Top e Flop, i protagonisti di martedì 3 giugno 2025

I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di martedì 3 giugno 2025

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I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di martedì 3 giugno 2025.

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TOP

SERGIO MATTARELLA

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella

Quando nei momenti di maggior pregio storico-istituzionale Sergio Mattarella dice le cose che, in parte e per mandato “deve dire”, scatta un’impressione nettissima. Quella cioè per la quale il Capo dello Stato non debba mai soggiacere alla logica del “discorso dovuto”. Il pregio assoluto del Presidente della Repubblica è ed è sempre stato quello di “agganciare” i grandi temi istituzionali alla storia del momento.

E dire cose che spiazzano dall’alto di quella combo turrita come l’Italia Repubblicana che abbiamo festeggiato ieri. Cose che sono a volte talmente ovvie da risultare dirompenti in un Paese che le grandi ovvietà etiche a volte le cassa con troppa facilità.

Il monito fortissimo su Gaza
Sergio Mattarella con Guido Crosetto passa in rassegna il Reparto d’Onore

Come le cose che ad esempio Mattarella ha saputo agganciare alla 79ma Festa della Repubblica con il garbo istituzionale di farle trapelare come monito per ieri ma con preambolo di ieri l’altro.

In occasione del 79° anniversario della Festa della Repubblica al Quirinale, il Capo dello Stato ha infatti voluto riportare al centro la sostanza della scelta del 1946: una Repubblica nata dal rifiuto della guerra e della dittatura, forgiata nella Resistenza, voluta da un popolo che aveva toccato il fondo e che voleva risalire. Libertà, democrazia, pace. Non sono parole astratte, ma le basi della nostra Costituzione. E Mattarella, con determinazione, ci ha ricordato che quelle fondamenta sono ancora oggi il perno attorno a cui devono ruotare le istituzioni.

C’è stato anche spazio per un gesto potente nella sua semplicità: i giardini del Quirinale aperti ai cittadini più fragili. Non è solo accoglienza. È un simbolo: lo Stato che non si chiude nei palazzi, ma incontra le persone. Il Presidente che stringe mani che spesso nessuno vede. La Repubblica, se ha senso, è in quel prato.

“Aprite i varchi”
Foto: Omar Naaman / ApaImages

Ma Mattarella è andato oltre. Nel ricevere il corpo diplomatico, ha scelto di affrontare uno dei temi più delicati del panorama internazionale. Su Gaza, ha detto parole nette, senza retorica né ambiguità. Ha chiesto il cessate il fuoco, ha denunciato la fame come strumento di guerra, ha ribadito il diritto dei palestinesi ad avere una casa.

Un fortissimo appello umanitario che non può prescindere dalla condotta, dai pensieri e dalle parole di un uomo che oggi incarna la massima espressione di garanzia di un libero stato repubblicano. Il Presidente ha invocato l’apertura di quei varchi “per gli aiuti alla popolazione stremata dalla fame”. E tutto nel nome del sacrosanto e sacrale “diritto a un focolare entro confini certi della popolazione di Gaza”. Mattarella è andato oltre ed ha parlato di “grave erosione dei territori attribuiti all’Autorità nazionale palestinese”.

Un monito geopolitico fortissimo. Così come fortissima è stata la definizione di “inaccettabile” quella in ordine al “rifiuto di applicare le norme del diritto umanitario ai cittadini” della Striscia. Lo ha fatto davanti alla premier Meloni e al ministro Tajani. Un atto di coraggio istituzionale, che ha segnato il passo nella diplomazia italiana.

Sintonia piena
Il Presidente Sergio Mattarella all’Altare della Patria

Non è scontato, in una fase in cui la prudenza si confonde spesso con il silenzio. E ancor meno scontato è che il governo abbia risposto in sintonia. Meloni ha appoggiato quelle parole, ha riconosciuto la forza del messaggio presidenziale. Un segnale importante: quando le istituzioni si parlano nel linguaggio comune dell’interesse nazionale, il Paese ne guadagna in autorevolezza. Anche nel contesto europeo, in vista del bilaterale chiave con Emmanuel Macron, questa compattezza conta.

Il 2 giugno non è una cerimonia. È un test. Ogni anno. E ieri, grazie soprattutto al Presidente Mattarella, la Repubblica ha superato quel test con dignità e con senso dello Stato.

