Top e Flop, i protagonisti di giovedì 26 giugno 2025

I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di giovedì 26 giugno 2025

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I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di giovedì 26 giugno 2025.

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TOP

GIORGIA MELONI

Giorgia Meloni a tavola con Donald Trump

A The Hague è andato in campo una strategia che sa di geopolitica e diplomazia ad alta tensione. Lo riferisce nella notte la Repubblica: Giorgia Meloni, Emmanuel Macron e Recep Tayyip Erdogan hanno fatto fronte comune contro Donald Trump.

No, non è un’alleanza scritta ma un modo europeo per provare a far ragionare il Nerone americano impedendogli di incendiare tutto l’occidente. Una convergenza di interessi che ha preso forma attorno a un concetto semplice e dirompente: «Tra alleati non ci si fanno la guerra, nemmeno quella commerciale».

Trump, col suo stile ruvido e da campagna elettorale permanente, ama il ruolo del battitore libero. Questa volta ha trovato davanti a sé tre leader che, ciascuno con un tono diverso, hanno deciso di rompere la ritualità diplomatica e affrontarlo sul tema che rischia di spaccare l’Occidente quanto (o più) di un conflitto militare: quello dei dazi.

Muro inatteso

Il primo a esporsi è Macron, che è il più europeista (e anche il più spavaldo) dei tre. Fa notare come sia insensato chiedere agli alleati un aumento delle spese per la difesa mentre si impongono dazi che colpiscono le stesse economie che quei fondi li dovrebbero tirare fuori. Una guerra commerciale, per dirla con le sue parole, è “antitetica” allo sforzo comune.

Poi, ecco la mossa a sorpresa: Giorgia Meloni, spesso descritta come la più “trumpiana” d’Europa, si accoda. Ma lo fa con stile, tatto e lucidità. Tende prima la mano, sottolinea la lealtà italiana sugli impegni Nato, ma poi cambia registro. I dazi – dice – non sono solo una questione economica, ma un problema strategico. Colpire l’Europa con tariffe punitive mentre le si chiede di alzare la spesa militare è come mettere benzina nel motore e contemporaneamente tagliare i freni. Il messaggio è chiaro: «Non siamo il nemico, Donald. Il nemico è altrove».

In questa triangolazione, anche Erdogan ha fatto la sua parte. Con i toni spigolosi che gli sono propri, ha messo in guardia Trump dalle conseguenze potenzialmente devastanti di una politica commerciale miope e muscolare.

E Donald ascolta
Donald Trump al vertice Nato

La notizia, però, è che Trump ha ascoltato. Tre ore in silenzio, senza un colpo di teatro, senza uno show. Un evento raro, se non unico. Che abbia davvero recepito il messaggio è tutto da vedere. Ma il fatto che abbia lasciato spazio a tre interlocutori così diversi fra loro suggerisce che forse, anche lui, comincia a capire che guidare il mondo libero – ammesso che voglia ancora farlo – richiede alleati e non sudditi.

Questa vicenda segna un punto di svolta. In un’Europa spesso afona, fatta di distinguo e ritrosie. Tre leader hanno dimostrato che è possibile farsi ascoltare senza gridare. Che si può dissentire da Trump senza litigare con l’America. E che – sorpresa – a volte una convergenza tra Roma e Parigi non è solo auspicabile: è indispensabile.

Meloni ha usato più garbo che sfida. Ma l’ha fatto con coraggio politico. Ed è questo, al netto delle divergenze interne e delle posizioni di partenza, il segno di una leadership matura. Macron ha parlato da stratega, Meloni da costruttrice di equilibrio, Erdogan da cane sciolto: ma tutti e tre, per una volta, dalla parte giusta della Storia.

La diplomazia dei nervi saldi contro il dazio trumpiano

PAOLO SACCANI e STEFANO MAGINI

Paolo Saccani e Stefano Magini

C’è una parola che in Italia si usa troppo poco e troppo tardi: scusa. Non quella urlata o imposta, ma quella dovuta a chi è finito nel tritacarne giudiziario e mediatico, salvo poi uscirsene con un “il fatto non sussiste”. È il caso di Paolo Saccani e Stefano Magini, ex manager di Acea Ato 5, che all’epoca furono messi alla berlina come se fossero colpevoli ancora prima che un giudice potesse dire la sua.

