La storia di un prete che non si piegò ai fascisti e che pagò il pegno più alto per la sua libertà. Ma che alla fine sopravvisse ai carnefici
Chi percorresse in auto oggi e dopo la pausa feriale agostana via Don Minzoni a Frosinone non avrebbe appese alla bocca parole soavi. Roba di Brt, piste ciclabili, fegati grossi e traffico. Quelli e le crociate green di un Riccardo Mastrangeli che più ha ragioni teoriche da vendere, più ha “torti” pratici da affrontare. Solo un mese fa l’improvvisa ricomparsa dei cordoli aveva innescato l’idrofobia di più di un automobilista già reduce dal percorso ad ostacoli del cantiere al parcheggio della Sacra Famiglia.
Insomma, oggi il nome Don Minzoni, almeno in salsa ciociara, nel mainstream evoca più facilmente parolacce superficiali che salmi introspettivi. Men che mai riflessioni estemporanee sull’uomo a cui quel nome appartenne. Anzi, sul prete.
La via a Frosinone, il traffico e la Storia
Un prete scomodo come sanno essere solo i preti convinti che Dio abiti dovunque, ma che ami in particolare i cuori dei giovani.
Convinti e che si ritrovano a proclamare quella loro convinzione in tempi bui e beceri, in cui gli uomini fanno una cosa strana ed abnorme, tipicamente umana. Quella per cui nel nome di Dio si proclamano essi stessi dio e si scordano le differenza tra maiuscola a minuscola. Tra le nostre piccinerie ed una grandezza che, declinata a quel modo, porta solo rovina. Giovanni Minzoni era per indole un uomo coraggioso, un ravennate coriaceo come le radici salmastre che ornano la foce del Bevano.
E da prete Don Minzoni non fu da meno, tanto che dopo essere diventato parroco di Argenta ed essere stato spedito al fronte per la Grande Guerra si portò da valoroso. Tanto valoroso che, come cappellano del 225° Reggimento, se ne andò a dispensare estreme unzioni ed aiuto materiale nel carnaio della Battaglia del Solstizio lungo il Piave.
In trincea a salvare e benedire
Quel pretaccio (crasi in uso all’epoca tra fegataccio e prete) col collo grosso ed il petto a botte non aveva paura di nulla. Si intrufolava in mezzo ai Carcano 91 abbandonati da braccia troncate e sotto i cavalli di frisia come una faina gigante. Abbrancava spallacci vermigli di sangue fiottato via e tirava indietro torsi a cui spesso la gambe non stavano più attaccate. E dava medicine e preghiere sotto il piombo.
Si prese un Argento al Valor Militare, don Minzoni, su quelle rive rosse del fiume iconico per quegli anni tremendi. Ma la sua battaglia più terribile Don Minzoni arrivò a combatterla da reduce, ad Argenta. Lì perse e vinse al tempo stesso.
La guerra era finita, la vittoria era quella “Mutilata”, gli agrari non davano terra ai reduci e tra proprietari terrieri spocchiosi e giolittiani e socialismo arrembante spuntarono i fascisti. Fascisti che non amavano nessuno che osasse contraddire le loro tesi o criticare le loro violenze, le scorrerie coi camion Bl a dar fuoco alle cooperative “rosse”.
Arriva il fascismo, anzi, arrivano i fascisti
Don Minzoni non era rosso – come avrebbe potuto esserlo? – ma aveva in petto il cuore grande di chi se vede un diritto non sta a cavillare su chi ne proclami la santità. Perciò, fiero assertore dello scoutismo, decise che i fascisti, che lo volevano arruolare alla causa, con i diritti non avevano nulla a che fare. E lo fece garbatamente sapere ai medesimi l’8 luglio del 1923. Lo fece in occasione di una riunione parrocchiale sullo scoutismo alla quale si presentarono, traboccanti boria scimmiesca, alcuni fascisti che non gradivano il format.
Perciò lo fecero sapere, lo fecero alla fascista. Cioè urlando ad un altro religioso che stava proclamando di voler “formare uomini di carattere” che “c’è già Mussolini per questo, prete, in piazza questi non ci verranno!”. Don Minzoni non gradì e rispose di controbalzo e con una discrezione tale da essere udito ad Ascoli Piceno: “Finché c’è don Giovanni, verranno anche in piazza!”.
In quel momento esatto il parroco di San Nicolò di Argenta firmò la sua condanna a morte. In piazza i giovani scout ci vennero, ma i fascisti non se lo tennero, quello smacco. Don Minzoni era uno a cui piaceva la sgambata forte, la passeggiata con i parrocchiani più propensi ad inseguire quelle falcate un po’ mattoidi di un soldato col collarino e la tonaca. Perciò quando la sera del 23 agosto 1923 il giovane Enrico Bondanelli si mise al fianco di Don Minzoni per accompagnarlo in canonica venne presto distanziato.
L’omicidio e le indagini-farsa
Ma non abbastanza da non vedere due ceffi squadristi, Giorgio Molinaro e Vittore Casoni, schizzare alle spalle del prete e lapidarlo letteralmente con grossi sassi, per poi finirlo con un iradiddio di colpo alla nuca a mezzo bastone da passeggio. Don Minzoni morì prima della mezzanotte.
La polizia, guidata dal quadrumviro medagliato Emilio De Bono, avviò indagini-pannicello con cui si chiarì uno scenario del crimine che chiaro lo era già prima. Ogni ras aveva il suo feudo: Ravenna era di Arpinati, ma Italo Balbo aveva il comando della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. E proprio sul gerarca-aviatore si avventò, un anno dopo e nei giorni del delitto Matteotti, lo scoop de La Voce Repubblicana.
Era stato il trasvolatore col pizzetto che nel ’40 sarebbe perito a Tobruch di fuoco (non troppo) amico a dare gli ordini di picchiare chiunque dissentisse dal verbo fascista o dileggiasse pubblicamente i suoi tetri sgherri.
Il processo che ne seguì fu una burla e gli imputati vennero tutti assolti. Poi rinviati a nuovo dibattimento dopo una sentenza di Cassazione ed infine condannati ma prescritti.
Un simbolo di fede e democrazia
Don Minzoni restò morto senza giustizia fino al 1946 ma da morto fece più danni che da vivo: divenne un simbolo. E nel 1973, di fronte ad un contrito Francesco Cossiga, Papa Giovanni Paolo II disse di lui: “Fu il suo fascino spirituale, esercitato sulla popolazione, sulle forze del lavoro ed in particolare sui giovani, a provocare l’aggressione”.
Già, quel pretone grosso e franco era un martire della democrazia, un pedagogo su cui da un anno pende una causa di beatificazione. Uno di quegli uomini che, se gli dedichi una strada, magari e dopo aver saputo di quel che fece ti viene meno voglia di sacramentare per il traffico bloccato. E pensare alla strada aperta da Don Minzoni: quella che grazie anche a lui percorriamo noi oggi.