Internazionale: Top e flop dal mondo. I protagonisti della settimana

Internazionale. I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

TOP

RICHARDY ANDERSON

Fare la preside in un liceo americano non è solo vestire i panni hollywoodiani della spalla burbera. Del capo cioè utile in senso goldoniano a far spiccare le mattane di nerd, simpatiche canaglie e cheerleaders in amorazzo.

Significa avere un rapporto strettissimo con la società che fornisce ‘la materia prima’. Ed è rapporto che, nella mistica Usa, spesso si trova impantanato nella melma delle mille contraddizioni del tessuto sociale degli States. Una delle quali è proprio la recente ondata di buonismo di ritorno con cui i simboli razziali sono messi all’indice.

Il generale Robert E. Lee. Ritratto © Mort Künstler

E lo sono di pancia, senza una riflessione concettuale. Tanto all’indice da finire spesso abbrancati da paranchi e rimossi come molari marci. In un contesto del genere nulla avrebbe vietato a Richardy Anderson, preside di un liceo di Fairfax, in Virginia, di seguire l’onda. E di allinearsi ad una perentoria lettera del Consiglio scolastico. Nello scritto, riportato da CBS, si sosteneva la necessità storica (da noi già sentita dalle parti di Piazza Venezia) di cambiare il nome alla scuola, intitolata al generale confederato Lee. Optando invece per quello di John Lewis, il combattente per i diritti civili dei neri recentemente scomparso.

Vabbè non c’è partita, ma in democrazia la partita è l’essenza e il risultato è secondario. Anderson perciò non ci è voluta stare, non nelle forme con cui la faccenda le era stata praticamente imposta. E ha ricordato a tutti che l’America è la democrazia più antica del mondo moderno. Come? Con una lezione esemplare. Ha disposto qualche ora di login per gli studenti già in vacanza. Ed ha chiesto ai suoi ragazzi di analizzare sia le figure di Lee che di Lewis, ciascuna calata nel suo contesto storico. E poi li ha fatti votare sull’opportunità di cambiar nome alla scuola.

Richardy Anderson, preside del liceo di Fairfax

Ha vinto la linea del cambiamento e da settembre il liceo Lee sarà ufficialmente il liceo Lewis.

Ma non è dove si è arrivati che conta, visto che era esattamente dove il Consiglio voleva che si arrivasse. È il come. Un come che sa di autodeterminazione, di presa di coscienza non umorale perché figlia della conoscenza. Un come che ha il sapore speziato delle casse di tè gettate a mare nel porto di Boston e della cavalcata notturna di Paul Revere.

Perché la libertà senza l’intelletto è solo una tirannide passata in sala trucco.

Capitana mia capitana.

DAVID HAINES

Il tipo ha fiuto, non c’è che dire. Il voluminoso Ceo di Upfield David Heines sta al passo con il volume di affari spaventoso della multinazionale che guida dal 2018. E non si riesce a capire chi dei due metta birra all’altro, ma l’effetto è lo stesso. Quello per cui prima di tutti e con un tempismo che si traduce in paccate di danè, ha portato Upfield a fare il botto. Ad acquisire cioè tramite il marchio della controllata Flora la Violife, ex colosso della margarina con sogni caseari nel cassetto.

I PRODOTTI VEG VIOLIFE

Costo dell’operazione: 500 milioni di dollari. Questo è il fatto in polpa finanziaria, ma c’è un narrato che ha tutti i crismi delle grandi operazioni che fondano sul saper anticipare rotte ed umori delle società complesse in bilico fra toro ed orso.

Poche settimane fa uno studio commerciale e sondaggistico britannico stila un report. In quella relazione si sostiene che i cittadini del Regno Unito, anche a causa del lockdown, hanno radicalmente cambiato le loro abitudini alimentari. E, udite udite, si sono scoperti vegani. Anzi, di più: un robusto 18% è vegano talebano, nel senso che cerca con tenacia i suoi prodotti preferiti non più negli store di nicchia ma sugli scaffali dei market.

Sono oltre 107 le nuove aziende che puntano al settore, con un aumento del 128% rispetto ai soli 47 marchi registrati nel biennio 2018/19.

Secondo The Guardian prima della pubblicazione il report era stato chiuso a chiave nella cassaforte di uno dei membri dello studio. Questo per evitare che i volponi della City mettessero le mani sull’info ed avviassero speculazioni al ribasso sul settore delle carni. A quel punto era entrato in gioco Heines, che non a caso è anche manager di punta della Imperial Tobaccos.

