Internazionale: Top e flop dal mondo. I protagonisti della settimana

Internazionale. I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

TOP

ELON MUSK

È talmente visionario che ormai a scrivere che è un visionario ci si fa la parte dei tardi. In un mondo magicamente abitato da soli diciottenni si direbbe che lui è ‘avanti’ e basta. Però in Elon Musk c’è sempre qualcosa che va al di là della follia messianica dei guru impaccati di soldi che hanno idee fulminanti. E lo si vede dal fatto che Musk, appena gli si accende una lampadina sulla sommità della capoccia torna ad essere un solido nerd a capo di uno staff di cervelloni mondiali. E parte di progetto.

ELON MUSK. FOTO © JD LASICA

In questo caso, ci dice CBS, lo ha fatto pubblicando un annuncio di lavoro dal sito di Space X, la sua azienda aerospaziale.

I giocattolai di Musk cercano «ingegneri esperti delle operazioni offshore». Inutile dire che solo a fiutare l’annuncio le borse di tutto il mondo hanno peppiato come il ragù. Perché l’arcano si è svelato nel giro di poche ore. Dopo aver inaugurato i voli spaziali privati con un lancio epocale, Elon vuole fare di più. Inaugurare cioè l’era dei voli ipersonici che consentiranno di collegare tutte le città della terra in un’ora sola.

E vuole farlo costruendo degli spazioporti galleggianti giusto un po’ più in su del limite dell’atmosfera, dove si vola più veloci e placidi. Un po’ come delle stazioni di servizio ma a quota tale che il Texas da lì sembrerebbe una voglia di fragola.

Ma non basta: Musk vuole costruire la sua base di lancio sul mare, a Brownsville. A uno sputo cioè dalla sede texana monstre della sua Space X. Perché i lanci dal mare sono un vecchio rovello di Musk e della Cina, che ci lavora dal 2019.

Le piattaforme sui flutti sono più flessibili ed eventuali detriti fanno meno danni in caduta. La velocità stimata per questi torpedoni del cielo che il miliardario vuole operativi entro 10 anni è di 5 volte Mach 1, roba da pettinare Cocciante alla umberta. E Musk con questo suo progetto non ha fatto mistero di puntare alla preda grossa: i voli commerciali verso Marte.

Baronetto di Munchhausen.

BRIAN KEMP

Della Georgia i più ferrati musicalmente ricordano l’inno, ‘Georgia on my mind’. Venne eseguito da Ray Charles in una memorabile esibizione ad Atalanta nel 1979. Quella canzone, che The Genius aveva presentato come cover di un pezzo degli anni ’30, portava in grembo un antefatto. Quello di un episodio avvenuto pochi anni prima, quando un Ray in fregola politica si rifiutò di suonare in Georgia.

BRIAN KEMP. FOTO: GEORGIA NATIONAL GUARD

Lo fece perché lì la segregazione razziale era regola aurea e la polizia gli manganellava i fans sotto il grugno.

Diventato una star internazionale, ebbe la soddisfazione di riesibirsi finalmente in un clima di odio più attenuato per i neri. E diventò destinatario della più grande operazione di lavaggio della coscienza che Dixieland ricordi. Lo divenne con la sua canzone elevata ad inno, malgrado già allora molti dicessero che Georgia era in realtà una donna.

La Georgia però aveva tenuto duro per decenni su una linea che vedeva la segregazione magari come anacronismo, ma non certo come aberrazione.

Tanto che nello stato il razzismo non era considerato crimine di odio. Questo almeno fino a poche ore fa, quando secondo CNN il governatore Brian Kemp ha recepito una proposta di legge del parlamento statale ed ha annunciato che la firmerà.

Ad oggi negli Usa restano ancora tre stati, Carolina del Sud, Wyoming e Arkansas, che si ostinano a non legiferare per sanare l’ennesimo grande sconcio americano. Lì per una parte lesa è impossibile dimostrare che si è sparato ad un nero proprio e solo perché era nero e non perché era un rapinatore.

E’ lo sconcio di un Paese immenso, che cela nelle pieghe del suo federalismo totale gli spettri di codici antichi e crudeli ancora in vigore. E che vive di paradossi sanati solo dalla lungimiranza dei singoli governanti o dall’onda emotiva innescata da specifici episodi di rottura. Negli Usa niente pare destinato a maturare senza traumi.

