Internazionale. I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo
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ROBERTO AZEVEDO
Il polverone lo aveva sollevato a maggio, quando aveva annunciato di volersi dimettere dal ruolo cruciale di presidente dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, in inglese WTO. Roberto Azevedo è brasiliano ed ha una solida carriera diplomatica alle spalle. Ma ha pagato pegno, nella sua decisione di mollare ad un anno esatto dalla scadenza naturale del suo mandato, a due effetti. Quello Covid, inevitabile. E quello Bolsonaro, evitabilissimo.
Uno dei principi fondanti della WTO è infatti lo sviluppo economico dei Paesi meno fortunati, da attuare con accordi internazionali stilati fra i 164 Paesi che aderiscono all’organizzazione. Tutto questo gestendo un budget annuale di base che si aggira intorno ai 200 milioni di franchi svizzeri. Perché svizzeri? Perché la WTO, da quando è nata nel 1995, proprio in Svizzera ha sede, a Ginevra. Azevedo era stato chiamato a gestire e coordinare le istanze di un reggimento di Paesi che da soli movimentano il 98% del commercio planetario, non esattamente un banco di ortofrutta ad Acilia.
Si era dimesso con fragore immenso e i rumors, robina indiscreta a trazione New York Times, davano questa sua decisione figlia di difficoltà precise. Quelle di dover sopportare una ‘suocera in casa’ del calibro del suo presidente, Jair Bolsonaro. Che, spalleggiato dal gemello diverso Donald Trump, avrebbe sempre cercato di imprimere alla politica del WTO un andazzo muscolare che proprio non lega con la mission ecumenica dell’organizzazione.
Spieghiamola meglio: in materia di accordi sul legname per esempio, il Brasile sovranista avrebbe spinto per ottenere vantaggi di vendita che mandavano però in vacca il diritto di Stati come la Mongolia a spuntare prezzi più competitivi. E proprio in questi ultimi giorni di campagna elettorale per nominare il suo successore, Azevedo ha tirato fuori il suo capolavoro dialettico.
Lo ha fatto rispondendo alle domande di East African sull’opportunità che il nuovo presidente possa essere un africano (in lizza ce ne sono tre). Laconico ma puntuto come una picca ha risposto: «Il commercio mondiale è la chiave per crescere tutti. Ma per capirlo devi capire che il Covid ha cambiato il mondo ed ha accelerato i suoi bisogni di solidarietà. E non tutti i governanti lo hanno veramente intuito».
E se non è una frecciata al suo presidente ed al suo negazionismo da bettola, poco ci manca.
Intervistao meravigliao.
TAISUKE ONO
Siamo in ballo? E allora balliamo come si deve. Anzi, parliamo, in otto lingue diverse. Tante quante è in grado di tradurre il software inserito nella mascherina facciale che la startup giapponese Donut Robotics ha tirato fuori dal cilindro in questi giorni. Il senso dell’operazione è chiaro. Lo confermano i numeri di questa nuova impennata di contagi. Se Covid è destinato a diventare ancora per molto compagno sgradito dell’uomo e se le mascherine resteranno un must planetario imprescindibile, tanto vale attaccarci un guizzo hi tech.
E in queste sgroppate tecnologiche i giapponesi restano capoccia assoluti, poco da fare. Dopo aver rimesso in cassetto il progetto del super robot Cinnamon, bloccato dalla pandemia, quelli di Donuts hanno creato una mascherina intelligente, molto intelligente.
CNN ci dice che si chiama C-Face Smart e che puo’ fare mirabilia. Cioè «trascrivere sotto dettatura, amplificare la voce di chi la indossa e tradurre il discorso in otto lingue diverse». Manca solo che faccia cantare come Mino Reitano e lo starter pack è completo.
Attenzione, il colpo di genio c’è ed è sottile: la mascherina non protegge dal virus e va indossata su quelle con normale funzione di Dpi.
Però alla Donuts l’hanno pensata incentrando tutto su un loop sociale semplice quanto inattaccabile. Quello cioè per cui se uno deve proprio indossarla, una mascherina, a questo punto tanto vale che ne indossi due e che con la seconda ci faccia business, public-relations e che ci chiuda contratti a sette zeri. Un business totem insomma, in un mondo che non guarisce né dalla sua fame di soldi né dalla sua paura di soccombere al virus.
Spiega Taisuke Ono, CEO di Donut Robotics, che l’affare è «realizzato in plastica bianca e silicone. Ha un microfono incorporato che si collega allo smartphone di chi lo indossa tramite Bluetooth. Il sistema può tradurre tra giapponese e cinese, coreano, vietnamita, indonesiano, inglese, spagnolo e francese».
