I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di martedì primo ottobre 2024
I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di martedì primo ottobre 2024.
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ANDREA TORNIELLI
Come direttore editoriale di Vatican Media ha fatto un piccolo capolavoro, e spieghiamo. La stampa, cosiddetta “d’area” ha un compito che è molto più delicato di quanto non raccontino le vulgate social sui presunti “pennivendoli”. I media di contesto devono infatti sostenere le tesi di riferimento dei sistemi ideologici a cui fanno riferimento ma con garbo e sempre secondo una bussola di “logos”.
Soprattutto con moderazione, urbanitas lessicale e con argomenti empirici. Non è poco. Ora, se questo è di per sé un compito arduo per i giornali che devono – diciamo – sostenere una data linea politica, cioè una cosa che sarà criticabile o meno ma comunque è fattuale, figuriamoci cosa succede con le cose divine. Anzi, con i miracoli. Quelli che in molti attribuiscono da decenni a ciò che permeerebbe il sito mariano di Medjugorje.
Il nodo Medjugorje che risale al 1981
Ecco dove Tornielli ha fatto il suo capolavoro: nello spalleggiare catesianamente la Santa Sede del Terzo millennio a dare disco vedere ai pellegrinaggi in quel posto, ma con una rotta precisa.
Quale rotta? Quella del beneficio spirituale di un posto che, essendo legato alla Madonna, può di fatto diventare fonte di ispirazione e viatico per un approfondimento della fede.
Tornielli si muoveva sul terreno pericoloso ed infido dei miracoli e delle strologate dei santoni che a Medjugorje pullulano. Ed è proprio questo l’aspetto sui cui fondava la storica cautela del Vaticano nei confronti del sito mariano. Come avallare miracoli e guarigioni, proselitismo con figure ieratiche a mazzi, e poi sperare di uscirne sani? La soluzione l’ha trovata in parte Tornielli.
La soluzione geniale: e statistica
Con la Nota “Regina della Pace” la santa Sede ha regolamentato una faccenda che si trascina dal 1981. Cioè riconoscere o meno Medjugorje senza farlo diventare una Delfi del Terzo millennio che fa dottrina a sé.
La soluzione è geniale e l’ha riportata Avvenire: “I fedeli potranno recarsi liberamente in pellegrinaggio a Medjugorje, per fare esperienza dei frutti spirituali lì maturati. Ma questo non significa che ci sia una soprannaturalità dei fenomeni raccontati dai ‘veggenti’.” (…)
Il documento del Dicastero per la Dottrina della Fede, approvato da Papa Francesco lo scorso 28 agosto, non si pronuncia sulla soprannaturalità ma riconosce gli abbondanti frutti spirituali legati alla parrocchia-santuario della Regina della Pace”.
Sponda perfetta, e asettica
Serviva una sponda però, e qui è entrato in gioco Tornielli. Con la cosa meno ieratica del mondo: i numeri. E così: “Tra questi frutti spirituali, il direttore editoriale di Vatican Media, Andrea Tornielli, ha citato il numero delle comunioni che ci sono state dal 1985 a giugno di quest’anno. Cioè 47,5 milioni, e il numero dei sacerdoti che hanno concelebrato dal 1986 sempre al giugno scorso, più di un milione e mezzo. Il flusso dei pellegrini si calcola in più di un milione di persone all’anno”.
Che significa? Che il giornalista non ha toccato il tema del soprannaturale nella sua opera di sparring editoriale, ma ha evidenziato il beneficio spirituale che certi luoghi danno a chi ha già maturato e costruito un fideismo tutto suo.
Linea editoriale purissima.
EMANUELE DE VITA
Non è soltanto una carica prestigiosa o una medaglia da appuntarsi al petto magari per accreditarsi nei salotti buoni. Ma è una vera e propria missione in cui ci mette la faccia ogni giorno diventando a volte anche scomodo. L’avvocato anagnino Emanuele De Vita, rieletto al consiglio del Comitato regionale della Ferdernuoto, ha un grande obiettivo: portare la voce del territorio nel “palazzo”.
Una sorta di ambasciatore delle decine di società sportive che quotidianamente gestiscono le piscine e svolgono attività sopportando sacrifici indicibili. “Dietro le medaglie c’è il lavoro dei club che devono essere sostenuti – ha detto subito dopo la rielezione – Mi adopererò affinché la FIN abbia maggiore capacità di ascolto nei confronti della base per supportare e garantire una gestione sostenibile degli impianti natatori”. (Leggi qui: De Vita, il consigliere-paladino dei territori).
Un secondo mandato di qualità
De Vita resterà in consiglio per i prossimi 4 anni in rappresentanza degli atleti. Una conferma che premia il lavoro svolto nel precedente ciclo malgrado le problematiche dovute al Covid. E’ stato rieletto nella squadra del presidente Gianpiero Mauretti, rieletto quasi a furor di popolo (2.783 voti pari al 99,35% dei votanti) dall’assemblea del Comitato che si è svolta a Roma nella sala convegni del polo natatorio del Foro Italico.
