Una città in cui il fascismo attecchiva difficilmente ed un evento ad hoc per incentivare le adesioni: e "spoilerare" i piani di Mussolini
Nell’estate del 1922 la città di Frosinone non era considerata ancora “abbastanza fascista”. Merito di una agguerrita componente locale di sinistra e di deputati tignosi come Domenico Marzi Senior. Nonché dell’indole di un popolo che sapeva distinguere tra l’avvento di nuove ere e la giogaia di quel che tali ere portavano con sé come lascito.
Nella biblioteca del Capoluogo ciociaro è conservato uno splendido libro scritto da Maurizio Federico, “Frosinone cento anni fa (la città nel 1922)” che rende alla perfezione quel clima peppiante delle settimane che precedettero l’evento cardinale del fascismo: la Marcia su Roma.
Più che marcia, scampagnata
Quello fondativo, a San Sepolcro nel 1919, aveva già il crisma sbruffone della genesi. Tuttavia quello che Benito Mussolini stava approntando per l’autunno e che si sarebbe condensato nei giorni dal 24 al 30 ottobre del ‘22 sapeva di Pietra Miliare già ancora mentre lo si redigeva “su carta”.
Questo anche a contare che, ex post, la “Marcia” si rivelò molto meno di quel che la sua mistica proclamava in preambolo nelle piazze. Cioè più che una forzatura muscolare un’asseverazione timida e gocciolante di un potere che non trovò la diga della monarchia sabauda. E che, a drappelli e per ghenghe sperse, si ritrovò prima nella strade della Città Eterna e poi nell’androne di Palazzo Chigi. Che allora divenne sede del ministero degli Esteri per volere del maestro di Predappio e, per osmosi di carisma, del Governo italiano che prima stava allocato al Viminale.
E Frosinone? Cosa accadeva nella città non ancora capoluogo provinciale a seguito dei legiferati del 1926/’27? Lì i Fasci stentavano a formarsi e, per lo più, erano team al soldo degli agrari, ma non riuscivano a darsi una struttura politica vera e propria. Agivano un po’ a “cottimo ideologico ed operativo”, per lo più quando si trattava di sedare agitazioni contadine o fare bordone truce ad un candidato conservatore.
Arriva Gislanzoni a galvanizzare i ciociari
Bisognava metterci rimedio, perciò il vice-segretario del Lazio Alberto Ghislanzoni arrivò in città con il fiero proposito di rimediare a quell’evanescenza ideologica ed operativa. Per molti versi quella era ancora l’Italietta giolittiana, perciò si cominciò in punto di burocrazia e carte bollate: quello di Frosinone passò da Fascio ordinario a sub-federazione.
Esemplare, e surreale, la descrizione che Ghislanzoni fece sul giornale “Squadrismo” anni dopo. Eccone un brano: “La Ciociaria viveva allora in una situazione spaventosamente arretrata dal punto di vista culturale, tecnico e sociale. La vita politica era ristretta e irretita in mano a pochi furbacchioni e speculatori aggiogati al carro delle democrazie. Il socialismo e il comunismo avevano fatto non piccola breccia tra le categorie operaie e rurali e avevano formato grosse leghe che si erano impossessate di varie amministrazioni comunali”.
Il dato era che a Frosinone fabbricare fascisti era difficile, molto difficile, e non solo per questioni di (indubbia) fierezza, ma perché in Ciociaria i grandi fondi agrari, il comburente primo del fascismo, erano gigantesche isole circondate da piccoli appezzamenti a mezzadria in cui ribollivano già le rivendicazioni del venturo usu capione. E dove la proprietà non è accrescitiva ma di sostentamento non servono polizie civiche per fare la guardia alla prima, ma gente tignosa per difendere la seconda. Anche a costo di prendersi a bastonate nelle carrarecce con le “squadracce” che emulavano quelle di Arpinati nella Bassa.