DAVID HAINES

Uno cioè che sul mercato ci va come Russel Crowe andava a maciullare gladiatori in arena. Non è un caso che lo chiamino Drakkar Dave, dal nome delle navi vichinghe da scorreria usate nel Medio Evo per dare diarree clamorose a mezza Europa. Un animale da preda con grandi doti teatrali insomma. Il Ceo avrebbe organizzato un mega brunch con musica e sciampagna. E grazie allo show sarebbe riuscito a metter mano su sondaggista e polpa del sondaggio giusto nei minuti in cui veniva lanciato on line. Cioè senza fare insider trading, pulito ma squaliforme.

Giusto in tempo, pochi minuti dopo, per correre a comprarsi il principale produttore al mondo di formaggio vegano, Violife appunto. Mettendo così suggello all’affarone agostano del decennio. Con quotazioni schizzate alle stelle ed azioni in ascensore. E con i palati degli inglesi che, da pudding e steaks, sono passati a pappette, germogli e caciotte di kamut.

Predattore.

KAMALA HARRIS

(di Serena Danna per Open)

C’è una foto in bianco e nero che ha preso a circolare sui social da quando Joe Biden ha nominato Kamala Harris sua possibile vicepresidente. Ritrae i genitori di Harris da giovani – mamma di origine indiana, papà giamaicano – che guardano fieri e pacifici nell’obbiettivo.

I genitori della possibile vice presidente Usa

Sono gli anni Sessanta del tardo impero segregazionista e delle lotte civili, quando l’America cominciava a mostrare le sue ferite al mondo. I genitori di Kamala si incontrano nella mitica università di Berkeley. Rappresentano la parte migliore del Paese che si sta formando lontano dalla plastica perfezione degli anni Cinquanta. Shyamala e Donald – lei diventerà una ricercatrice in oncologia, lui un economista – portano le figlie Kamala e Maya alle manifestazioni, le educano alla rivendicazione della propria eguaglianza e libertà senza però perdere di vista un principio: l’America è il luogo migliore dove crescere.

Kamala Harris è il prodotto di questo insegnamento. All’interno di un Partito che, a furia di odiare le ingiustizie e il suprematismo, ha cominciato a odiare l’America stessa, Harris ha il compito di tenere insieme proprio la lezione dei suoi genitori: lavorare per un Paese più moderno, e quindi più inclusivo e più giusto, senza dimenticare che non c’è luogo migliore dell’America dove far crescere i propri figli.

Alle fantasie distruttive dell’ala più radicale del partito democratico, Harris risponde con un pragmatismo costruttivo. Lo stesso che l’ha portata negli anni da procuratrice della California a fare le sue scelte basandosi sui singoli casi, mai spinta dall’ideologia. Per questo è stata osteggiata da molti elettori “di sinistra” che la accusano, tra le altre cose, di aver contribuito all’ “incarcerazione di massa” degli afroamericani e di aver protetto l’attuale segretario del Tesoro Steve Mnuchin quando era a capo di OneWest durante un’inchiesta sulla banca.

KAMALA HARRIS CON JOE BIDEN

Se eletta, la sua nomina farà segnare due primati: Harris sarà il primo vicepresidente donna e il primo non bianco. Ma il colore della pelle, così come il genere, non esauriscono la sua identità politica. Che si parli di economia, sanità pubblica o spionaggio russo, la senatrice – e in questo forse ricorda Hillary Clinton – è sempre “la persona più preparata nella stanza”. E anche qui, il merito è di sua madre e del motto con cui ha cresciuto le figlie: «Puoi essere la prima, ma impegnati soprattutto a non essere ultima».

C’è un altro motivo per apprezzare la sua nomina. L’ex procuratrice è la candidata che durante i dibattiti televisivi ha attaccato più duramente Biden, l’unica che è riuscita a zittire il possibile presidente ricordandogli la sua opposizione negli anni Settanta alla cosiddetta “desegregation busing”, la pratica di trasportare studenti delle minorazione in scuole prevalentemente bianche per superare la segregazione.

Quanti uomini di potere del secolo scorso avrebbero nominato come braccio destro la donna che li ha umiliati pubblicamente in diretta televisiva? Biden l’ha fatto. C’è da sperare che questo ticket, se confermato dagli elettori, trasporterà davvero l’America in un futuro diverso.

Doppia speranza.

FLOP

KAYNE WEST

Kayne West ha un problema serio, non c’è dubbio. E il problema è duplice perché lui, come tutte le pop star mondiali, non fa nulla per nasconderlo, fa poco per risolverlo e tantissimo per aumentarlo. Il musicista statunitense, icona del rap, produttore, stilista e tanta altra roba che non elenchiamo ha calato due assi sghembi. Da un lato ha messo in piazza la sua bipolarità, dall’altro si è candidato alle Presidenziali Usa 2020.

KAINE WEST

Ed essendo nero e ricco si è sentito in diritto di strologare in nome e per conto di tutti i neri d’America. Dimenticando che il black people non è affatto immune dalle discriminazioni di censo, al contrario di quel che fa passare la vulgata mainstream sul tema.