Per la Ciociaria la presenza di De Vita nella FIN è strategica per esperienza (gestisce alcuni importanti impianti tra Frosinone e Roma) e competenze giuridiche.
“Il mio impegno sarà dedicato in maniera prevalente alla provincia di Frosinone, sarò a disposizione di tutte le società per ogni problematica inerente le discipline acquatiche – ha spiegato De Vita che punta ad alzare l’asticella – Spero per questo di ottenere ancora una volta la delega agli affari generali che mi consentirà di operare a 360 gradi sfruttando anche le mie conoscenze in ambito giuridico”.
Idee chiare e
L’avvocato-consigliere si è messo subito al lavoro. Tra gli obiettivi principali quello di creare un tavolo tra associazioni e amministrazioni per confrontarsi sulla gestione delle piscine. “Cercherò di contribuire affinché gli sforzi delle società sportive e degli enti pubblici proprietari degli impianti natatori possano convergere su obiettivi comuni”, ha sottolineato De Vita. Inoltre tenterà di incrementare l’organizzazione in Ciociaria delle gare regionali per far crescere il movimento e consentire alle piscine della provincia di ospitare manifestazione di rilevanza.
E poi c’è la centralità dello Stadio del Nuoto di Frosinone, affidato nei giorni scorsi alla Bellator Frusino per un anno dopo 2 mesi di chiusura forzata. De Vita non si è nascosto nel politichese: ha chiesto che le società mantengano gli stessi spazi della precedente gestione e soprattutto ha spronato il Comune a pubblicare il bando europeo per un affidamento pluriennale che consenta di tutelare gli sportivi, i cittadini ed i lavoratori. Della serie: basta con l’approssimazione e la politica della proroga. “Come Comitato vigileremo che tutto venga effettuato nel rispetto delle regole e dello sport”, ha chiosato.
Consigliere di lotta e di governo.
FLOP
GIANLUCA QUADRINI
La capacità di fare squadra e riunire truppe intorno ad un progetto è dote diffusa con parsimonia. Perché reclama in sé molti talenti: parlare in maniera convincente, dosare premesse ed impegno, mantenere un buon grado di affidabilità, saper coinvolgere e motivare. In quale misura il presidente del Consiglio Provinciale di Frosinone Gianluca Quadrini ne possegga è questione dibattuta: la risposta migliore l’hanno sempre fornita i numeri che lo hanno incoronato come il candidato al Consiglio più votato in termini di amministratori.
Un consenso che da un lato impone un continuo movimento di manovra. E dall’altro chiede concretezza amministrativa. Il punto di equilibrio non è facile da individuare. Come nel caso della sua più recente iniziativa: la convocazione di un Consiglio Provinciale aperto a tutti i sindaci e dedicato alla crisi Stellantis. Opportuno e tempestivo: ma dai risultati pratici assolutamente inutili.
Se l’assemblea deve essere uno sfogatoio per sindaci che tra poco rischiano di essere assediati dai loro concittadini, allora ha un senso. Se deve essere un alibi per poter dire domani ‘Noi abbiamo fatto qualcosa‘, altrettanto ha un senso. Ma se ha l’ambizione di risolvere qualcosa allora deve essere chiaro che nemmeno Mario Draghi ne avrebbe il potere. E – con tutto il rispetto, figuriamoci Quadrini.
Buttiamola in caciara
Il rischio concreto è quello di buttarla in caciara. Ed è quello di cui meno hanno bisogno i lavoratori Stellantis. Un quarto di secolo fa o su di lì, l’allora abate di Montecassino dom Bernardo D’Onorio si mise in macchina e si fece portare a Torino per parlare con l’ex allievo Franzo Grande Stevens che lo introdusse a colloquio con Gianni Agnelli. Se la speranza è di ripetere l’impresa vanno messi in chiaro alcuni punti: l’avvocato Grande Stevens non è più il custode della cassaforte di famiglia Agnelli, altri ex allievi di Montecassino a quel livello non ce ne sono, l’Avvocato non è più tra i vivi, i suoi successori hanno messo in vendita su Immobiliare punto it lo storico palazzo con l’ufficio di Giovanni Agnelli: il Senatore, non l’Avvocato e tutti lo hanno scoperto dall’annuncio in rete.
E per completezza, il ministro Adolfo Urso (cioè il Governo italiano, non la Provincia di Frosinone) è arrivato a punto di cercarsi altri player dell’Automotive da portare in Italia sperando di sostituire gli attuali interlocutori. Perché non interloquiscono. E non lo fanno perché l’auto non è da anni un asset strategico.