Facta il debole e Benito il furbo
Mentre Ghislanzoni provava ad educare le masse, qualcuno più in alto di lui preparava il più grande bluff del XX Secolo, bluff riuscitissimo. I governi italiani deboli ed uno squadrismo sempre più sfacciato e manganellante avevano creato la broda di coltura ideale per il grande salto.
Luigi Facta era un Capo di Governo amebico e poco carismatico, uno di cui Mussolini disse che avrebbe voluto “tirargli i baffi” ogni volta che lo vedeva. Il capo del fascismo aveva intuito perciò che sarebbe bastato forzare la mano a “Sciaboletta” e tutto sarebbe andato perfettamente ad incastro. Chi era Sciaboletta?
Vittorio Emanuele III di Savoia, che non essendo notoriamente altissimo era stato perculato fin dai tempi della Nunziatella. Quando i commilitoni ironizzavano sul fatto che per lui ci sarebbe voluta una sciabola a misura di nano, pena il suo inciamparci sopra ad ogni passo.
I due fonogrammi: “Arrivano”
Da Perugia la marcia partì il 26 ottobre, con i Quadrumviri a coordinare in estetica un blitz che si sarebbe rilevato una mezza trattativa con il generale comandante la Piazza di Roma. Il rapporto di forze era sbilanciatissimo, ed il Regio Esercito avrebbe potuto fare pappa di quelle scalcagnate ghenghe.
Ma non lo fece: e Mussolini, che “fiutava la gente come le bestie fiutano il tempo” lo sapeva. Gli andò liscia e l’Italia cambiò faccia, anzi “faccetta”, per un ventennio. A Frosinone e nei giorni precedenti l’opera di proselitismo di Ghislanzoni era culminata con una dimostrazione di forza. Cioè con una cosa che si fa esattamente quando forte non lo sei, perciò lo devi far vedere. Il 15 ottobre venne convocata un’adunata generale di tutti i Fasci ciociari.
La Questura spedì due fonogrammi allarmati che il libro di Federici riporta integralmente: “Per domenica 15 concentramento fascista a Frosinone di circa 3.000 persone che in ultimo dovrebbero distruggere quella Cooperativa”. Poi: “Domenica convegno fascisti Circondario di Frosinone. Interverranno 1.000 persone. Con l’on. Dudan, Calza-Bini e Igliori del Direttorio laziale. Si terrà riunione in quel teatro per discutere circa azione fascista. Presenti rinforzi 100 carabinieri e 40 militari di truppa”.
Elmetti per tutti, ecco Bottai
Si procedette perciò con la distribuzione degli elmetti ai Reali Carabinieri, dato che quelli che stavano per arrivare in città erano notoriamente fegatacci attaccabrighe. Come oratore “official” per quell’evento fondativo del fascismo con le ciocie arrivò nientemeno che Giuseppe Bottai, l’antitesi del “Superfascista” (definizione di Arrigo Petacco – ndr) Alessandro Pavolini, l’uomo di pensiero che sarebbe diventato Ministro dell’Educazione Nazionale. E che sulle venture leggi razziali dimostrò un “accanimento superiore perfino a quello di Mussolini”.
Fu proprio da Frosinone che Bottai “spoilerò” la Marcia Su Roma. Così: “Siamo attrezzati per l’insurrezione, siamo pronti all’elezioni. L’una e l’altra strada portano a Roma. Comunque Roma ci attende”.
Le milizie ciociare di Gatti
Il resto lo racconta il voluminoso “Storia della rivoluzione fascista“ scritto nel 1929 dal giornalista Giorgio Alberto Chiurco. Riporta in modo integrale il memoriale redatto dal maggiore Fermo Gatti di Ceprano, comandante delle squadre fasciste partite dal Frusinate.
“I fasci della Ciociaria che con organizzazione oculatamente predisposta dal segretario della sub federazione dott. Ghislanzoni nella notte del 27 parte in camion per la via Frosinone Fiuggi, parte per la linea ferroviaria Ceprano-Frosinone-Segni, si concentrano a Valmontone ove era stato ordinato il concentramento onde sorvegliare le provenienze da Napoli e Roma sulla Casilina e sulla ferrovia“.
