Internazionale: i protagonisti della settimana nel mondo

Internazionale. I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

TOP

LE BRON JAMES

Il suo ultimo round con Donald Trump si era concluso con un secco «chi se ne frega se non ci guarda in tv». Così, tanto per scansare ogni equivoco. Parliamo di round ma non è boxe, è basket. Il basket stellare che gioca Le Bron James, superstar della NBA in forza ai Los Angeles Dodgers, che contro Trump è sulle barricate ormai da un po’.

Tempo fa la squadra si era inginocchiata durante un match a favore dei diritti dei neri e il presidente non aveva gradito. E siccome quando Trump non gradisce una cosa gli parte l’incontinenza da tweet, da quell’episodio era scaturito un caso. Cioè il social match fra il cestista che muove un pallone arancione e lo statista che l’arancione ce l’ha in capoccia.

Asterisco: quando James giocava con i Miami Heats Trump in pubblico lo considerava una via di mezzo fra dio e un rialzo in borsa. Ma quella era la Florida: repubblicana, pensionata e buen retiro storico del presidente. Cose che capitano quando l’appeal segue i flussi della geopolitica.

Ma James non è una star del basket per nulla. Uno cioè che se decide di fare cose eclatanti puo’ reggere addirittura i ritmi della Casa Bianca. E l’ultima mossa è toccata a lui. Che ha deciso di organizzare i compagni di team e chiedere alla società di fare una cosa. Anzi, due. Primo, mobilitare “More Than A Vote”. Si tratta di una potentissima no profit che raggruppa artisti e sportivi neri. Due, ottenere che il Dodger Stadium, il tempio della NBA di Los Angeles, diventi un sito elettorale per le Presidenziali 2020, un seggio in pratica. Attenzione, il gesto è forte non solo per la simbologia politica in sé. E’ atto di strategia concreta.

Donald Trump. Foto © Gage Skidmore

Perché proprio la California in quota West Coast sarà si una storica terra liberal, cioè democratica. Ma è anche luogo dove le contee registrano alte percentuali di astensionismo fra il black people. Percentuali che i paurosi contagi Covid californiani rischiano di incrementare a tutto vantaggio degli ‘elefantini’. Parliamo dello stato che ha da sempre governatori dem e che ha espresso la potenziale vicepresidente colored di Biden. Stato che è terra di movimenti LGTB, che ha visto lottare Harvey Milk. E che ospita San Francisco e Hollywood, vere enclave anti repubblicane e prog. Uno stato cioè che non puo’ permettersi di toppare. Non stavolta che nei sondaggi Trump fa il levriero e Biden fa la lepre.

E James ha fatto sentire tutto il suo peso per fare quello che negli Usa fanno i neri di successo. Cioè battere il ‘nemico’ con gli stessi mezzi con cui il nemico aveva soggiogato la sua gente per secoli. Cioè il potere brutale del carisma. Che una volta stava in punta di forca e di cecità legislativa, oggi sta esattamente a 3,05 metri dal suolo. All’altezza regolamentare dove le meravigliose giocate di James ficcano la palla nel cesto.

Tiro da tre.

TURKI AL FAISAL

Cosa c’è di più disincantato dalla politica di un principe saudita? Semplice: la necessità che quel principe saudita ha di usare la politica come rateo morale. Rateo per mettere sotto scacco un altro potente. Il che fa capire e ribadisce che la politica in angolo non ce la metti mai. Ed esattamente questo ha fatto Turki Al Faisal, che è principe e diplomatico di alto rango. Nonché membro della famiglia-combriccola che governa lo stato leader del Golfo da anni ed annorum.

Il principe Turki Al Faisal. Foto © swiss-image.ch

Piccolo appunto. I ricconi del petrolio saranno anche tipi che ciucciano datteri e girano con la tovaglia in testa, ma sono tutti di formazione accademica Usa o british. Come il nostro, che ha studiato a Princetown. E che a Georgetown ha preso una seconda laurea avendo come compagno di corso un certo Bill Clinton.

Lo ha fatto prima di trasferirsi in un mega attico di Ryhad. Un terrazzone dal cui cordolo esterno si dice occhieggino due cecchini in servizio permanente e una batteria di missili terra aria 650 Slam/Er. Questo per dire che si tratta di personaggi molto addentro alle faccende occidentali, non di cammellari con Le Mille e una Notte sul tappeto.