Ray ora ride.

FLOP

MANUEL OBRADOR

Essere il primo presidente del Messico ad aver costruito il consenso sull’immagine del progressista a tutto tondo ha i suoi svantaggi. Perché il Messico è un Paese che prima o poi ti sbatte in faccia i tuoi proclami. E il più delle volte te ne tronca brutalmente l’attuazione concreta, specie in materia di lotta al crimine. La Repubblica non è mai riuscita a togliersi di dosso quell’immagine da ‘Paese di sparatutto’.

MANUEL OBRADOR FOTO © DAVID AGREN

Colpa degli otto cartelli madre della droga che spadroneggiano assieme ad un miriade di sub galassie criminali. Tuttavia, se si parte dal presupposto che le mafie non sono mai erbacce spontanee e che per crescere hanno bisogno del concime della politica, allora in Messico di colpe ce ne sono altre.

In primis quelle del suo presidente, che aveva vinto le elezioni giocandosi la carta dell’approccio ruvido e pistolero al crimine. Manuel Obrador, con il Movimento di Rigenerazione Nazionale, aveva perfino riformato i servizi interni, il Cisn.

Li aveva resi agili e letali propaggini sotto il controllo diretto del suo ufficio. Lo aveva fatto aumentando i fondi per l’addestramento mirato a combattere Los Zetas, il cartello più militarizzato di tutti. Eppure solo qualche giorno fa 15 attivisti di un gruppo che si era opposto con successo all’installazione di alcune pale eoliche nello stato di Oaxaca sono stati ammazzati.

Sparati, bruciati e frantumati moribondi a colpi di blocchi di cemento. Secondo El Nuevo Herald l’area apparteneva al gruppo degli indios Ikoots, che la considerano sacra. Sacra e meritevole di impatto ambientale zero, data la sua ricchezza naturalistica.

E il guaio è questo: da quelle parti non c’erano terreni contesi per coltivare droga, ma solo interessi economici di società spalleggiate dal governo. Che si è fatto ammazzare 13 uomini e due donne sotto il naso.

Tortillas e tortura.

HASHIM TACI

La notizia lo ha colto mentre stava preparando le valige per andare in visita ufficiale a Washington. Dove, con la mediazione del chiacchierato ambasciatore Usa in Germania Rich Grenell, doveva far pace con il nemico di sempre: la Serbia. La notizia ha assunto la forma di una notifica del Tribunale dell’Aja e, prima ancora che a lui, Hashim Taci, ha dato una botta alle coronarie di Donald Trump.

HASIM TACI

Il presidente Usa sperava infatti di acquisire crediti diplomatici grossi. E di farlo mettendo nella stessa stanza i rappresentanti dei paesi che forse si odiano più sul pianeta: Serbia e Kosovo. Ma Taci, leader di quest’ultimo, è stato formalmente accusato di crimini di guerra ed ha fatto una retromarcia tanto speed quanto letale per i sogni diplomatici della Casa Bianca. Lo sostiene The Guardian. Il Kosovo è indipendente dalla Serbia dal 2008, dopo una guerra macellaia come poche ed orrori bilaterali che misero la Nato sotto scacco.

Ma la Serbia non ne riconosce ancora oggi la sovranità, forte anche del fatto che l’Onu non ha mai dato un seggio alla piccola ex enclave albanese. E lo ha riconosciuto solo a marzo, 3 mesi fa e in piena pandemia. In questa brutta faccenda c’entra il domino malefico della politica internazionale. Un domino per il quale gli Usa usano da sempre la Serbia come base logistica di sovranismo. In più fomentano lo storico nazionalismo del popolo balcanico, il più fieramente destrorso in assoluto, per muovere le loro pedine in senso anti comunista. In Serbia ‘ci ha studiato’ per esempio Juan Guaidò, il quasi presidente del Venezuela che di Washington è sommo protegè.

La vulgata dava solo a Belgrado, che ha l’esercito più spiccio e pulp del pianeta, la paternità delle atrocità messe in atto in quel conflitto. Ora spunta però l’accusa per cui anche il leader di Pristina pare si sia fatto prendere la mano. A riprova del fatto che, se Churchill considerava i Balcani tutti la polveriera del mondo, forse un po’ di ragione ce l’aveva.

Meglio che Taci.