Non potevamo chiedergli di più ma non dovevamo chiedergli di meno, e non ci ha delusi.

Quella volta Renzi ci prese.

FRANCESCO ROCCA

Francesco Rocca

Nel giorno in cui la Repubblica celebra sé stessa, e con essa la memoria collettiva di una scelta che ha segnato il destino democratico del Paese, le parole pesano. E si notano, soprattutto, quelle giuste. Francesco Rocca, presidente della Regione Lazio, le ha trovate. Ancora una volta.

In un Partito come Fratelli d’Italia, dove il rapporto con il 2 giugno è spesso più tollerato che sentito, dove ogni celebrazione nazionale rischia di diventare una scivolosa prova d’equilibrismo ideologico, Rocca riesce a distinguersi con una lucidità e una compostezza che fanno bene non solo al suo ruolo, ma all’intera rappresentanza istituzionale della destra di governo.

Parole semplici e fondamentali

Libertà, democrazia, partecipazione: parole semplici, fondamentali, quasi scolpite. Rocca le ha pronunciate con chiarezza, senza esitazioni, senza secondi fini. Senza quel tono sfuggente che, troppo spesso, accompagna le dichiarazioni di esponenti del suo stesso Partito, sempre pronti a parlare d’altro pur di non dover dire davvero Repubblica.

Francesco Rocca in Aula

Ma non è un caso isolato. Rocca ha costruito, in questi primi mesi da governatore del Lazio, un profilo coerente: istituzionale, sobrio, presente. Non è uomo da polemiche gratuite, non agita le acque se non serve, ma nemmeno si nasconde quando occorre prendere posizione. Il suo intervento del 2 giugno è stato tanto breve quanto significativo. Ha ricordato i sacrifici di chi ha costruito la Repubblica, ha rivendicato l’orgoglio di rappresentare una regione centrale nella storia d’Italia, e lo ha fatto senza revisionismi, senza ambiguità.

In questo, Rocca appare sempre più come un’anomalia positiva in un panorama politico spesso dominato da dichiarazioni impulsive e slogan identitari. Dove altri suoi colleghi sembrano inseguire titoli e tendenze, lui preferisce la solidità della parola ponderata. Non è poco, oggi. Anzi, è moltissimo.

Visione più della visibilità

Perché in un’epoca dove la politica è sempre più performativa, dove la visibilità conta più della visione, Rocca sceglie la via della responsabilità. E se questo stile fa notizia, è proprio perché è diventato raro. Non rinnega la sua appartenenza, ma ne modera i tratti più ruvidi. Rappresenta Fratelli d’Italia, ma sa parlare a tutti. In un Paese che ha bisogno di unità, non di bandierine.

Il suo messaggio per la Festa della Repubblica è un esempio concreto di come si possa essere di destra senza rimuovere la storia. Di come si possa governare con autorevolezza senza alzare la voce. E di come, in fondo, la politica possa ancora essere esercizio di misura, di memoria e di futuro.

Francesco Rocca si conferma così come uno dei pochi volti realmente istituzionali del centrodestra. E in giorni come questi, non è un dettaglio. È un segnale.

Il volto istituzionale di un Partito che fatica a trovare il tono giusto.

LUCA DI STEFANO

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La Provincia di Frosinone “tinge” la Festa della Repubblica di rock e di tricolore. Non la solita parata di autorità e “freddi” messaggi istituzionali, ma un gesto che rompe gli schemi: sulla facciata di Palazzo Jacobucci è esploso un tricolore luminoso, mentre dalla terrazza è partito l’Inno di Mameli in una versione rock, suonato dal chitarrista ciociaro Luca Marzella.

Il video – mix di estetica e sentimento patriottico – è stato diffuso sui social dell’Amministrazione Provinciale, accumulando migliaia di visualizzazioni e centinaia di condivisioni in poche ore. Anche il presidente della Provincia, Luca Di Stefano, ha contribuito con un breve ma sentito discorso istituzionale, schietto e diretto, che ha accompagnato questa celebrazione inconsueta.