E Faisal ha tenuto fede al battage e la sua bordata l’ha sparata secca. «La condizione a ché l’Arabia Saudita normalizzi le sue relazioni con Israele? E’ la creazione di uno stato palestinese sovrano. Con Gerusalemme come capitale». Boom. Sotto il grugno di chi lo ha detto così chiaro e così tondo? Sotto quello gargantuesco di Donald Trump, che a fine agosto aveva fatto partire la fase due della sua nuova sgroppata diplomatica.

Il capo della Casa Bianca aveva infatti invitato l’Arabia Saudita a fare come gli Emirati Arabi. Che sono recentemente in mezza luna di miele con Tel Aviv. Lo sono dopo la rinuncia di Israele ad annettersi i territori della Cisgiordania.

Da quell’accordo era nato un mieloso loop che aveva spinto Trump a fare il piacione anche con il potentissimo regno di Saud. Ma l’Arabia Saudita ha come diplomatico di punta Al Faisal, che non è solo un ciambellano di grana grossa. E’ stato direttore dell’intelligence per 23 anni. Era anche finito al centro di velati sospetti per il botto a Ground Zero (si era dimesso un giorno prima dell’11 settembre). Insomma è uno che la sa lunga. E che conosce benissimo gli effetti collaterali di una sovraesposizione buonista. Dove? In un Paese che ha dato natali e grip operativo a Osama Bin Laden e ai mal di pancia armati dei wahabiti.

Al Faisal non ha rinnegato la buona fede dei contraenti. Ma non ci sta ad entrare in calce al contratto come uno scodinzolante partner morale, e terzo. E lo ha detto chiaro. Salvando orgoglio e probabilmente sicurezza interna del suo paese.

Diplomattico.

FLOP

ANDRZEJ DUDA

Scandali politici, recessione economica e barra tutta a destra. Dritti di sperone contro i diritti Lgbt e fuori rotta dalle leggi che proteggono dalla violenza domestica. In una parola siore e sior, la Polonia 2.0. Una nazione che stenta ma non troppo ad identificarsi con il suo presidente. Un arcigno Andrzej Duda che, per il suo secondo mandato, si era giocato la matta. Cioè carta della lotta a muso duro a tutti i diritti che il Partito ultra conservatore Pis gli scrive in agenda. E che continua imperterrito su questa linea littoria.

Andrzej Duda

Tutto malgrado la risoluzione con cui Bruxelles condannava e chiudeva i rubinetti economici alle cosiddette “Lgbt Free Zones”. Cosa sono? Amministrazioni che hanno deciso di applicare tout court le regolette mastine del presidente.

Tutto questo mentre da poco meno di 10 giorni la Polonia è ufficialmente entrata in recessione. Ed è la prima volta da quando era sfuggita al tallone sovietico, si badi. Lo stato dell’ambra aveva sempre avuto segno più. Con punte di Pil che fino a qualche anno fa avevano fatto arrossire la stessa Italia.

Obiettivo della nuova Polonia nazionalista è il Trimarium. E’ un piano che vede Varsavia coltivare il sogno di una grandezza perduta assieme alle nazioni baltiche, alla Bielorussia ed alla Croazia. Una specie di federazione dell’est che metta il dito negli occhi di Mosca, l’antica potenza egemone. Come accade a tutte le nazioni che hanno messo elmetto alle idee e tensioni sociali in target, gli scandali politici erano arrivati a traino. Come i pidocchi dove c’è sporco.

Il la lo hanno dato il ministro della Sanità Łukasz Szumowski e il suo vice Janusz Cieszyński. Tutti e due erano incappati nella slavina di roba calda e marrò delle spese. Spese sospette con i fondi per acquistare Dpi durante la fase acuta del Covid. Il primo poi si sarebbe superato, facendo approvare progetti per nuovi farmaci per 67 milioni di euro a favore di Onco Arendi Therapeutics. E’ la società biotecnologica gestita da suo fratello Marcin. Solo che sul mercato non era arrivata neanche un’aspirina da banco.

Con il leader sovranista ed euroscettico del Pis Aleksander Kaczyński a dettargli la linea, Duda pare destinato dunque a diventare icona. Di cosa? Della pesantezza delle cambiali che i capi pagano ai Partiti con gli alamari che li hanno messi in arcione. E che un po’ sposando la linea, un po’ facendosela piacere, riportano i loro Paesi al buio.

Varsavia Uber Alles.

