La schiena dritta dell'uomo, l'acume dello scrittore ed il coraggio del cronista vittima della mafia contro cui lottò fino alla fine
Se a Giuseppe Domenico Enzo Fava lo chiamavi Giuseppe e non Pippo qualcosa non funzionava fin dall’inizio. La cosa prendeva subito di faccenda ufficiale e Pippo, che si fidava solo dei giovani e delle bocche schiette, diventava diffidente e perfino scontroso. Era una rockstar, Pippo, con la barba sale e pepe a scontornare in geometria satanassa un volto fessurato in verticale che sembrava fatto apposta per urlare cose da un palco. O da una redazione, che a ben vedere è solo un palco con una tastiera al posto del microfono, meno budget e più cicche a terra.
E siccome il rock non è solo un modo di cantare ma soprattutto di affrontare la vita ed i suoi problemi in un certo modo lui, Pippo, in quel ruolo ci stava benissimo. Perché lui era legnoso, per nulla scaltro, e la vita la affrontava come disse a tutti e scrisse nel suo La Violenza: “A che serve essere vivi, se non c’è il coraggio di lottare?”. Già, a che serve? A morire in piedi magari, dritti e puntuti nell’orgoglio di aver combattuto due spanne sopra la broda che quell’orgoglio te lo avrebbe voluto togliere. Le cose da noi vanno così, maledizione: in un mondo normale se vivi con la schiena dritta diventi un esempio da seguire mentre invecchi.
Vivere con “il coraggio di lottare”
In questo mondo cretino invece ti fanno diventare una lapide e ti cantano i salmi laici ma a sangue sputato, così non sei più un esempio, ma un monito. E una certa Sicilia dei primi anni ‘80 a mollo in quella palta ci stava benissimo. Il calati iuncu ‘ca passa ‘a china, “abbassati canna che passa la piena” era un mantra mafioso che funzionava bene anche nelle province più “babbe”, cioè tradizionalmente meno vocate agli affari delle coppole storte tipo Messina. Figurarsi quindi come poteva funzionare a Catania.
Cioè nel pieno di un mandamento forte di suo e che di lì a qualche anno sarebbe diventato fortissimo in vassallaggio ai viddani di Corleone e sopravvivendo alle grandi mattanze palermitane. Erano anni quelli in cui Matteo Messina Denaro, consegnato alla giustizia un anno fa dal generale santeliano Pasquale Angelosanto, era robetta da apprendistato. Perciò se a Catania un drammaturgo-scrittore-giornalista decideva di mestare nella merda e proclamare che i mafiosi stanno più in alto dei crimini dei loro sgherri l’aria si faceva subito cattiva. Molto per i mafiosi e moltissimo per il giornalista.
Gli scoop scomodi a L’Espresso Sera
Amava il teatro, Pippo, la scrittura ed un certo giornalismo che nella terra in cui visse non era amato da molti, anzi. I suoi lavori a L’Espresso Sera furono un condensato di scomoda curiosità, quella curiosità un po’ folle che lo aveva portato negli anni ad intervistare gente come Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo. Il primo fu Capo dei capi primigenio della mafia, imposto come sindaco dall’Amgot; il secondo ne fu successore nonché pioniere dello sfacciato comparaggio delle coppole storte con la politica “alta”.
Ecco, l’anima rocker di Pippo Fava emerse proprio in questo snodo chiave: lui non si limitò a proclamare l’esistenza della mafia in una terra che quell’esistenza la negava sfacciatamente. Quella è roba da melodici piacioni. No, Fava fu il primo a far luce sistematica su un assioma difficile da digerire quanto facile da accertare. La mafia esisteva nella sua essenza complessa solo come sistema di potere legato e spesso confuso con gli spot decisori del paese, altrimenti era solo malavitaccia con qualche ubbia gerarchica in più.
La mafia sopra la mafia: via il velo
Lui la diceva con forza e chiarezza, quella cosa: “Mi rendo conto che c’è un’enorme confusione che si fa sul problema della mafia. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri. I mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale. Quella è solo roba da piccola criminalità, che credo abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee”.
Sembrava un proclama da lessico banale ed invece era un distinguo di grandiosa potenza. Quel tipo di potenza che è anche distinguo tra la vita tranquilla del giornalista culo di pietra e la morte sfacciata del cronista di nerbo vero.
Quando andò a dirigere Il Giornale del Sud Pippo Fava ficcò il naso negli affari di droga dei Santapaola, si schierò contro i missili Usa a Comiso e si ustionò il fegato con un trittico sornione di editori collusi. Una bomba con un chilo di tritolo lo mancò di un soffio e le sue prime pagine vennero cambiate mentre era fuori sede perché attaccavano gli inattaccabili. L’aria si fece cattiva, oleosa di strusci alla politica punciuta e tanto greve che alla fine Pippo venne licenziato.
L’aria di fa cattiva: licenziato in tronco
I suoi ragazzi si barricarono in redazione in segno di protesta ma da sempre se fai il giornalista è così: il “primum vivere” alla fine vince secco sul vivere secondo etica. Non ti pagano abbastanza per vivere la vita, figurati per perderla.
Povero ma non domato Fava e la sua schiena dritta fondarono I Siciliani dopo essersi indebitati fino al collo, e quel mensile ci mise poco a diventare un faro dell’antimafia. Ancor meno ci mise a diventare talmente scomodo nella sua indipendenza agra che la solita cordata di “galantuomini” provò a comprarselo per metterci una mordacchia, ma invano.
L’ultima intervista di Pippo Fava fu ad Enzo Biagi, si era a dicembre del 1983, a poco più di un anno dalla morte dimostrativa sputata addosso da un kalashnikov a Carlo Alberto Dalla Chiesa. Quella che rispose al grande giornalista milanese era una rockstar stanca ma non arresa, una specie di Iggy Pop della verità in un mondo già ammalato dall’autotune: “Qualche volta mi devi spiegare chi ce lo fa fare, perdìo. Tanto, lo sai come finisce una volta o l’altra: mezzo milione a un ragazzotto qualunque e quello ti aspetta sotto casa”.
Cinque colpi alla nuca per zittire Pippo
Il ragazzotto che aspettava Pippo smise di farlo alle 21.30 del 5 gennaio 1984, il giorno del compleanno di un altro martire scomodo, Peppino Impastato. Gli atti giudiziari cassati dicono che era figlio di un altro Pippo, Giuseppe Ercolano.
E che lui, Aldo, intercettò il giornalista in via dello Stadio. Il Pippo che combatteva la mafia stava andando a prendere la nipote reduce da uno spettacolo teatrale e il Pippo che ubbidiva alla mafia gli ficcò cinque proietti 7,65 dritti in quella nuca piena di pensieri inammissibili per un servo del male. Ad armare la mano di Aldo fu il boss Nitto Santapaola, sultano di un regno che non ammetteva jaqueries e visir di un impero che non concepiva sfidanti, neanche se erano rocker di razza.
Rocker come Pippo Fava, che aveva “un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società”. E per il quale “un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili. Pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo“.
Oppure impone a certi politici di fermare chi voleva fermarli e di non andare neanche al suo funerale. Fermare per sempre un uomo libero col piombo dei vigliacchi che invece i pensieri non li ferma affatto. Li libera. E ce li consegna per farne bussola da porgere ai nostri figli che indica la sola rotta possibile: quella dei giusti.