I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di martedì 19 novembre 2024
I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di martedì 19 novembre 2024.
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ELLY SCHLEIN
Vince il Campo largo, cioè quella coalizione che Giuseppe Conte non volle confermare nel Lazio mandando all’aria un’intera stagione politica costruita da Nicola Zingaretti con Roberta Lombardi, da Daniele Leodori con Mauro Buschini. I numeri per giocarsi la partita c’erano, declinati fino alla fine da un Bruno Astorre che aveva pochi rivali nella tessitura delle strategie. Ma Giuseppe Conte attuò nel Lazio una strategia dai due risultati: dimezzando il Gruppo M5S in Aula fino a renderlo insignificante e consegnando la Regione alla Destra di Francesco Rocca.
In Liguria le sue strategie non hanno portato migliori risultati. Anche per questo il Partito Democratico ha cominciato a mettere da parte una sudditanza ingiustificata nei confronti dei grillini. Ottenendo in questa tornata di Regionali due risultati: una coalizione sempre più a trazione Pd ed un M5s che scende ancora.
Le affermazioni in Emilia Romagna e soprattutto in Umbria danno una spinta al disegno di Elly Schlein ed al suo progetto di un Campo Largo nel quale riunire tutte le opposizioni al governo guidato da Giorgia Meloni. Confermano che la strategia contiana è un fallimento: delle tre Regioni andate al voto in questo autunno (Liguria, Emilia Romagna e Umbria) l’unica vinta dal centrodestra è stata la Liguria, dove il campo largo era monco proprio a causa del veto posto dal M5s e da Alleanza Verdi Sinistra ad Italia Viva di Matteo Renzi.
Il Pd che torna a trainare
Il senatore di Rignano ha potuto riprendere uno dei concetti del compianto Segretario Pd del Lazio e dettare alle agenzie che il centrosinistra unito vince ma diviso perde “lo dice la matematica da sempre, lo conferma la politica oggi“.
La corsa di Schlein da Bologna a Perugia è servita per sottolineare che il Pd si conferma primo Partito sia in Emilia Romagna sia in Umbria, superando di molto FdI. Dopo la Liguria, porta a casa nuovi segni più. In Emilia Romagna la crescita del Pd è di circa 8 punti: 34,7% alle regionali del 2020, mentre adesso sembra attestarsi oltre il 42% (36,11% alle europee di giugno). Mentre il M5s è sceso: nel 2020 prese il 4,74% (si presentò da solo) adesso viaggia attorno al 3,5% (alle europee di giugno si è attestato al 7,17%).
Ma se l’Emilia Romagna è stata una conferma, per il centrosinistra la sorpresa è arrivata dall’Umbria. Il che riaccenderà ora il dibattito sul Campo largo, sui veti contro il centro e sui nomi. Molto dipenderà dalla imminente Costituente M5s, dove sono in gioco i ruoli di Conte e del garante Beppe Grillo, il simbolo, il nome del Movimento. E soprattutto la linea e le alleanze.
I risultati li porta.
FRANCESCO ROCCA
Senza urla, senza flabellieri. E senza i fronzoli di velluto greve della politica autoreferenziale. Quello che Francesco Rocca sta facendo nel nome della Regione Lazio e per la regione del Lazio non ha il tocco altisonante delle azioni di gargarismo. A pensarci bene non ha proprio il mood di ugola, figurarsi toni o volumi. Il presidente della Pisana ha deciso di fare prima ancora di proclamare che avrebbe fatto, ed ha avviato un silente cambio di marcia che passa per i territori.
Cioè che ha messo in una nuova sintonia quel che le aree sono e quel che la Regione deve attuare per farle essere di più. Quello della visita a Sora per spiegare (Rocca non annuncia, spiega) che è partito l’iter per la sistemazione del fiume Liri è solo l’ultimo degli esempi di un virtuosismo terrigeno e pratico che non sta nelle corde della politica “alta”.
