I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di giovedì 30 ottobre 2025.
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I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di giovedì 30 ottobre 2025.
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DE ANGELIS – BATTISTI – POMPEO

Fino a poche settimane fa sembrava pura fantapolitica: Francesco De Angelis, Sara Battisti e Antonio Pompeo — i tre generali di altrettante trincee — hanno trovato il modo di sedersi intorno a un tavolo e parlare. Non per scambiarsi cortesie ma per tentare davvero una sintesi politica, costruita sul confronto e non sul conflitto. Una svolta? Forse. Ma di sicuro un segnale. (Leggi qui: Pd Frosinone, la tregua possibile: gli sherpa trattano nell’ombra).
Per oltre un anno e mezzo, il Pd ciociaro è stato prigioniero di se stesso. Diviso in fazioni più attrezzate al veto che alla proposta, ha sprecato energie a contendersi i regolamenti invece di occuparsi dei problemi reali del territorio. Una lunga guerra intestina fatta di numeri, di tesseramenti impugnati, di accuse incrociate. Intanto, fuori, la destra occupava spazi e consenso.
Ora, grazie anche al lavoro di tessitura politica del commissario Federico Gianassi, dei candidati alla Segreteria Luca Fantini e Achille Migliorelli, si riapre uno spiraglio. Il Congresso che si terrà nelle prossime settimane potrebbe non essere l’ennesima rissa di correnti ma il momento in cui il Pd torna a fare il Pd: costruire un progetto comune, scegliere una guida autorevole e uscire dal recinto delle rese dei conti.
Pace ma come a Gaza

Certo, non è (ancora) una pace firmata con tanto di foto e strette di mano. Ma l’incontro tra i rappresentanti delle tre anime del Partito ha un valore che va oltre i nomi. È l’ammissione che la stagione delle spallate ha prodotto solo macerie. Che il tempo dell’autosabotaggio è finito. Che servono idee, visione e, soprattutto, unità.
Se le differenze non si annulleranno, potranno almeno coesistere. Perché il pluralismo, quando non si trasforma in guerriglia permanente, è ricchezza. Se davvero si andrà verso un congresso unitario, il Pd ciociaro potrà finalmente tornare ad essere forza guida in un’area strategica del Lazio. E magari dimostrare al Partito regionale e nazionale di essere capace di replicare il modello virtuoso varato nel Lazio da Daniele Leodori e Claudio Mancini, dopo mesi di divisioni e scomuniche reciproche.
Adesso tocca a loro: ai leader delle correnti, ai delegati, ai giovani e ai meno giovani che hanno visto il Partito implodere sotto il peso dei personalismi. La porta è socchiusa. Basta solo spingerla. Insieme.
La tregua (utile) del PD.
ROMANO PRODI

Romano Prodi, il “professore” che seppe unire l’Ulivo e condurlo due volte alla vittoria, ha parlato con il tono lucido e tagliente che può permettersi solo un padre nobile. Dagli studi di Circo Massimo, la trasmissione di Massimo Giannini in onda sul Nove, ha offerto al Partito Democratico uno specchio di fronte al quale mettersi con realismo per scoprire tutti i propri limiti attuali . L’ex premier ha invitato il Segretario Elly Schlein a non avere paura del dibattito interno, a non vivere ogni voce fuori dal coro come un attacco alla segretaria Elly Schlein. Perché, ha detto, “la leadership si conquista dicendo ‘voglio fare questo, questo e questo’“, non blindandosi nel silenzio.
Parole che pesano. Romano Prodi non cerca la rissa ma lancia un messaggio inequivocabile: il Pd non può permettersi di essere il Partito dell’unanimismo muto. Anzi, proprio ora che la metà degli italiani diserta le urne, occorre un Partito vivo, pieno di idee e con un programma vero, capace di allargare il consenso, non di tenerlo sotto chiave.
La fabbrica del Programma

L’ex premier ha anche citato la “Fabbrica del programma”, quell’esperienza di partecipazione vera che portò al successo del 2006. L’ha ricordata per dire che democrazia è coinvolgimento, non slogan ripetuti a reti unificate. E non basta agitare la bandiera del “campo largo” se poi non si costruisce un progetto di governo che sappia emozionare, convincere e includere.
Prodi non ha attaccato Schlein. Ma l’ha spronata a guidare un Partito che non abbia paura di discutere. Un Partito in cui il pluralismo sia una ricchezza e non un fastidio. E ha indicato una via: basta con il 22% che si guarda allo specchio. Servono il 22% più un altro 22%. Solo così si vince. Il resto, parole sue, è “la solita solfa”.
Finalmente, il Pd ha ricevuto un segnale chiaro: alzarsi dalla panchina, smettere di scaldare il posto per il prossimo giro e ricominciare a giocare la partita. Anche per rispetto verso chi, come Romano Prodi, continua a credere che un’altra sinistra – più larga, più viva, più capace – sia ancora possibile.
Il professore suona la sveglia.
MARIANO CROCIATA

Una Chiesa che non si nasconde. Che non balbetta, non minimizza, non scarica. Ma che — davanti a un dramma tanto grande quanto doloroso — ci mette la faccia. Succede a Latina, dove la diocesi guidata da monsignor Mariano Crociata non solo non ha fatto finta di niente, ma ha parlato. E agito.
Di fronte alle situazioni imbarazzanti, troppo spesso le istituzioni — laiche e religiose — hanno scelto la via del silenzio o, peggio, della rimozione, la Curia pontina ha fatto un gesto controcorrente: ha riconosciuto la gravità del problema delle molestie sessuali, espresso vicinanza alle vittime e, soprattutto, chiarito che le regole si rispettano. Senza sconti, senza scorciatoie.
I numeri del dossier “Tolleranza Zero” della Rete l’Abuso parlano chiaro: 1.250 casi, 4.600 vittime, oltre mille figure ecclesiastiche coinvolte. E nel Lazio, ben 80 segnalazioni. Di queste, 13 nella provincia di Latina. Due recentissime, note alle cronache, che hanno colpito profondamente la comunità: un professore di religione ed un assistente scout.
Il gesto simbolico

