti ed armi alla mano, eseguì la sentenza di morte su Gelsomina Verde. Aveva 22 anni, e venne ammazzata con tre colpi di pistola alla nuca dopo ore di tortura. Poi il suo cadavere venne bruciato.
Faceva l’operaia, Gelsomina, di camorra non ne sapeva niente se non quel che tutti sanno se vivono nei posti dove la camorra domina. Ma la camorra la sfiori anche quando non ne sei pezzo, nei posti dove la camorra intasa il vissuto.
Colpevole di amare uno “spagnolo”
“Mina” era una volontaria che aveva una storia, peraltro sofferta, con un esponente degli “spagnoli” del clan camorristico Amato-Pagano, Gennaro Notturno, detto “’O Sarracino”, all’epoca vivandiere del gruppo con presunzioni gallonate ed oggi collaboratore di giustizia. Era colei che poteva sapere cose sugli avversari dei Di Lauro e questo bastò. Poco contava che il suo ragazzo fosse peraltro un pesce piccolo e soprattutto che lei con i suoi magheggi non c’entrasse nulla.
La torturarono a pinze, le bucarono tre volte la testa e la bruciarono come una fascina di legna in un’auto. Il 4 aprile del 2006 il processo a carico di De Lucia si concluse con un “fine pena mai” confermato dagli Ermellini di Cassazione nel 2019 che non restituì Gelsomina ai suoi cari. E che non fece mai luce sui mandati di quel delitto, dato che Cosimo Di Lauro, figlio del boss allora latitante, venne prima indagato ma poi prosciolto.
Le condanne ma senza mandanti
Le sole condanne per quell’aberrazione ad oggi sono solo restano solo quelle di De Lucia e di un collaboratore, tal Esposito. Un anno fa altri pentiti dissero la loro ed accusarono Luigi De Lucia e Pasquale Rinaldi, per cui sono stati chiesti 30 anni. Per la morte di “Mina” e per un’era buia in cui un fiume di denaro si sperdeva in mille rivoli.
Molti dei quali, rossi del sangue di una donna innocente, furono affluenti del Rapido che annuncia Cassino. Oggi, nella giacca che qualcuno di noi comprò all’epoca in uno dei tanti negozietti “apri-chiudi” con prezzi tanto ammalianti, un po’ di quel sangue, il sangue di Mina, ci sta rannicchiato ancora. E non è sangue secco, perché quel sangue là non secca mai.