Il rischio di essere concreti
Ma che per questo è altissimo, perché Rocca non è così a corto di skill da non sapere che riprendere il dialogo con i territori è operazione rischiosa. Lo è perché se vai a spiegare che la stazione Tav si farà a Ferentino in barba ad ogni prurito campanilista potresti briscolarti consenso in quei posti dove la decisione genera malmosto.
E se attui un radicale cambio di passo con cui ogni spot della regione che amministri sa di poter contare sulla tua franchezza più che sulle tue spirali lessicali allora vuol dire che sei un rivoluzionario. Silente, moderato, pratico, operativo ma che ha lasciato il megafono nel cassetto di un posto che era diventato forse troppo siderale per la metrica della gente comune.
Il consenso di lungo corso
Rocca non cerca consenso, non nel senso classico, e veloce con cui esso di solito viene vendemmiato nelle dinamiche della politica dei governi di secondo livello. Semplicemente lui va, spiega perché sì e poi spiega anche perché no. Come fanno i governanti che non hanno mai avuto tempo e voglia per scoprirsi satrapi.
Come fanno quelli che invocano la Zes dove la Zes non era arrivata, che si rimboccano le maniche sulla crisi automotive e che sudano sette camincie nel fare diga alle carenze ataviche della Sanità. Come farebbe un rivoluzionario che alle barricate preferisce i ponti.
I piedi per terra.
MARCO FURFARO
Assieme ad Antonio Mumolo, presidente dell’associazione Avvocato di Strada, ce l’ha fatta. Ce l’ha fatta a mettere la politica a servizio della società senza le mediazioni pelose di chi con la politica deve solo enunciare ideali. E non mettere a terra buone idee. E che Marco Furfaro alla fine sia riuscito in quest’operazione tutt’altro che facile in un’Italia proclamante ma mezza passiva non è solo dato bello.
No, era e resta un dato positivo ma che in origine non era affatto scontato. In queste ore è avvenuto il passaggio definitivo in Gazzetta Ufficiale e sono ore gloriose, perché dopo la valutazione del Senato della Repubblica finalmente una faccenda giusta è andata in porto di legiferato attivo.
Medico di base ai senza dimora
Attenzione: da Palazzo Madama era arrivata l’unanimità e forse questo è da considerarsi il segnale più positivo di tutti, a contare la polarizzazione della nostra scena politica e partitica. Ma di cosa parliamo? Del sì istituzionale alla proposta di legge del deputato Dem “per riconoscere alle persone senza dimora il diritto al medico di base”.
Non è poco, a contare due fattori. Il primo, legato alla ecumenicità etica e costituzionale del diritto alla salute. Il secondo, che va a traino di una situazione per cui in Italia i senza dimora sono molti di più di quanto non preferisca censire la pubblicistica official, di qualunque schieramento essa sia.
Perché poi amici del “popolo” si proclamano tutti, ma del popolo votante e ben allocato in società. Degli altri, quelli che hanno ben altri pensieri e non certo in spunta quello della cabina elettorale, da noi ci si occupa poco e male.
Tutti amici del popolo: votante
Per quella proposta Furfaro ha voluto dire grazie ad “Antonio Mumolo, presidente di Avvocato di Strada, che con me e altre associazioni si è battuto contro questa ingiustizia. Parliamo, pensate, di oltre centomila persone. Centomila persone a cui, prima di oggi, veniva negato il più basilare dei diritti: quello alla cura”.
E non era una cosa giusta, poco da fare. “In Italia, infatti, si verificava un’ingiustizia nell’ingiustizia: le persone, perdendo la casa, perdevano la residenza. E dunque il diritto al medico di base. Un vero e proprio cortocircuito che portava lo Stato ad accanirsi su chi non aveva nemmeno un tetto”.
Le categorie meste le conosciamo, e per molto tempo ci siamo solo preoccupati di metterle in cronaca diabetica e sdolcinata solo per avere una storia singola da raccontare. Non certo per denunciare un fenomeno sistemico a cui rimediare.