In questo scenario, il comportamento della diocesi di Latina assume un valore simbolico potente. Lontana dal negazionismo clericale d’altri tempi, ha adottato una linea di trasparenza, collaborazione con la magistratura e, soprattutto, attenzione umana alle vittime. Ha ascoltato. Ha agito. E ha detto: non nascondiamo nulla.
Ma non basta. Perché il coraggio mostrato finora dev’essere un punto di partenza, non di arrivo. Il dolore causato dagli abusi, specialmente quando coinvolgono minori e persone fragili, non si cancella con una dichiarazione stampa. Ma si lenisce — forse — con un cambiamento culturale profondo, quotidiano, concreto. Dove ogni diocesi diventa casa accogliente per le vittime, e terreno inospitale per i carnefici.
Latina ha acceso una luce in fondo a un tunnel. Ora tocca a tutte le altre diocesi d’Italia spegnere l’ombra della vergogna e aprire le porte della verità. Perché la vera fede non teme la giustizia. E la vera giustizia inizia sempre dall’ascolto di chi ha sofferto.
Il vescovo che ci mette la faccia.
FLOP
MATTEO SALVINI

Sia chiaro: sul progetto del Ponte sullo Stretto ci si può dividere concettualmente come si vuole, perché quella di opinione è una libertà intoccabile, ma lo si può fare purché non si cada nelle iperboli complottiste. La mega opera a cui Matteo Salvini ha affidato il suo unico (e faraonico) crisma di Ministro delle Infrastrutture degno di essere consegnato ai libri di Storia in realtà non questo Kraken Nero che molti vorrebbero additare solo perché impugnato da parte politica avversa.
Come pure non si può dar torto tout court a chi nell’opera stessa vedesse difficoltà insormontabili ed autostrade di benaltrismo (della serie: e la rete stradale e ferroviaria disastrate in Sicilia?).
Al netto di queste considerazioni però c’è un altro dato. Tecnico. Che è quello per cui in Italia vige la separazione dei poteri come strumento i bilanciamento perfeto degli stessi.
Solito disco sul piatto

Dato per il quale se una branca della magistratura chiamata a valutare la congruità di spesa per un’opera decide al momento che quella congruità non esiste non è proprio il caso di mettere sul piatto il solito disco delle toghe nemiche del governo e, per estensione sovranista, “del popolo”.
Ma poteva Matteo Salvini sottrarsi al ruolo di martire sacrificale messo in tacca di mira, lui ed il buon senso degli italiani, da un manipolo di giudici livorosi?
Partiamo dal dato tecnico: ieri la Corte dei Conti ha bocciato il progetto del Ponte sullo Stretto. C’è stata una complessa Camera di Consiglio ed il pronunciamento finale ha visto le toghe negare “il visto di legittimità e la registrazione della Delibera Cipess di agosto che aveva approvato il progetto definitivo dell’opera”.
Il No della Corte dei Conti
C’è un dato: l’Esecutivo, nelle more della pubblicazione delle motivazioni e di eventuali azioni di impugnazione della sentenza, può decidere di andare avanti con il progetto. Come mai? E’ semplice: è la legge. Legge per cui “nel caso in cui il controllo riguardi un atto governativo, secondo la legge, l’amministrazione interessata, in caso di rifiuto di registrazione da parte della Corte dei Conti, può chiedere un’apposita deliberazione da parte del Consiglio dei ministri“.

Il Cdm dichiara lo stato prevalente d interesse pubblico ed alla via così. Ad ogni modo il punti di dibattito giurisprudenziale e contabile pare siano stati quelli delle coperture economiche, delll’affidabilità delle stime di traffico. Poi della conformità del progetto definitivo alle normative ambientali, antisismiche e alle regole europee sul superamento del 50% del costo iniziale.
Insomma, c’è da valutare un bel po’ di roba. E di certo non era il caso, anche contare la “scappatoia” operativa che ha l’Esecutivo, non era il caso di buttarla sempre nel format propagandistico dei giudici che non dormono la notte per togliere il sonno ai detentori dell’Unica Ragione.
Salvini: “Scelta politica”

Nulla da fare però, ed ha esordito Giorgia Meloni: “Si tratta dell’ennesimo atto di invasione della giurisdizione sulle scelte del Governo e del Parlamento”. E Salvini? Apriti cielo: per lui cose del genere sono come un begattino grasso davanti al muso di un cavedano.
“La decisione della Corte dei Conti è un grave danno per il Paese e appare una scelta politica più che un sereno giudizio tecnico”. Poi giù di slogan, evocando un mantra che obiettivamente ha stfato, visto che i confini della Patria li difendono i soldati i guerra.
“In attesa delle motivazioni, chiarisco subito che non mi sono fermato quando dovevo difendere i confini e non mi fermerò ora (…). Siamo determinati a percorrere tutte le strade possibili per far partire i lavori. Andiamo avanti”. Come Amatore Sciesa ma con molto meno Risorgimento.
La solita solfa caciarona.