Errore di tempi
Se proprio qualcosa si voleva fare non è adesso il momento strategico. Era quando Fca ha venduto a Stellantis, oppure quando la sede è stata spostata dall’Italia alla Francia, o ancora quando i libri contabili sono stati spostati ad Amsterdam che sta fuori dall’Italia. Erano quelli i momenti. Nei quali invece molti hanno fatto finta di non capire. E chi ha capito ha taciuto. Perché ormai era tutto inutile. Un banalissimo manuale di Macroeconomia basterebbe a comprenderne le ragioni.
Ci si poteva mobilitare quando un paio di anni fa gli industriali dell’indotto Cassinate si sono visti a Vallelunga ed hanno dato vita al primo Hub dell’Automotive, avendo ben cura di tenersi lontano dai politici. Che fino a quel momento niente avevano fatto. O ci si poteva mobilitare quando Unindustria ha detto che solo un polo di produzione energetica avrebbe salvato gli stabilimenti Stellantis in Italia. Qui, tutti a fare fischi e pernacchie: Melfi lo sta facendo e sta creando le condizioni per una sopravvivenza.
Sembra di assistere alla stessa pantomima andata in scena quando i francesi di Thomson hanno fatto finta di cedere Videocolor alla Videocon. C’era la corsa a fare qualcosa. Ma in realtà era una marcia sul posto: dove tutti battono gli anfibi e fanno rumore ma nessuno si muove di un solo passo.
Marcia sul posto.
ANDREA ARIGHI
Qui non diamo voti, né esprimiamo giudizi senza appello. Ci si limita a rilevare condotte che forse avrebbero meritato un approccio più cartesiano e, qualche volta, a rammaricarsi per scivoloni palesi da parte di esponenti di calibro istituzionale, pubblico o mainstream.
Tutto questo per spiegare senza alcun preconcetto che forse il dottor Andrea Arighi, neurologo, si è irregimentato un po’ troppo tra quelli che oggi “si schierano” contro i benefìci del vino.
Chiave di lettura bifida: dire vino e dire Itala è sinonimo, lo è al punto che la nostre terra ha in Enotria il suo nome più antico di tutti. Terra del Vino. Un motivo ci sarà e non serve che qui si spieghi cosa siamo noi per l’enologia: in storia, economia, gastronomia, moda, geografia, fisica quantistica e filosofia. Non è questa la sede ed ogni italiano medio questa realtà la percepisce come tonda. E condivisibile. Tanto che il Gambero Rosso ha “brandizzato” la qualità nei vigneti del Lazio. Con ben 10 vini a ricevere i “Tre Bicchieri” cioè il massimo riconoscimento assegnato dalla Guida Vini d’Italia 2025.
Il bicchiere alla sbarra
Di contro, il vino è alcol, cioè fonda la sua natura organolettica sull’etilene. Cioè una molecola che a dosi eccessive e nei momenti sbagliati può essere dannosissima. Per la salute fisica, quella mentale e per la salute sistemica della società. Dichiarate le forze in campo spieghiamo.
Qualche tempo fa era stato “simulato un processo, per fare il punto sul vino: ha effetti benefici sulla salute? Per la Procura no. E per dimostrarlo si è avvalsa di una lista di testimoni, pronti a sostenere l’impianto accusatorio”. Ecco, in questa sfilza di testi a carico del vino ci si è inserito anche il dottor Arighi. Che ha detto cose giustissime, ma anche velatamente screziate di demonizzazione soft. E di scenario in upgrade di consumo, magari “ignorando” che anche troppe ciriole o troppa noce moscata fanno un male cane.
Ora, al di là del format, dell’analisi specchiata in punto di scienza medica e della mezza assoluzione, il dato resta. Ed è quello per cui inserire concettualmente il vino tra le sostanze che non danno particolari benefici ci sta, anche se è una lettura ancora molto discussa.
“Se troppo fa male”. Grazie eh?
Tuttavia non riconoscere che un “processo al vino” è per un italiano un po’ come la storiella del marito, della moglie e delle forbici impugnate dal primo per dispetto è un po’ masochistico. Se il vino faccia male o meno al cuore (a dosi chete) noi non lo sappiamo ma sulla disputa volentieri passiamo. Però sappiamo che magari un neurologo non dovrebbe ragionare su sistemi di scala esacerbata. Sennò poi vince facile ma taroccando la partita.
“Il consumo eccessivo e cronico di vino comporta danni neurologici, sia a breve che a lungo termine. L’alcol, metabolizzato in acetaldeide, una sostanza tossica, causa stress e danni alle cellule nervose”. Grazie mille prof, ma si stava decidendo altro, perciò quel “eccessivo e cronico” la mettono in posizione inattaccabile, ma talebana in quanto a contesto.
Ce piacciono li polli.