
Paolo Borsellino, il suo sacrificio e quello di Giovanni Falcone: si comprendono solo se si cita una frase con cui venne ricordata la strage di Capaci. E quella parola è 'amore'
Che Paolo sapesse perfettamente di essere un morto che cammina è risaputo. Lo è nella misura in cui le sue parole, specie dopo la morte di Giovanni Falcone, divennero di pubblico dominio. Una sorta di sfogo umanissimo che venne alambiccato e presentato poi come testamento morale ed atto d’accusa, non solo verso i “viddani” corelonesi.
Non c’è particolare bisogno che certi tipi di uomini mettano le armature dei martiri possibili, non ce n’è perché quei tipi particolari di uomini non si giocano mai la matta delle iperboli. Abituati alla concretezza della Procedura ed alla stoica basicità del rischio incombente, semplicemente quegli uomini registrano la casella di un futuro possibile che li vede lanciati in aria dal tritolo smargiasso delle coppole storte.
No, loro si giocano la carta dell’amore. Della capacità cioè piena e tonda di fare per gli altri – tutti gli altri – quello che va fatto, anche se farlo va a discapito della tua esistenza.
Andare oltre gli affetti personali

Ed a discapito dell’incolumità possibile di chi appartiene alla tua schiera più stretta di affetti, delle persone che ami, per la cui vita temi. E per le quali lavori, risparmi soldi, passi nottate insonni, compri libri e cibo, sudi paura ad ogni fiata.
Da questo punto di vista Paolo, Paolo Borsellino, il giudice con marcate simpatie di destra, era comunista. E lo era nell’accezione più pura ed ideale del termine. Lo era come lo è chi ha deciso, magari tormentandosi nella decisione e macerandosi nel valutarne pro e contro, che se un uomo dello Stato si deve dare lo deve fare appieno. Cioè concedendosi in assoluta dedizione all’intero sistema complesso di cui quell’uomo dello Stato è rappresentante, testimone attivo e mai totem sterile.
Qui non si parla di appalti morali, di giacchette, martirizzate ed ormai vuote di membra, strattonate dall’una o dall’altra parte tra quelle che polarizzano quest’Italia untuosa, ipocrita e piagnona. Questo Paese-giostra mai a corto di cavallucci comodi in arcione ai quali salire se sono ricchi di pennacchi che oggi ricorda quel giudice ammazzato a via D’Amelio 32 anni fa anche dalla sua ignavia.
La morale più vasta di tutte

Qui si parla di cose concettuali, di posizioni apartitiche che sottintendono una morale così vasta da abbracciare l’intero arco dell’umanità a cui il tuo lavoro si riferisce. Per comprendere meglio come mai Paolo Borsellino fosse uno di destra che pensava da comunista basta scorrere le sue parole. Assaggiarle, sentirle e capirle col cuore invece che col calibro dei cartesiani ad ogni costo, di quelli che vivono di categoria d’urna o di congresso.
Non le sue ultime parole, non la sua ultima intervista, quelle cose iconiche usate in maniera un po’ cretineggiante per testimoniare che sulla solennità del fatto siamo tutti “sul pezzo”. Basta andarsi a spulciare quel che il giudice Borsellino disse ad esempio il 25 giugno del 1992. Falcone era stato ammazzato con moglie e scorta solo un mese prima e l’Italia basculava tra politici da esecrare e mafia bombarola da cui essere terrorizzati.
Giammanco e l’informativa del Ros

Pietro Giammanco, dominus della Procura di Palermo, aveva ricevuto un’informativa del Ros dei Carabinieri che certificava come il giudice che aveva costruito U’ Maxi era un bersaglio. Ma non glielo disse, tanto che Borsellino lo venne a sapere casualmente ed informalmente dal ministro della Difesa Salvo Andò. Il clima era quello della condanna già emessa ma della necessità da parte di alcuni di non dispiegarne pubblicamente il grado empirico di rischio.
Borsellino era a Casa Professa, in biblioteca, e stava partecipando ad un incontro dibattito organizzato da Micromega. Veniva applaudito spesso, quel giudice. Forse più spesso di quanto non sia consentito per notabili sulla cui incolumità personale ormai ci sono ben pochi dubbi. Quegli applausi sapevano di affetto sincero e di sudario annunciato. E Borsellino non deluse chi dal giudice si aspettava l’uomo. “Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte”.
Perché certi giudici non fuggono

Con quei preamboli sorse una domanda, non detta ma assaporata, agra, sotto il palato di tutti. E Borsellino rispose: “Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore!” Eccola, la chiave di volta della toga che viveva secondo un Pensiero Universale.
“La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa”. E via a sgombrare il campo dalla bruma di quell’avverbio indefinito.
Il testamento di Paolo

“Tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria cui essa appartiene”. Era, ed è, un testamento etico, quello di Borsellino, scritto col sangue del suo amico perso, non proclamato dal podio del suo egotico e certo sacrificio. “Per lui la lotta alla mafia non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, che coinvolgesse tutti specialmente le giovani generazioni”.
Già, le giovani generazioni. Quelle “più adatte a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità”.
Perché una volta Falcone, dopo il quinto interrogatorio fiume di Masino Buscetta, telefonò a Paolo Borsellino. E gli disse con il tono di un bambino che vuole motivare la sua crociata. “La gente fa il tifo per noi”. Ieri come oggi, oggi come domani. Senza mai abbandonare gli spalti, e magari scendendo in campo con tutta la squadra. E se non è comunismo questo…