Alla cerimonia con cui West lanciava la sua candidatura alla Casa Bianca era successo di tutto: travestimenti con giubbotto in kevlar, lustrini, paillettes, nani, urla e ballerine.

West era poi arrivato a chiedere il divorzio dalla moglie, la bellona callipigia Kim Kardashian. Che essendo figlia di Bob, storico amico-avvocato di OJ Simpson, gli aveva tenuto botta nella melina degli ultimi giorni. In cui i due si sono prima rimpallati accuse al pimento per poi far pace come due gattini. E alla fine di quella pace hanno fatto tesoretto gossip, con tanto di scuse di un Kayne che ha ammesso di avere qualche problema comportamentale. E di amare la suocera, il che fa di lui o un mentitore biblico o un malato cronico.

Nulla di strano a ben vedere, fuffa da rotocalco. Se non fosse per l’impietosa analisi del New York Post di questi giorni, che ha svelato un altarino già mezzo a nudo per chi sa fare due più due. Memo: il NYP è l’alter ego ‘povero’ del colosso New York Times, solo che dove il secondo è vicino ai democratici, il secondo, in quota Fox News, sbava per Partito Repubblicano.

Il sunto è che West ha le stesse probabilità di entrare alla Casa Bianca di Alvaro Vitali. Però una cosa puo’ farla: sottrarre parte dei voti neri al democratico Biden.

E quindi agevolare la strada verso la vittoria del suo amico Donald Trump, che con i voti colored ha qualche problema. Perché si, i due sono amiconi e bisbocciano assieme da anni a Mar-a-Lago, in Florida. Anche in questi giorni con gli Usa che hanno toccato i 5 milioni di casi Covid. Solo tre mesi fa il rapper sfoggiava il cappellino rosso d’ordinanza con lo slogan presidenziale “Make America Great Again”. E oggi l’America la vuole fare grande lui? Ma ci faccia il piacere…

Rappa che ti passa.

SERGHEI LIPIN

È oligarca puro e appartiene ad una categoria che mediamente mette i problemi ambientali fra il lusco e il brusco, come diceva Guareschi. Anche quando quei problemi diventano disastri come quello di Ambarnaya. Rewind e pazienza: il 29 maggio scorso una cisterna della Norilsk Energy implode come un fungo marcio e sversa in un fiume 20mila tonnellate di gasolio e lubrificanti. Quel fiume è appunto l’Ambarnaya.

IL DISASTRO AMBIENTALE IN SIBERIA

Siamo in Siberia e l’arrivo sui media a scoppio ritardato di Covid anche nella Russia di Putin mette la sordina al fattaccio. La new viene riportata goffamente per qualche giorno, salvo poi essere inghiottita di nuovo dai bollettini sui contagi a casa dello Zar. Nel frattempo la robaccia sversata inizia a fare il suo sporco lavoro. Lo fa iniziando a colorare il fiume di viola e di un agghiacciante rosso carminio, come il Dalek, il ghiacciolo degli anni ‘80. Lo fa ammazzando tutte le forme di vita sotto il pelo di quelle acque avvelenate. E lo fa anche contaminando 350 chilometri quadrati di territorio.

A dire il vero Putin con le mani in mano non ci sta, non è nelle corde del personaggio e probabilmente non lo è in quelle di nessun capo di governo, fosse pure Bokassa. Apre un’inchiesta e precisa subito, lucido come il nikel che a Norilsk viene prodotto, che tutti i danni verranno messi a carico della società. In più, trucido come un alce, mette in stato di fermo Viatcheslav Statostin, il direttore dello stabilimento. Tutto questo fino agli ultimi giorni di luglio, quando si pone un problema nei problemi. Il diesel infatti è più leggero del petrolio, con il caldo estivo evapora velocemente e rischia di andare ad avvelenare anche l’atmosfera, dopo acque e sottosuolo. In più la zona non è esattamente il New Jersey; mancano cioè infrastrutture, viabilità ed hub per procedere ad una bonifica speed quanto salvifica.

Vladimir Putin

E che ti spunta in mezzo alle carte raccolte dagli uomini della Sicurezza interna inviati sul posto per la sesta, leggasi, sesta missione di polizia giudiziaria sul caso? Una relazione agostana con cui un capo ingegnere avvisava il patron di Norilsk, Serghei Lipin, che la cisterna collassata era a rischio collasso da tempo. Agostana nel senso che è dell’agosto 2019. Un documento che il capoccia non aveva assolutamente messo in agenda operativa. Era protocollato con la sequenza della sua segreteria personale ma non aveva dato adito a iniziative concrete. E la Siberia, che da un secolo vede le sue bellezza pagare pegno alle smanie carcerarie e produttive dei potenti con il colbacco, ringrazia sentitamente.

Green maddechè.