Manca l’italiano, ma noi siamo già refrattari ad indossare la prima mascherina per star bene, figuriamoci a metter su una seconda per fare danè. Quindi si emenda il manager. Con riserva.
Arigatop.
MENZIONE SPECIALE
DONALD TRUMP
Rullo di tamburi e squillo di trombe please: Donald ha fatto qualcosa da presidente. E nella settimana in cui ha perso un fratello e ha definitivamente ripudiato Fox News per un network tv di estrema destra ha fatto una cosa. Ha calamitato cioè l’attenzione di un mondo che ormai lo conosceva solo per le scalmane machiste e per il muro messicano.
Alla vigilia di Ferragosto il capo della Casa Bianca ha tweettato: «Enorme svolta oggi! Storico accordo di pace tra due nostri grandi amici, Israele e Emirati Arabi».
La faccenda è grossa davvero. Grazie ad un accordo in cui Trump ha messo zampino diplomatico e pubblicistico Israele rinuncerà alle sue mire sulla Cisgiordania. Lo farà in cambio della normalizzazione dei rapporti con gli Emirati Arabi Uniti. E senza la benedizione della Palestina, che non sacrifica certo il piacere di tenersi un nemico storico al sollievo di vedere terra araba che araba resta.
Perché Israele sarà pure la nazione più bulla del Medio Oriente, ma per prendersi a fucilate lungo l’arco di 70 anni bisogna che i bulli siano in due. Altissima geopolitica che comunque lascia in bocca il retrogusto buono di un vero accordo di pace.
Ed è pace in luoghi e fra Paesi che conoscono la pace più o meno come la Svizzera conosce la guerra. E veniamo a Donald. Che sia imminente il voto presidenziale e che nei sondaggi lui guardi il didietro di Biden è un fatto. Che perciò al presidente con la zazzera orange servisse un accredito internazionale di peso pure è un fatto. Ma che Trump sia riuscito a sospendere una dichiarazione di sovranità da parte di uno Stato che la sovranità di solito la mette in punta di cannone è fatto altrettanto incontestabile.
La chiave di lettura più interessante l’ha fornita Maurizio Molinari su La Repubblica.
L’accordo di pace fra Israele ed Emirati Arabi Uniti nasce da un nuovo approccio dei Paesi arabi sunniti allo Stato ebraico, permette a Washington di tornare protagonista in Medio Oriente ed esalta la sfida strategica in corso per la leadership regionale fra gli sceicchi del Golfo e la Turchia di Erdogan. (…)
La scelta di Mohammed bin Zayed Al Nahyan, principe ereditario di Abu Dhabi meglio noto come “Mbz”, è stata dunque di ritenere che bisognava invertire i fattori per rompere lo status quo: riconoscere Israele al fine di avvicinare la risoluzione della questione palestinese.
Si tratta di una svolta nell’approccio degli Stati arabi a Israele – avvalorata dal convinto sostegno dell’Egitto di Al Sisi e della Giordania di re Abdallah – maturata attorno al comune timore nei confronti dell’Iran degli ayatollah, percepito come la maggior minaccia alla sicurezza collettiva a causa del suo programma nucleare come anche del sostegno a gruppi paramilitari sciiti impegnati, dal Bahrein allo Yemen, dall’Iraq al Libano, a difendere gli interessi di Teheran. (…)
Il patto Abu Dhabi-Gerusalemme frena lo slancio del presidente Recep Tayyip Erdogan. Mohammed bin Zayed Al Nahyan è il più agguerrito leader delle monarchie del Golfo che imputano ad Ankara – ed al Qatar – di sostenere il movimento dei Fratelli musulmani al fine di far implodere gli Stati arabi e conquistarne la guida. Emirati e Turchia sostengono con armi e finanziamenti le opposte fazioni in lotta nelle guerre civili in Siria, Yemen e Libia. Hanno anche alleati rivali perché Bin Zayed punta su Trump mentre Erdogan fa intese con Rohani e Putin.
E il mondo, che è abituato alla diplomazia di Trump su Twitter o sui campi da golf in Florida un po’ spiazzato ci è rimasto. Anche quella parte colta di elettorato che proprio non gli perdonava una politica estera più di pancreas che di neuroni. Tanto spiazzato che Al Jazeera ha ritirato fuori una vecchia definizione del magnate attribuita al despota mannaro di Fox News, Roger Ailes. «Metà degli americani ama molto Trump e l’altra metà ama moltissimo odiarlo, perciò lui sta sempre in prima fila».
