
I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di martedì 20 maggio 2025
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I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di martedì 20 maggio 2025
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ALESSANDRO GASSMAN

Metti una domenica a Gallarate. In teatro, però, non si recita Pirandello. Né Shakespeare. Né il padre nobile del teatro italiano, Vittorio Gassman, cui quella sala è intitolata. No, in scena ci sono slogan sulla “remigrazione”, su come rimandare indietro gli “stranieri non assimilati”. Applausi. Stretta di mano tra ultradestra europea. Sipario.
Poi arriva lunedì. E con lui, Alessandro Gassmann. Figlio d’arte, sì, ma soprattutto figlio di memoria. Di una famiglia segnata, come tante, dai rastrellamenti nazifascisti. Apre Instagram, scrive un post che è un pugno e una carezza. Chiede al sindaco: “Tolga il nome di mio padre dal teatro, se questo è il palcoscenico che volete offrire a certi raduni.” Chiaro, diretto. Un uomo che sa dove si siede la dignità.
La risposta del sindaco

Andrea Cassani, sindaco leghista, reagisce con tono da preside offeso: “Suo padre avrebbe argomentato meglio”, scrive, come se Vittorio Gassman potesse oggi spiegargli, con un sonoro monologo da “La grande guerra”, perché i raduni neofascisti dentro un teatro non siano solo “idee controverse”, ma un’offesa alla storia, alla cultura, alla Costituzione. E anche, volendo, al buon gusto.
Cassani ci tiene a dire che “la sala è stata affittata, regolarmente, da giovani di destra”, che “Gallarate ha quattro teatri”, e che “non bisogna avere paura di nulla”. Tranne, forse, della verità storica. Perché se chi ha combattuto il fascismo — spesso morendoci — avesse avuto la stessa allergia alla “censura aprioristica”, saremmo qui a scrivere in tedesco, con lo stivaletto ben piantato sul collo.
Vittorio Gassman non può difendersi. Ma la cultura sì.

Questa non è una guerra di comunicati. È una battaglia simbolica, e come ogni battaglia simbolica, ha bisogno di coraggio. Gassmann figlio ne ha mostrato a sufficienza. Il sindaco, invece, si è arrampicato su un sofà di distinguo, relativismi e post-democrazia da salotto. In nome della libertà d’espressione, certo. Ma come se la libertà fosse una fiera di paese dove si può urlare tutto — anche il ritorno delle leggi razziali, purché si paghi l’affitto della sala.
La scelta, ora, è tutta politica. Il nome Gassman su quel teatro resta un onore per Gallarate? Lo si vuole davvero difendere da chi vorrebbe usarlo come scenografia per vecchie ideologie camuffate da dibattito culturale? Oppure ci si rassegna alla logica del “purché paghino”?
Perché, sindaco Cassani, tra il dire che “non bisogna aver paura delle idee” e il dare spazio pubblico a chi vorrebbe riscrivere il Novecento con l’inchiostro del peggior passato, c’è di mezzo la responsabilità. Che non si affitta.
Il Teatro, il cognome e la farsa delle idee “controverse”
DOMENICO BECCIDELLI

Ci sono imprenditori che volano alto. E poi c’è Domenico Beccidelli, che con gli elicotteri ci lavora davvero — ma che ieri ha dimostrato di avere anche i piedi ben piantati a terra, nella sua Anagni, tra le sfide vere dell’industria italiana. Sei scuole superiori, centinaia di studenti, e un messaggio semplice quanto rivoluzionario: il lavoro del futuro si costruisce con lo studio di oggi. E non c’è tempo da perdere.
Niente passerelle, niente promesse da convegno. Beccidelli ha aperto le porte — anzi, gli hangar — della sua azienda elicotteristica per mettere a confronto i ragazzi con chi il mondo del lavoro lo guida: amministratori pubblici, manager d’impresa, magistrati della Corte dei Conti, persino ex ammiragli della Marina impegnati al comando di navi in missioni nel Medio Oriente. Un parterre più da scuola di Stato che da azienda privata. Ma lo spirito era quello del mecenate: offrire visione, stimoli, orizzonti. Perché i giovani non si perdano, e il territorio non resti indietro.
La grande assente

