
Il funerali di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo con la loro scorta. Fu il funerale della I Repubblica. Che non seppe difendere i suoi uomini. Perché, se non collusa quantomeno permeata, dai loro assassini
Non ne erano degni. Questo sentivamo, questo sapevamo. E questo facemmo, piangendo, tutti. E il cielo, quel 25 maggio del 1992, pareva ce lo volesse ricordare, che quello era un giorno senza la luce del dolore ecumenico. Era un cielo plumbeo e gravido di pioggia. Tipo che se sei di Bergamo ti pare la cosa più naturale del mondo, che a fine maggio piova. Ma se sei a Palermo e piove vuol dire che Dio ha qualcosa da dire al mondo, qualcosa di serio. La città, la Sicilia ed il Paese intero se l’erano rimbalzata come una scheggia di follia, la cosa orribile che era successa due giorni prima.
In un’epoca in cui non esisteva whatsapp, in cui il web era spicchio settario della scienza ed i telefoni avevano la cornetta quella notizia era corsa via veloce a fare diacce le schiene degli italiani: Falcone era morto. No, anzi, Falcone era stato ammazzato col tritolo, e con lui la moglie e tre uomini della scorta. L’auto del giudice che combatteva la mafia e quella dei suoi protettori erano diventate astronave nera e grumi di lamiera.
Quarto Savona 15 a Veroli

Era arrivata in Ciociaria due anni fa, una di quelle auto: a Veroli. Dopo la strage la Quarto-Savona Quindici si era fatta totem di un orrore che aveva messo i panni delle didattica etica. Girando per l’Italia in una teca quell’ammasso di ferraglia ci ricordava e ci ricorda che ci sono state persone capaci di lottare contro la mafia. Lottare, morire nella lotta e vincere malgrado la loro morte, prima ancora che lo Stato vincesse effettivamente contro le coppole storte di Riina “U’ Curtu” e della sua corte dei malefìci. (Leggi qui: Quarto Savona 15, in Ciociaria l’auto della scorta di Falcone. E leggi anche La corsa di Quarto Savona Quindici: per sempre contro la mafia).
Ma quel giorno no, il 25 maggio del 1992 non c’era nessuna aria di vittoria. Via Imperatore Federico a Palermo era una lunga trama bigia di veicoli fermi. Nessuno suonava il clacson, nessuno imprecava, c’erano tanti motori e centinaia di petti ma il silenzio aveva legato tutti nell’immobilità dell’orrore. La morte violenta è così, genera rispetto ed incredulità, ma la sua spaventosa intraducibilità deve comunque essere proclamata.
Il Falcone vivo ed il Falcone morto

Perciò dopo Capaci tutti zitti, e tutti rabbiosi. Da vivo Falcone non aveva avuto né elogi né appoggio. E solo otto mesi prima, da Maurizio Costanzo, la politica del curaro aveva già crocifisso il giudice. “Giovanni Falcone secondo me farebbe bene ad andarsene al più presto possibile dal posto al ministero, perché l’aria non gli fa bene, non gli fa proprio bene“. Parole e spleen di Alfredo Galasso, esponente della Rete di Leoluca Orlando presente alla trasmissione a reti unificate voluta da Costanzo e Michele Santoro. Totò Cuffaro, giovane ma già tirodeo da establishment, parlò apertamente di “iniziative portate avanti da un certo tipo di giornalismo mafioso” e di “certa magistratura che mette a repentaglio e delegittima la classe dirigente siciliana“.

Cuffaro oggi punta a Bruxelles e con la sua Nuova DC corteggia gli Stati Uniti d’Europa voluti da Matteo Renzi. Non ci saranno il simbolo e non ci sarà il suo nome, ma è in campo: un condannato per mafia che tra due settimane proverà a fare massa di consenso per dire la sua in Ue. Poi otto mesi dopo Falcone era morto con Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani ed era avvenuta la metamorfosi acida.
Da ingombrante ed osteggiato fantaccino della legalità il giudice era diventato Icona di Sacrificio Estremo da piangere con l’ipocrisia dei sepolcri imbiancati. Non ci stette nessuno, a quella farsa nera. Quelli che non avevano protetto e spalleggiato Falcone in vita non ne erano degni, di piangerlo a morto.
Questo sentivamo, questo sapevamo. E questo facemmo, tutti. Davanti alla televisione, con le lacrime stillate dagli occhi stretti e mentre Rosaria Schifani invitava chi sapeva a “mettersi in ginocchio” se volevano essere perdonati.
Il Quirinale che non ti aspetti

Lo facemmo nelle stesse ore in cui, su a Roma, la Prima Repubblica esalava il suo ultimo respiro: Tangentopoli era scoppiata da soli tre mesi ed era ancora più insieme di fatti gravi che fenomeno sistemico su cui impalcare una rivoluzione.
No, la Prima Repubblica morì con la mancata elezione di Giulio Andreotti al Quirinale e con Oscar Luigi Scalfaro al Colle col torrino.
Morì con la morte di Falcone che vanificò l’ennesima strategia di un sistema che non aveva saputo proteggere i suoi uomini migliori. E che forse non aveva voluto farlo, perché proteggere i buoni a volte significa distruggere i tuoi appetiti.
Quelli che erano al funerale di Falcone lo sapevano e si presero sputi, urla e disprezzo. Quelle di Capaci non furono le ultime bare che dovemmo portare sulle spalle della nostra impotenza, ma furono le prime a lasciarci i lividi con cui alla fine reagimmo.
E trasformammo il dolore in azione, riscattando un Paese che non era stato all’altezza dei suoi uomini migliori.