“Genitori che finiscono a vivere in macchina, donne che scappano di casa perché vittime di violenza, persone senza lavoro che un tetto non possono permetterselo. Da oggi, finalmente, non sarà più così e lo Stato si prenderà cura proprio di tutti. Anche di chi ha meno di niente”.
Il “senso della politica”
Furfaro ha ragione, quando dice che è stata sanata una delle “ingiustizie più atroci e si applica nient’altro che la Costituzione”. E che adesso “la vita di tante persone sarà un po’ più giusta e migliore”.
Lo spiega compiutamente la domanda finale di Furfaro, forse la sola domanda la cui retorica è gloriosamente bene accetta: “Non è proprio questo, del resto, il senso della politica?”.
Il senso giusto.
FLOP
PIER LUIGI BERSANI
Da uno come Pier Luigi Bersani ci si aspetterebbe sempre e comunque un format di esercizio di critica onesto. Attenzione: quel format esiste e non è oggetto di un’aspirazione frustrata, solo che Bersani è umano, e come tutti qualche volta soggiace alla lusinga del linguaggio della politica da slogan. Anzi, dei messaggi che citano onestamente una realtà fattuale me che la lardellano poi con contenuti inesatti.
E siccome Bersani tutto è meno che sprovveduto (a differenza di molti suoi antagonisti politici odierni) a lui proprio non gliela puoi appiccicare, l’attenuante della buona fede. Il tema è quello del lavoro, di quanto ha fatto il governo Meloni per il medesimo e delle cosiddette “ora lavorate”. L’ex segretario del Pd e leader di Articolo 1 ha affrontato il tema.
Le “ore lavorate” in meno
E ha detto: “Abbiamo il record per numero di occupati, ed è vero, non si è mai visto una cosa così, ma abbiamo una riduzione delle ore lavorate”. Ecco, non è esattamente così, e forse non serviva un’iperbole tecnica sì inesatta per sottolineare le tare dell’esecutivo in carica sul tema. Pagella Politica l’ha spiegata bene.
Scrivendo che “durante i primi due anni del governo Meloni l’occupazione in Italia è continuata a crescere. Nonostante il calo registrato rispetto ad agosto, a settembre c’erano quasi 24 milioni di occupati nel nostro Paese”. E c’è una ragguardevole cifra che fa da tester per questo dato. Sono oltre 700 mila in più gli occupati “rispetto a quando si è insediato il governo”.
E ci sono altri miti in negativo da sfatare. Come quello per cui non è affatto vero “che durante il governo Meloni è aumentato il numero dei dipendenti a tempo determinato, anzi: è avvenuto il contrario. Sono scesi i lavoratori con un contratto a termine e sono aumentati quelli con un contratto a tempo indeterminato”. C’è poi il tema sottolineato da Bersani delle “ore lavorate per dipendente”.
Cosa dice l’Istat in merito
Cioè, definizione Istat alla mano, “il numero medio delle ore di lavoro ordinario e straordinario prestate dai dipendenti con contratto di lavoro”. Esse si calcolano in rapporto alle posizioni lavorative dipendenti, ovviamente non a quelle autonome.
E “posto a 100 il livello delle ore lavorate nel 2021, nel secondo trimestre di quest’anno ogni lavoratore dipendente nel settore dei servizi ha lavorato in media più ore” rispetto al trimestre in cui si è insediato il governo. (…)
Ed in sunto: “Nel complesso, dopo il crollo causato dalla pandemia di Covid-19, a partire dal 2021 il numero di ore lavorate per dipendente nelle imprese dell’industria e dei servizi è tornato ad aumentare. Nel 2023 questo indicatore si è più o meno stabilizzato sui livelli precedenti al 2020”.
Quindi Bersani non ha detto una bugia totale, ma ha provato a farne passare una mezza, che in politica non è mentire, ma intorbidare le acque.
Ci ha abituati meglio.