A fare da sfondo all’iniziativa non c’è un evento celebrativo, ma un’urgenza concreta: il mismatching, cioè la distanza tra quello che la scuola forma e quello che le imprese cercano. Beccidelli lo sa bene: servono meccanici capaci di lavorare su elicotteri ad alta tecnologia, ma anche tecnici della logistica, operai specializzati nella chimica e nel farmaceutico. Figure che, semplicemente, non si trovano. E quando si trovano, spesso prendono il treno e vanno a cercare fortuna altrove.
“Ogni ragazzo che lascia la Ciociaria è una perdita secca,” ha detto uno dei relatori. Non un semplice addio, ma un impoverimento strutturale. Perché oggi, per aprire una fabbrica, il primo parametro non è la posizione o gli incentivi fiscali. È la disponibilità di competenze. E se quelle mancano, il treno del progresso passa senza fermarsi. Come ha detto nelle stesse ore, ma a migliaia di chilometri di distanza, il commissario del Consorzio Industriale Raffaele Trequattrini impegnato a Osaka per presentare le potenzialità del Lazio. (Leggi qui: )
Un’azienda come scuola di vita

L’iniziativa di Beccidelli ha il sapore di una lezione d’altri tempi, ma con lo sguardo ben fisso sul futuro. Parlare di scelte di studio, di indirizzi tecnici, di responsabilità individuale, in un hangar pieno di macchine volanti, ha un impatto che nessuna aula può eguagliare. È formazione esperienziale. È orientamento che emoziona.
Non si è parlato di ingranaggi e motori, ma di etica, di dedizione, di tenacia. Concetti che suonano fuori moda, ma che sono l’unica chiave per affrontare i nuovi mestieri generati da transizione digitale, green economy e riorganizzazione delle filiere globali.

Il punto, ha ribadito Beccidelli, non è trattenere i giovani con slogan o scorciatoie. Ma offrire loro motivi solidi per restare. Mostrare che proprio qui, in provincia, tra colline e capannoni, si può costruire un futuro di senso. Purché ci sia formazione. Purché ci sia orientamento. E ci sia qualcuno, come lui, disposto ad aprire le porte — e a investire.
In un Paese che troppo spesso si lamenta dei giovani “che non vogliono lavorare”, l’imprenditore ciociaro ha fatto una scelta diversa: ascoltarli, coinvolgerli, formarli. Perché se il lavoro c’è, ma manca chi lo sappia fare, la colpa non è di chi non si presenta. Ma di chi non si è mai preoccupato di insegnargli la strada.
Qui si vola solo con la testa ben formata.
CLAUDIO DURIGON

La notizia, in sé, è semplice: Alessandra Mussolini e Roberto Cantiani passano alla Lega. Ma a leggerla con l’occhio del politologo si capisce subito che dietro la cronaca c’è un racconto più interessante. Perché in Italia, a volte, più che di ideologie dovremmo parlare di dinastie. Più che di progetti politici, di movimenti genealogici. Di rotazioni gravitazionali attorno a quel grande corpo centrale che è il potere, qualunque sia la sigla del momento. (Leggi qui: La vendetta della Lega: sfila a Forza Italia Mussolini e Cantiani).
Alessandra Mussolini, da sempre funambola del centrodestra, si muove come una particella libera nel campo magnetico dell’identità politica italiana. Da An a FI, da Bruxelles a Domenica In, ha attraversato stagioni e simboli con un’agilità che non appartiene ai neofiti della propaganda, ma a chi conosce le regole del gioco. E ora eccola qui, pronta a issare il vessillo del Carroccio, in versione laziale. Un Carroccio che, grazie al sottosegretario Claudio Durigon, si attrezza per rifarsi il look: meno felpe, più contatti. Meno ruspe, più relazioni. Sopratutto più uomini di calibro, capaci di portare immagine e preferenze: come ha fatto nei mesi scorsi con l’ex presidente della Provincia di Latina Armando Cusani.
Roberto Cantiani invece è l’altro lato della medaglia. Silenzioso, metodico, profondamente radicato nelle logiche del Campidoglio. È la Lega che pesca il volto rassicurante della gestione cittadina, in un momento in cui serve più stoffa amministrativa e meno effetto speciale.
Il centrodestra come Rubik