Il risultato è stato palpabile: la solita freddezza retorica è stata sostituita dall’energia travolgente di musica e colori. In breve, i numeri parlano chiaro:
• Oltre 15.000 visualizzazioni del video in poche ore
• Oltre 300 condivisioni sui social network
• Decine di commenti entusiasti da parte dei cittadini

Repubblica rock
Luca Di Stefano

L’idea di trasformare una celebrazione ufficiale in un evento emozionante e “instagrammabile” richiede creatività e coraggio. Lo dimostra l’uso fatto dell’estetica – la maestosità architettonica del Palazzo bardato dal tricolore come un palcoscenico – unita all’originalità di un inno nazionale rivisitato in una veste meno tradizione ma sempre rispettosa e istituzionale. Il paragone più immediato è con quel gesto ormai mitico: Brian May sul tetto di Buckingham Palace nel 2002, quando il chitarrista dei Queen suonò l’inno britannico per la Regina. A Frosinone, come allora a Londra, con le dovute proporzioni, musica e simboli si fondono per lasciare il segno: in entrambi i casi l’effetto è dirompente perché inedito.

In un’epoca di comunicati istituzionali monocordi e foto di rito, questa iniziativa si è presa la scena . La morale è che le emozioni, se ben orchestrate, viaggiano più delle parole vuote. L’originalità di una chitarra elettrica sotto il cielo terso ciociaro non fa più notizia solo sui giornali locali: diventa messaggio che colpisce e si diffonde spontaneamente. La Provincia di Frosinone ha suonato un’altra musica.

Chi fermerà la musica?

FLOP

GIORGIA MELONI

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha scelto: andrà alle urne per i referendum su lavoro e cittadinanza, ma non ritirerà le schede. Tecnicamente, è tutto legittimo. Politicamente, è tutto sbagliato.

Perché un capo di Governo non può permettersi la furbizia da regolamento, il trucco da retrobottega. Non può parlare di partecipazione e poi praticare l’ambiguità. Non può evocare la sovranità popolare e poi disinnescarla con una mossa tattica. Non può, soprattutto, fare scena senza prendersi responsabilità.

È legale non ritirare la scheda, certo. Ma è anche profondamente simbolico. È un modo per sottrarsi, restando in campo. È l’illusione di esserci, senza esporsi davvero. Un colpo basso alla democrazia partecipata, mascherato da educazione istituzionale.

Giorno emblematico

La scelta arriva nel giorno della Festa della Repubblica, quando si celebra un referendum – quello del 1946 – che ha cambiato la storia del Paese. Quel giorno, gli italiani votarono davvero. Lo fecero con passione, con divisioni anche laceranti, ma con una partecipazione che oggi ci sembra quasi eroica. Il parallelo è scomodo, certo. Ma inevitabile.

Oggi si chiede ai cittadini di esprimersi su due temi cruciali: i diritti dei lavoratori e l’accesso alla cittadinanza. Non sono quisquilie né bandiere ideologiche. Sono nodi strutturali del presente e del futuro di questo Paese. E se davvero si crede nella centralità del popolo, allora non basta fare un passaggio al seggio. Bisogna anche votare. Anche dire “no”, se si vuole. Ma dirlo apertamente, senza scorciatoie.

Perché qui non è in discussione la legittimità del gesto, ma l’onestà politica del messaggio. Un presidente del Consiglio ha il dovere di indicare una rotta, non di confondere le acque. Se pensa che il referendum sia sbagliato, lo dica. Se crede che l’astensione sia un modo per farlo fallire, lo spieghi con chiarezza. Ma evitare le schede senza prendere posizione non è neutrale: è un modo elegante per boicottare.

La congiura del silenzio

Nel frattempo, le opposizioni manifestano, i comitati si mobilitano, il dibattito cresce. Ed è giusto così. Perché un referendum, anche quando non raggiunge il quorum, serve a questo: a far parlare il Paese, a far emergere contraddizioni, visioni, conflitti. È un termometro della democrazia.

Giorgia Meloni, invece, sembra preferire il silenzio rumoroso. Ma la democrazia non è una cerimonia. Non è un dovere d’apparenza. È un esercizio di chiarezza. E se chi la guida non ha il coraggio di prendere posizione, il rischio è che a perdere non siano solo i promotori del referendum, ma la credibilità stessa delle istituzioni.

La premier ha ancora tempo per cambiare passo. Per trasformare un gesto passivo in una scelta politica piena. Perché la leadership non si misura nella prudenza, ma nella responsabilità. E oggi la responsabilità passa anche da una scheda ritirata. E da un sì. O da un no. Purché vero. Purché detto a voce alta.

Il coraggio di dire sì (o no).