Nelle ore scorse, a distanza di anni e udienze, il sipario è calato su uno dei procedimenti penali più intricati legati alla gestione del servizio idrico nel frusinate. Il Gip del Tribunale di Roma ha archiviato tutto. Definitivamente. Non c’è reato, non c’è inganno, non c’è nemmeno l’ombra di un illecito. Il fatto, semplicemente, non sussiste. Anzi, non è mai sussistito.

Eppure, bastava poco per accendere i forconi. Un’indagine, qualche parola chiave come “frode” o “peculato“, e via con le crociate sui social, nei talk e persino tra le fila della politica. Allora, Saccani e Magini erano diventati il simbolo di tutto ciò che non andava nella gestione del servizio idrico. Oggi, sono invece il simbolo – silenzioso, come chi non ha mai smesso di lavorare – di una Giustizia che funziona, quando si prende il tempo di leggere e capire.

Limpidi come l’acqua
Foto © Benvegnu’ Guaitoli / Imagoeconomica

Perché la verità giudiziaria ha chiarito punto su punto. Nessuna frode, nessun bilancio manipolato, nessun ostacolo alla vigilanza pubblica. Solo operazioni contabili corrette, valutazioni amministrative coerenti, atti legittimi e verificati. Anche la Giustizia tributaria si era già pronunciata nella stessa direzione, ma ora il sigillo definitivo lo mette la magistratura penale.

Il paradosso è che, nel frattempo, la reputazione personale e professionale è stata messa a dura prova. E poco importa che le archiviazioni parlino chiaro: il sospetto resta sempre più rumoroso dell’assoluzione.

Ci vorrebbe più prudenza nel giudizio e più coraggio nel riconoscere gli errori. Perché crocifiggere è facile, riabilitare molto meno. Ma almeno oggi, con queste archiviazioni, si ristabilisce un principio tanto semplice quanto cruciale: l’onestà non fa rumore, ma resiste.

Quando la correttezza vince sul pregiudizio.

LAURA BOLDRINI

Laura Boldrini (Foto: Livio Anticoli © Imagoeconomica)

Sì, è vero e sarebbe inutile negarlo: intorno alla figura di Laura Boldrini aleggia uno shining tra retorico e reale per cui la deputata dem viene vista come una sorta di “pasionaria della sinistra”. Una donna sulle cui idee quindi è difficile concentrarsi senza ammantarle in maniera preconcetta di quell’aura da “Agit-Prop” che, come è giusto che sia in democrazia, non è che debba piacere a tutti.

Tuttavia ed al netto di questa valutazione un po’ epidermica ci sono momenti della storia repubblicana in cui quelle come Laura Boldrini, piaccia o meno, dicono la verità, e lo fanno senza le remore sofistiche di una politica troppo spesso suddita dei giri di parole.

Le parole sull’Iran
Il leader supremo Alì Khamenei

In ordine alla questione del conflitto sfociato in tregua (si spera duratura) tra Israele ed Iran ad esempio l’ex Presidente della Camera non le ha certo mandate a dire. Con questi toni veristi che possono anche non piacere, ma che hanno il pregio quanto meno di indurre una serena riflessione sul tema in un momento in cui la serenità di giudizio sembra aver abbandonato anche il cartesiano Occidente.

“L’attacco di Israele all’Iran è un atto illegittimo e fuori dal diritto internazionale”. Boldrini è stata sul campo, in certe faccende, ed è una paladina dei diritti umani, e non lo ha scordato. Perciò precisa: “Considero l’Iran una dittatura oscurantista e sanguinaria: ma se uno Stato rappresenta una minaccia ci sono le Nazioni Unite che valutano e decidono cosa fare”. E ancora: “Non è che uno si alza la mattina e decide di bombardare come ha fatto il governo di Tel Aviv”.

“Lo ha fatto a Gaza, in Cisgiordania, in Siria, nello Yemen, in Libano, in Iraq e pure in Iran”.