E alla fine fine il senso della faccenda è questo: se vuoi fare il lavoro di George Washington quel posto te lo devi guadagnare.
Magnate magnete.
FLOP
ALEKSANDR LUKASHENKO
Banalmente è un tiranno fatto e finito, uno da flop dei flop cioè. Aleksandr Lukashenko è un sopravvissuto anche per gli standard moderni del dispotismo, che pure non sono così ammorbiditi.
Al potere da 26 anni, restauratore di un post comunismo di facciata e amante delle brutalità sciolte, il leader bielorusso fa da tempo storia a sé. Veniamo alla polpa: Lukashenko è fortemente sospettato di aver manipolato il voto in Bielorussia dello scorso 9 agosto. E di averlo fatto per assicurarsi in punta di broglio e pestaggi il sesto, leggasi sesto, mandato presidenziale consecutivo.
Roba insomma a metà fra gli anni di Casini in Parlamento e quelli di Vittoria a Buckingham Palace. Con l’aggravante però che di anni trucidissimi si tratta.
Anni passati ad infilare una serie di brutalità e soppressioni di libertà fondamentali talmente gagliarda da piazzare Lukashenko in testa al rating dei ducetti 2.0. Le manifestazioni oceaniche di piazza tenutesi a Minsk in queste ore sono state represse a suon di botte. In più la sua principale oppositrice ed avversaria d’urna, Svetlana Tikhanovskaya, è stata costretta alla fuga in Lituania.
È tornata a far sentire la sua voce da pochissimo con la bandiera bianco rossa a fare da sfondo alle sue rivendicazioni. Ma Lukashenko neanche quella bandiera riconosce, dato che 4 anni dopo il suo primo guizzo di chiappa sulla poltrona aveva restaurato quella comunistoide verde e rossa.
Il presidentissimo pare vacillare per la prima volta, ma ha dalla sua due alleati di bicipite grosso, anzi, grossissimo. Il primo è Putin, a cui una Bielorussia-cuscinetto e con una stanza dei bottoni ad un solo pulsante fa comodo come le pantofole d’inverno.
Il secondo è l’esercito nazionale. Si tratta di 50mila uomini addestratissimi dopo la riforma del 2000, tre comandi agili su poche brigate che sanno quel che fanno.
E che sono fedelissime al loro leader, dato che le ha armate di tutto punto con il meglio del meglio della stanza dei balocchi di zio Vladimiro. E che ha inondato i loro fogli matricolari di scatti di stipendio. Pare poco ma non lo è, perché quando paghi bene un soldato bravo quello farà coincidere la sua bandiera con l’immagine del suo capoccia. E se il capoccia è un tiranno allora vorrà dire che in giro per il mondo c’è un despota che muove le sue mattane al ritmo delle baionette.
Cesare, Kzar, Kaiser: se la radice è unica ci sarà un motivo.
I NAVY SEALS
Sono dei veri duri, anzi, per qualcuno sono i più duri di tutti. O quanto meno se la giocano alla pari con i colleghi spetsnaz del Gruppo Alfa russo e del Sas di Sua Maestà britannica. Classifiche machissime a parte, i Navy Seals sono ormai parte integrante di un immaginario collettivo dove le forze speciali degli eserciti planetari occupano un posto di riguardo. Ed è un posto che costa non solo la gran fatica di diventare super soldati, ma anche quella immensa di essere uomini irreprensibili.
E qui le dolenti note riportate dal New York Post. Pare che un reparto dei mitici incursori della marina Usa con il fregio a tridente e la cuccetta a Coronado non abbia brillato per civiltà.
Dove? Ad una raccolta fondi avviata presso un museo della specialità a Fort Pierce, in Florida. Lì, secondo una denuncia arrivata alla Marina da pochi giorni, qualcuno avrebbe scatenato cinque cani Seal addestrati per l’attacco e l’interdizione anti terrorismo.
Contro chi? Un emulo di quel Bin Laden che proprio i Seal con il loro Team 6 spedirono al suo creatore ad Abbottabad? Contro un suprematista bianco armato fino ai denti? No, i cani avrebbero fatto macello di gambe e genitali di un uomo qualunque.