La politica italiana assomiglia sempre più a un cubo di Rubik: ogni tanto ruota, si ricompone, cambia i colori delle facce, ma la struttura resta la stessa. Salvini accoglie, rilancia, capitalizza. Tajani osserva, minimizza, ma incassa il colpo. Perché sì, dire come fanno gli azzurri che “Mussolini non sposta voti” sarà anche vero. Ma quando una figlia d’arte prende pubblicamente le distanze dal suo storico Partito, due settimane dopo averne contestato apertamente il silenzio sui referendum, il segnale arriva chiaro: Forza Italia ha smesso di sedurre anche i suoi fedelissimi più teatrali.
L’operazione ha un valore che va oltre le percentuali. È un termometro della fase attuale: una Lega che prova a rimettersi in sesto nel Lazio, una FI che galleggia sulla figura istituzionale di Tajani ma non entusiasma, una destra meloniana che osserva, calcola, incassa il dividendo dell’immobilismo altrui. In questo panorama, ogni passaggio conta. Anche quelli simbolici. Soprattutto quelli rumorosi.
Mussolini in Lega: sarà amore o interesse?

Impossibile prevederlo. Ma è certo che non sarà noioso. Perché se c’è una cosa che Alessandra Mussolini non ha mai fatto, è restare in silenzio. E a Salvini, in questo momento, servono voci che facciano rumore nei talk e nei territori. E magari anche qualche cognome ingombrante, per ricordare che la storia — anche quella più controversa — si può sempre trasformare in visibilità.
Matrimoni funzionali.
FLOP
MASSIMILIANO FEDRIGA

Quello che sta mettendo in crisi Massimiliano Fedriga non è (solo) la crisi in Friuli Venezia Giulia della sua area politica di appartenenza, cioè il centro destra. No, quello che sta terremotando la tranquillità politica ed istituzionale di Massimiliano Fedriga, che di quella regione è governatore, è anche altro.
Apriti cielo
Tutto ha avuto origine da Via della Scrofa ma passando per un “vicolo” istituzionale, Vale a dire quando il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, che ha criticato duramente i presunti ritardi nell’apertura del nuovo ospedale di Pordenone.
Apriti cielo, e non per l fatto tecnico in sé (opinabile), ma per il dato secondo cui Fratelli d’Italia sta provando ad occupare caselle chiave della Lega nel nord Italia. Ed in quelle regioni dove il Carroccio era pilastro politico storico nella sua veste “governista”.
Qualche maligno ha suggerito che dietro i siluri di Ciriani ci sia l’input implicito delle sorelle Meloni, ma queste sono solo cattiverie gratuite… e plausibili.
La patata rovente

Sta di fatto che in regione si è innescata una frattura interna, “portando la Lega regionale a rimettere tutte le deleghe nelle mani del presidente Fedriga”. Che adesso ha in mano la patata più bollente dai tempi dell’invenzione della scala Celsius. “Ritenendo la crisi ormai aperta, abbiamo rimesso tutte le nostre deleghe nelle mani del Presidente, confermandogli piena fiducia affinché possa decidere con la massima serenità il da farsi“.
Parole, musica e fiele inside al centrodestra del segretario della Lega del Friuli Venezia Giulia, Marco Dreosto. E tutto in attesa del confronto, che si preannuncia serratissimo per le prossime ore, tra Fedriga ed il “Segretario Nazionale di Fratelli d’Italia prima di assumere ulteriori decisioni”.
Fedriga che ha spiegato: “Sono stato chiamato dai cittadini del Friuli Venezia Giulia ad amministrare la regione. Quando la politica entra in dinamiche di potere, fa danno ai cittadini. Io voglio continuare a lavorare per dare risposte concrete”.
Insomma, c’è una maggioranza da tenere unita, c’è una maggioranza che unita non lo è più e c’è un solo uomo-mastice, che potrebbe risultare collante troppo debole per questa resa dei conti.
Governisti in tacca di mira.
KATHARINA ZELLER