Il “nodo Bibi”
Benjamin Netanyahu, (Foto: swiss-image.ch / Jolanda Flubacher)

Poi una chiosa che sa di sentenza senza appello ma che, a conoscere la storia del personaggio, non appare molto facilmente confutabile. “E’ Benjamin Netanyahu che destabilizza il Medio Oriente, perseguendo il disegno del grande Israele”. Doveva uscire “dall’angolo in cui era finito perché la comunità internazionale si stava sollevando per le atrocità che il governo israeliano commette a Gaza.

“Quindi per distrarre l’attenzione da Gaza e ricompattare gli alleati, ha attaccato l’Iran. E lo aveva già fatto un anno fa”. Per Boldrini si è trattato di una “decisione arbitraria che mina in maniera pericolosissima il diritto internazionale e che non può essere normalizzata”.

E piaccia o meno lo spunto per ragionare adesso c’è.

Equilibrio ruvido.

FLOP

ANTONIO NECCI

Antonio Necci

Uno dovrebbe capire quando è il momento di parlare e quando, invece, è il caso di tacere. Non avere questa sottile ma fondamentale capacità può esporre a brutte figure piuttosto consistenti.

Breve replay per chi non si fosse messo in collegamento. Qualche giorno fa ad Anagni la Lega diffonde un comunicato durissimo. In cui si esprime “preoccupazione” per l’economia del territorio. Chiedendo a gran voce un “approccio deciso e condiviso” per affrontare l’emergenza. E sollecitando la maggioranza a darsi da fare. (Leggi qui: Paradosso o strategia elettorale? Lo strano caso della Lega ad Anagni).

Tutto bello, tutto giusto. Se non fosse per un dettaglio: la Lega, ad Anagni, fa parte della maggioranza. Non da ieri. Dal 2018. Ha seguito passo passo tutto quello che ha fatto la maggioranza del sindaco Natalia. Ergo, chiedere uno scatto in più sul problema (serio) del lavoro e dell’occupazione genera una legittima domanda: scusate, ma finora cosa avete fatto? E sorge il (legittimo) sospetto che dietro la critica ci sia soprattutto la ricerca della Lega di maggiore visibilità (e rilievo) nella maggioranza di cui (ripetiamo) fa parte.

Coazione a ripetere

E qui, dicevamo, uno furbo si fermerebbe. Registrerebbe la scivolata e stop. Invece no. Nel consiglio comunale di lunedì scorso (non uno qualunque, ma quello, aperto al pubblico, sulla ex polveriera), gli esponenti del Partito di Salvini decidono di andare all’attacco. Il comunicato? Visto che non si può cancellare, è stato distorto. Le discussioni con il resto della maggioranza? Non esistono, ma sono state create ad arte dalla stampa brutta e cattiva. Con il fine ( ovviamente) di indebolire tutta la maggioranza.

Niente è meno faticoso di stare zitto diceva Ovidio, uno che di parole se ne intendeva. E che avrebbe molto da insegnare a qualche politico locale.

Intelligenti pauca.

MATTEO SALVINI

Matteo Salvini (Foto: Paola Onofri © Imagoeconomica)

C’è qualcosa di stonato, quasi fastidioso, nel vedere un ministro della Repubblica, Matteo Salvini, seduto in un’aula di tribunale per sostenere una querela contro Roberto Saviano. Non per il contenuto della querela in sé – ogni cittadino ha il sacrosanto diritto di tutelare la propria reputazione – ma per ciò che questa scena racconta, più delle parole.

Saviano non è un opinionista qualunque. È uno scrittore sotto scorta da anni, un bersaglio mobile per la criminalità organizzata, colpevole solo di aver raccontato quello che per i clan era troppo. La sua penna, certo affilata e talvolta ingenerosa, è cresciuta nel fango di Gomorra, non nei salotti ovattati. Quando critica, lo fa con l’urgenza di chi ogni giorno rischia la pelle.

E allora, anche se Roberto Saviano ha sbagliato tono, esagerato espressioni – “ministro della malavita” è un colpo duro – il tavolo giusto per regolare i conti non è un’aula con avvocati e giudici. È un bar, uno di quelli appartati, dove due persone possono dirsela senza riflettori, guardandosi negli occhi. Magari davanti a un caffè bollente, dove anche le parole pesano di meno.