MAERI

Non è una parolina magica per fare macumbe, ma un sito, il sito di propaganda della Corea del Nord. Dominio web che, al di là del 38° parallelo, è un po’ corda vocale in pixel di Kim Jong Un. Questo almeno fino ad una manciata di ore fa. Quando cioè agenti del Dipartimento della Sicurezza di Stato hanno fatto una discreta visita al team di amministratori operativi.

Kim Jong Un

Dalla BBC non trapelano che poche notizie. Tuttavia parrebbe che gli agenti del famigerato servizio di sicurezza con il crest rosso blu nella parte interna del polso abbiamo fatto sfaceli. Ma perché un sito che è estensione quasi fisica di un tiranno fatto e finito è diventato oggetto delle attenzioni della sbirraglia del tiranno stesso?

E’ presto spiegata ma serve un preamboluccio. La Corea del Nord non ha internet free, ha una rete domestica conosciuta con il nome di Kwangmyongsong. Una faccenda che, oltre ad essere impronunciabile per una lingua che non sia stata immersa nell’assenzio, è anche disconnessa dal world wide web.

Disconnessa e sorvegliata come un cortile di polli quando le faine figliano. Due settimane fa però pare che una manutenzione necessaria ma intempestiva abbia fatto il danno. E Maeri ha diffuso la notizia per cui in Corea del Nord sarebbero attive e richieste a gran voce dal popolo campagne contro il fumo delle sigarette. Dice mbè? E no, perché il team di censori adibito alla scrematura delle news gradite al leader supremo ha dimenticato due cose. Una concreta e l’altra concretissima.

La prima: visionare la home page dopo la manutenzione. La seconda, togliere subito quella crociata anti fumo in un paese dove il capo dei capi è fumatore accanito. Nonché incazzosissimo despota e permaloso amante dei plotoni di esecuzione. Perché si, il brevilineo e tracagnotto dittatore nord coreano è un fumatore di grana grossa. E non sono poche le foto che lo ritraggono con una ‘cicca’ soavemente parcheggiata all’angolo della bocca. Bocca che usa così spesso per latrare cannoneggiamenti ai reni di chi non gli dà ragione.

Il risultato è stato quello del blitz contro i custodi del sito filo governativo. Questo in un periodo in cui tutto il mondo si interrogava sul presunto rincitrullimento di Kim. Kim che avrebbe delegato parte dei suoi immensi poteri alla sorella Yo. Una delega che evidentemente non includeva l’amministrazione di quelli che un impagabile Giulio Andreotti chiamò ‘vizi minori’.

Il fumo (del capo) nuoce gravemente alla salute.

MENZIONE SPECIALE

LA GIUSTIZIA SAUDITA

Annullate le cinque condanne a morte a carico degli imputati per l’omicidio di Jamal Kassoghi. Il che è un bene assoluto per la parte di mondo che rifugge lo sconcio del taglione. Confermata dalla corte la definitiva chiusura del caso, senza che un solo funzionario o alto papavero del regno sia arrivato in aula. Il che è un male per la parte di mondo che rifugge la giustizia burletta. Si chiude così il caso dell’omicidio splatter e irrisolto del giornalista del Washington Post, smembrato da un kill team saudita ai primi di ottobre del 2018.

Jamal Khashoggi

Al Jazeera informa che le condanne sono state così commutate. Sono toccati 20 anni di carcere a cinque degli otto imputati. Condanne fra 10 e 7 anni ai restanti tre. In tutto dieci chiamati alla sbarra di cui però non si conoscono le generalità, roba che la Spectre a questi gli spiccia casa.

E sull’esercizio dell’azione penale nei confronti dei quali la definizione di parodia della Giustizia calza a pennello. L’ha data Khalil Jahshan, del Centro arabo a Washington. Che ha anche riportato la velina dell’ufficio del procuratore con quel secco annuncio: «Caso chiuso per sempre».

Gli esperti Onu avevano storto il naso fin dagli inizi del dibattimento. E subito dopo aver saputo che i familiari di Kassoghi avevano dichiarato di aver perdonato gli assassini. Quali poi fossero realmente gli assassini era rimasta faccenda di fuffa.

Un investigatore indipendente delle Nazioni Unite aveva poi rilevato l’ovvio. Che cioè nessun alto funzionario né alcun mandante era stato giudicato quanto meno meritevole di processo. Il tutto con la chiosa alla grand guignol di un amico, Al Jahshan. Chiosa secca e irrisolta: «Si, ma il corpo di Jamal dov’è?».

Mani lorde.