Quel gesto, secco, ruvido, senza bisogno di parole — la fascia tricolore gettata su una sedia dalla sindaca di Merano Katharina Zeller — dice più di mille discorsi. È l’immagine plastica di un malessere antico che, di tanto in tanto, risale dal fondo come un fiume carsico. E stavolta lo ha fatto senza filtri, senza frasi preconfezionate. Senza neppure la diplomazia a cui la Südtiroler Volkspartei ci ha abituati da decenni.
Non è stata una provocazione folkloristica, né una scenata da consiglio comunale. È stata una dichiarazione politica. Esplicita. Spigolosa. E, proprio per questo, autentica. Quella fascia — simbolo dello Stato italiano, non di un governo — è stata rifiutata in favore del medaglione cittadino. In un gesto, la priorità della comunità sulla Nazione. Il luogo prima dello Stato. La lingua prima della Costituzione.
Un’Italia che non è mai diventata tutta Italia

Che l’Alto Adige non si senta del tutto Italia è cosa nota. Ma che oggi, nel 2025, questa distanza venga riaffermata pubblicamente, senza giri di parole, è segno che qualcosa si è guastato anche sotto la superficie liscia dell’autonomia. Perché l’Autonomia speciale ha funzionato: ha garantito pace, risorse, rispetto. Ma non ha creato una fusione. Ha gestito una convivenza. Il che è molto, ma non è abbastanza.
Non lo è per molti cittadini italiani residenti in Alto Adige che continuano a sentirsi ospiti a casa loro. E non lo è per molti altoatesini di lingua tedesca, che pur beneficiando delle tutele, sentono ancora l’identità nazionale italiana come qualcosa di imposto, non di scelto. La ferita del 1918, con il Sud Tirolo annesso dopo la vittoria nella Prima guerra mondiale, non si è mai rimarginata davvero. È stata coperta, medicata, ma non guarita.
Un cortocircuito tra geografia, storia e politica

L’Italia è un Paese che non è mai stato omogeneo. Non culturalmente, non linguisticamente, non economicamente. La sua bellezza è anche la sua frattura. E mentre si parla di autonomie differenziate, di Nord e Sud, di statuti speciali e ordinari, esplode il cortocircuito. A Bolzano governa ora una maggioranza che unisce Svp e Fratelli d’Italia. Una alleanza che, più che sintesi, sembra un atto notarile. Un’operazione matematica che ignora le storie, le memorie, le ferite.
Il punto non è la legittimità. È la coerenza. Un nazionalismo italiano e uno tirolese che convivono in nome del potere, ma che non si parlano davvero, non si riconoscono, non si rispettano. E allora il tricolore resta un orpello, non un ponte. E diventa naturale, per qualcuno, metterlo da parte. Come ha fatto Zeller.
Ecco il punto più scomodo di tutti: quel gesto ci scandalizza, ma non ci sorprende. Non è la boutade di un estremista, ma l’espressione di un disagio reale. Che molti, anche tra gli italiani dell’Alto Adige, capiscono benissimo. E che tanti amministratori locali, in privato, ammettono da anni.
Il problema non è Zeller. Il problema è che la capiamo

Perché dopo un secolo, dopo milioni di euro, dopo montagne di statuti, di intese, di bilinguismi applicati anche alle insegne del supermercato, la fusione tra le due anime dell’Alto Adige resta incompiuta. La coesistenza resiste. Ma senza abbraccio.
Non si tratta di mettere in discussione l’unità nazionale. Ma di avere il coraggio di dire che ci sono territori dove l’identità non è unica, non è pienamente condivisa, e non lo sarà mai. E allora dobbiamo smetterla di fingere che basti la bandiera. O una scritta bilingue. O un patto di governo. Servono onestà, pazienza, e soprattutto una verità difficile da ammettere: ci sono parti d’Italia che non sono diventate italiane nel cuore. E se vogliamo davvero mantenerle dentro il nostro destino comune, dobbiamo farci carico di quella verità. Senza indignazione di facciata. Senza moralismi.
Perché la fascia si può anche rimettere. Ma la fiducia, una volta gettata, è molto più difficile da recuperare.
Questione irrisolta.