Il diritto del ministro
Roberto Saviano (Foto: Giuliano Del Gatto © Imagoeconomica)

Salvini rivendica il diritto di non essere infangato. Giusto. Ma difendersi a colpi di querela da un uomo sotto scorta da vent’anni per aver sfidato la Camorra sembra più una dichiarazione di guerra personale che una tutela della dignità. Non è questione di chi abbia più ragione. È questione di proporzione, di contesto, di stile. Di grandezza, anche politica.

Perché chi siede al Governo ha un dovere in più: sapere quando una battaglia va combattuta e quando invece è più saggio abbassare la voce. Anche per non far sembrare che si voglia imbavagliare il dissenso con il codice penale.

In fondo, la reputazione si difende anche con il coraggio del gesto simbolico: dire “ritiro la querela” e “parliamone da uomini liberi”. Quello sarebbe stato un segnale forte. Un gesto che avrebbe lasciato davvero il segno.

Giù le querele, su il livello.

AGNESE TUMICELLI

Agnese Tumicelli

Tanto per mettere a fuoco la faccenda: Margherita “Mara” Cagol era di Trento ed era una brigatista rossa. Di quella stessa formazione terroristica che rapì ed uccise Aldo Moro, facendone ritrovare il cadavere all’interno di una Renalut 4 rossa a via Caetani a Roma.

Questo per creare una liaison forte con una faccenda che sta avendo un impatto fortissimo in tutta Italia. Già, perché arriva proprio da Trento, anzi, dalla sua Università, la surreale vicenda di Agnese Tumicelli.

Sia chiaro, la ragazza, 21enne veronese presidente del Consiglio studentesco dell’ateneo trentino, si è scusata, ed ha fatto benissimo. Nelle ore scorse ha rassegnato le dimissionida presidente del Consiglio studentesco e quindi anche dal Cda dell’Università di Trento. Ma resta un dato.

Le scuse per l’accaduto
La maglietta delle polemiche

Quello per cui, al di là della sua buona fede nell’aver capito di aver fatto una cavolata, resta il fatto per cui essa è totem di una generazione senza memoria e senza pudore della stessa. Il che porta questo Flop ad essere diviso in maniera equanime tra lei, protagonista diretta della vicenda, ed il modello educativo italiano, ormai vacuo, inconsistente e superficiale.

Superficiale al punto da generare robaccia come questa. Sul profilo Instagram (i social, sempre i maledetti social nell’accezione del compianto Umberto Eco) erano comparse alcune foto della studentessa. Foto che mostrano dei chiari riferimenti alle Brigate Rosse.

Quali? In una della foto la componente del Consiglio di amministrazione dell’Ateneo trentino, porta una maglia con la scritta “Barbie Brigate Rosse”. In quello scatto campeggia anche la Renault 4 rossa in cui venne rinvenuto il corpo senza vita del fondatore della Democrazia Cristiana Aldo Moro. Il che lascia presupporre una cosa grave: che la ragazza ed i suoi sodali cioè avessero almeno una menzione epidermica di quel pezzo di storia buia, ma che se ne siano altamente fregati.

Parodia di un assassinio

Aldo Moro (Frame da ‘Aldo Moro 40 anni dopo’)

C’è un secondo scatto che, come spiegano i media, risalirebbe allo scorso febbraio. In esso è visibile una vettura rossa che richiama la Renault 4 dell’omicidio Moro.

Ed al suo interno si trova riversa una persona, come a riprodurre il ritrovamento del povero Moro, ammazzato da una raffica di mitraglietta cecoslovacca Skorpio e messo in bagagliaio a mo’ di monito per quella folle ideologia.

La faccenda è finita al Ministero dell’Interno ed ai vertici dell’ateneo, anche perché non sono sfuggiti i richiami alle origini del legame tra i fondatori del gruppo terroristico, Renato Curcio e Margherita “Mara” Cagol, con l’università d Trento.

La ragazza ha chiesto scusa, ma i meccanismo social sono strani e spesso le scuse sono figlie del polverone sollevato, non della consapevolezza dell’errore. Nella speranza che per questa 21enne sia valsa la seconda ipotesi.

Pessimo, pessimo gusto.