Il maggiore Fermo Gatti assume il comando e divide la forza in 4 Coorti. Coorte di Velletri, al comando del tenente Marcello Reboani; Coorte dei Castelli al comando del tenente Pietro Santovetti; Coorte del Prenestino al comando del tenente Luigi Ballanti; Coorte Ciociara alle dirette dipendenze del tenente Raffaele De Sio di Ceccano.
La coorte Ciociara a sua volta è suddivisa in 4 Centurie: quella di Frosinone al comando di Pasquale Magliocchetti, quella di Anagni al comando di Silvano Gigli, quella di Fiuggi al comando di Arturo De Carolis e quella di Ceccano al comando di Raffaele De Sio.
La marcia si ferma a Valmontone
Ma perché queste forze si fermano a Valmontone nelle giornate del 28 e 29 ottobre? È difficile poter dare una risposta netta. Giorgio Alberto Chiurco scrive: ”per sorvegliare la provenienza da Napoli e Roma e sulla ferrovia“. Mentre Antonino Repaci in “Mito e realtà della marcia su Roma” riporta che “nell’interno della stazione era presente un distaccamento del Genio Ferrovieri e un certo numeri di Reali Carabinieri che bloccarono senza problemi la ‘marcia’ dei fascisti”.
Per tutti gli uomini presenti a Valmontone vengono prese delle misure logistiche: il Comando prese posto nel Palazzo Doria Panfili mentre la truppa trovò ricovero nei granai della residenza del principe. Per quanto riguarda il servizio viveri “viene organizzato con buoni di prelevamento nelle osterie, il servizio cassa con sovvenzioni del Comune e di notabilità locali […] l’ambiente completamente antifascista tenta in primo tempo l’ostruzionismo anche per i viveri, ma gli ordini severi operano un salutare cambiamento“.
A proposito di queste ultime considerazioni viene incontro la sottile ironia di Maurizio Federico. “I contadini di Valmontone nella stragrande maggioranza organizzati in una forte lega contadina, erano effettivamente antifascisti. Ma non sempre i numerosi scontri che si verificarono in paese in quei giorni con ‘i marciatori’ ebbero motivazioni ideologiche: in realtà essi furono quasi sempre causati dalla strenua difesa da parte dei contadini dei loro pollai, anche a fucilate, dalle incursioni dei fascisti sempre più affamati“.
Sciaboletta non firma lo Stato di Assedio
Già, Roma li attendeva, quei disperati che si fecero governanti in una manciata di ore, e non per ricacciarli fuori le mura a ditate negli occhi. Roma ed un re imbelle che il 26 ottobre non controfirmò lo Stato di Assedio varato dal Governo.
Per complicità, secondo una vulgata. Per realismo, secondo altri storici. Temeva un colpo di Stato e che dietro ci fosse un complotto per rimpiazzarlo con suo cugino il Duca d’Aosta. Pare che abbia domandato come si sarebbero schierate le forze armate in quel caso. Ricevendone una risposta del tipo “I Carabinieri e la Regia Marina stanno con la Monarchia, l’Aeronautica è fascista”. E l’Esercito? “Metà e metà, maestà: meglio non verificarlo”. Gli Aosta dopotutto i galloni sulla divisa se li erano guadagnati sul campo e godevano dell’ammirazione delle Forza Armate.
Fu così che il Re fece riempire l’Urbe di invasati teschiotibiati che gridavano “Allarmi!”, ebbri di vino, grazia ricevuta e rovere infilato nei cinturoni.
E che consegnò l’Italia al suo periodo più buio e ad un uomo che a Roma ci arrivò in treno, comodo in un vagone letto. Giusto in tempo per assestarsi il cilindro in testa e portare l’Italia verso gli “immancabili destini”. Dopo aver sostituito il cilindro con il fez e la democrazia con la tirannide.