O meglio, non proprio qualunque, dato che era nero e indossava la maglietta della star del football Colin Kaepernick. Costui è l’ex quarterback di San Francisco 49ers che nel 2016 sollevò un polverone inginocchiandosi per protestare contro le ingiustizie razziali nel paese. Insomma, l’accusa contro i Seal conduttori dei cani è che possano aver scatenato i loro malinois da battaglia contro un simbolo dell’antirazzismo. E che lo abbiano fatto apposta, dato che parliamo di cani che neanche alzano la gamba vicino agli alberi se qualcuno non glie lo ordina.
Il video era stato postato su Instagram nel 2019 ma da qualche giorno è al vaglio di una commissione della Marina a stelle e strisce. Che ci è già andata giù di comunicato con mani rigorosamente in avanti. «Il messaggio intrinseco di questo video è del tutto in contrasto con i valori e l’etica di Naval Special Warfare e della Marina degli Stati Uniti».
Pare infatti che l’indagine interna abbia appurato un dato forte: gli ambienti operativi dei Seal non sono affatto immuni da episodi di intolleranza verso l’antirazzismo. Ed essere intolleranti verso l’antirazzismo significa molto più prosaicamente essere razzisti, senza pelosità sintattiche.
Al vaglio ci sarebbero numerosi filmati girati durante lo svolgimento delle terrificanti sessioni del corso BUD/S. Si tratta del training infernale con cui a Coronado entrano soldati in gamba e da Coronado escono macchine da guerra indistruttibili. Indistruttibili, spietate e pare propense in quota congrua a fare squadra malevola contro i commilitoni di colore e latinos. E il mito dell’irreprensibilità vacilla sotto il sole di agosto.
Camerati in camerata.
PEDRO SANCHEZ
Il premier spagnolo è madrileno di nascita e di battage politico. Non è una prova ma nella vicenda in questione fa contorno malizioso. Secondo un’indagine congiunta di El Pais e The Guardian potrebbe esserci lui dietro lo spy gate che sta terremotando la Spagna da inizio mese e che in questi giorni ha segnato una tappa delicatissima.
La polpa del fatto è semplice. Qualcuno sta spiando movimenti e conversazioni dei rappresentanti politici spagnoli di origine catalana. In particolare di quelli che sono all’indice per le loro scalmane indipendentiste.
Tutto sarebbe avvenuto grazie all’utilizzo massivo di un particolare software. E quando si parla di hi tech per sbirciare in casa d’altri Israele si materializza come la suocera in salotto quando hai deciso di saltare il tour domenicale a Ikea. La società israeliana NSO avrebbe sviluppato infatti un programma spia dal nome Pegasus.
Proprio con quello qualcuno avrebbe giocato al Grande Fratello con il cellulare di Roger Torrent, presidente del parlamento regionale catalano. Che non se l’è tenuta e, scoperta la magagna, ha mestato in una pila di roba calda e marrò talmente alta che lo scandalo da petardo si è fatto bomba.
A traino del politico catalano erano infatti giunti molti suoi colleghi che avevano individuato il malware spione nei loro dispositivi. Si, ma il premier ed il suo governo che c’entrano, anche a fare la tara allo storico braccio di ferro fra Madrid capitale e Barcellona ribelle? C’è un particolare che ha dato usta alle presunte parti lese. Pegasus può essere acquistato solo da governi e forze dell’ordine autorizzate per combattere crimine e terrorismo.
Vero è che dei software spioni c’è un fiorentissimo mercato nero che fa capo soprattutto alla Turchia ed alla Giordania, ma il prodotto è troppo nuovo di pacca per essere già in vetrina su quella nicchia particolare. E chi ti è spuntato in queste ore da un elenco dei governi nazionali che forti della loro abilitazione avevano acquistato Pegasus da Israele?
Indovinato: la Spagna, che secondo Al Jazeera è «cliente della società dal 2015». Sempre secondo la testata è grullo chi si dovesse sorprendere di questo falso scoop.
Lo è perché «Madrid è stata a lungo accusata di aver spiato illegalmente attivisti e politici catalani in tutta Europa. L’anno scorso, l’11 agosto, il quotidiano svizzero Blick ha riferito che la Spagna ha spiato i catalani che vivono nel paese e monitorando le loro attività. La notizia che il servizio segreto spagnolo, il CNI, ha condotto attività di sorveglianza illegale nel paese ha fatto arrabbiare sia i politici catalani che quelli svizzeri».
Ma c’è di più. Già un mese fa «documenti ottenuti dal quotidiano spagnolo El Diario avevano già rivelato un vasto programma di spionaggio spagnolo». Destinato a chi? «Agli impiegati del governo catalano che lavoravano in missioni diplomatiche nel Regno Unito, in Svizzera e in Germania».
Flop secret.