
I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di mercoledì 5 febbraio 2025
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I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di mercoledì 5 febbraio 2025.
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GIORGIA MELONI

Si era a fine giugno e Fanpage, con una delle sue inchieste, aveva marchiato l’estate 2024 con lo starter pack discutibilissimo di una certa ultra destra da cui prendere le distanze pare difficoltoso, per qualcuno. Indagando su riunioni e protocolli di Gioventù Nazionale, l’organizzazione da cui anche l’attuale premier Giorgia Meloni “proviene”, era emerso un quadro desolante.
Con “insulti antisemiti, razzisti, saluti romani ed esaltazione del nazismo da parte di militanti”. E con una serie di “accuse” gravissime per il movimento giovanile di Fratelli d’Italia. Fanpage spiegava che si trattava di “militanti che negli anni hanno collaborato, o collaborano ancora, con i massimi dirigenti del partito di Giorgia Meloni”.
Non a caso – ed ovviamente un po’ artatamente per dare sugo – quell’inchiesta era stata battezzata “Gioventù meloniana”. Due puntate su cui la politica si era unita in una condanna unanime forse come mai prima.
Critiche unanimi, anche della premier

Tutti, anche Fratelli d’Italia e la stessa premier. Facendo della solerzia un valore aggiunto. Perché, tornando a quando un’altra solerzia (di certo minoritaria ma comunque fondamentale) era venuta meno, era ben difficile non inorridire. Ed agire contro persone che parlavano di “ebrei che campano di rendita sull’Olocausto”, militanti che inneggiavano a “zio Benito” e battute al veleno contro Ilaria Salis.
Meloni perciò aveva fatto la faccia arcigna ed aveva proclamato: “Fuori chi ci vuol far tornare indietro. Non siamo come vorrebbero dipingerci”. Senza mezzi termini. Anche perché gli strali dell’opposizione, in primis di Elly Schein, si facevano sentire e come. Meloni aveva quindi inviato una lettera ai dirigenti del suo Partito “ma senza pronunciare mai la parola antifascismo”.
I provvedimenti che non arrivano

Il senso era che Meloni si era fatta un nodo grosso al fazzoletto, su quella brutta faccenda. E che a breve sarebbero arrivati provvedimenti d’imperio. Misure severe da parte della leader di un Partito al cui traino ci sono movimenti che per parte mainstream proprio non ci riescono, a pacificarsi con la loro truce storia.
Ecco, il dato però è un altro: quei provvedimenti non sono ancora arrivati, a distanza di quasi sette e con un anno diverso sul calendario. Dimenticanze? Un momento. Mettiamo in pausa il film ed affacciamoci alla finestra: a quanti oggi verrebbe in mente di dire, fare e sostenere le stesse cose che indussero la leader di Partito Giorgia Meloni a tuonare contro chi voleva interrompere il cambiamento? Meno, molti meno. E questo dimostra che non sono le punizioni ad indurre il cambiamento, la vita non è una caserma. In quella occasione Giorgia Meloni fece comprendere chiaramente il messaggio: non ci sarebbero stati appelli né tolleranze.
Ora resta quella parte di nostalgici che legittimamente hanno le loro convinzioni. È evidente che conoscano e siano rimasti affascinati da una sola parte della Storia. Occorre fare in modo che siano consapevoli anche dell’altra parte, fatta di razzismo, leggi liberticide, torture, polizie segrete, soprusi, confini. E poi, liberi di decidere. Ma in consapevolezza.
A metà dell’opera.
RICCARDO DEL BROCCO

Il silenzio è d’oro. Soprattutto se si sta sotto la lente d’ingrandimento di chi è chiamato a pettinare ogni singolo pelo e fare la scrima tra comportamenti disinvolti e reati penali. Più ancora se uno della tua compagnia di giro è stato preso con l’accusa d’avere messo le mani nella marmellata ed essersele leccate in abbondanza. Ecco, in questi casi il silenzio diventa una discussione portata avanti con altri mezzi, come insegnava Che Guevara.
È probabile che all’ex assessore all’Ambiente Riccardo Del Brocco non sia piaciuto il modo in cui procedeva la discussione a Ceccano in attesa della conclusione delle indagini sul sindaco Roberto Caligiore accusato di avere fatto la cresta sugli appalti finanziati con denaro europeo. E sia chiaro: non contesta l’indagine (in cui anche lui è stato attenzionato) né le accuse mosse al suo ex sindaco. Se ne tiene alla larga. Ma ha voluto tracciare un solco con il suo incontro avvenuto l’altro giorno a Palazzo Antonelli, sede del municipio, con il commissario prefettizio ed i due vice che governano Ceccano. (Leggi qui: Del Brocco dal Commissario: “Basta con le leggende su di noi”).
I due lati del solco

Da un lato di quel solco c’è la vicenda giudiziaria che ha creato imbarazzo nel centrodestra e sdegno in città. Dall’altro lato – rivendica Riccardo Del Brocco – c’è una pattuglia di amministratori che di nulla è sospettata e che con coscienza ritiene di avere lavorato per Ceccano.
Per questo, non ci sta ad una narrazione che getti nel cestino tutto ciò che è stato fatto per quattro anni. E ne rivendica il merito. Reclamando chiarezza su alcune delle recenti decisioni prese dal Commissario: legittime. Purché sia chiaro che sono decisioni amministrative prese da lui e non conseguenze di pessima amministrazione, perché i soldi in cassa ci sono se si vogliono portare avanti i progetti avviati.
Farlo in questa fase è rischiosissimo. Perché la ferita nella città è ancora aperta e la delusione è ancora massima. Ma proprio per questo la scelta di Del Brocco è coraggiosa ma non temeraria. Rivendicare la correttezza di un’amministrazione, seppure solo in parte, è unguento per lenire quello sfregio ai ceccanesi. Dicendogli che cose buone sono state fatte. Al di là degli errori che se accertati verranno sanzionati.
Consapevole che una parte ascolterà ed una parte gli tirerà addosso ogni forma di epiteto: perché è l’unico finora ad averci messo la faccia. E questo fa la differenza.
Il fragore dopo il silenzio.
FLOP
GIUSEPPE CONTE

Le definizioni di “evoluzione” ed “involuzione” sono molto mobili in politica. Tuttavia dovrebbe preesistere al loro utilizzo anche una sorta di “cuscino etico di fondo”. Un presupposto ovvio ed intoccabile che però pare essere in procinto di finire nel dimenticatoio di convenienza.
Il dato è storico: con Mani Pulite e con tutto quello che all’epoca successe si giunse ad una conclusione. Questa: l’immunità parlamentare era solo uno “scudo” per consentire – ove si generasse – che il malaffare fosse intoccabile in punto di Diritto.
Attenzione: nessuno disse, né successivamente legiferò in tal senso, che il malaffare della politica era una costante da potare in maniera ruvida. No, abolendo l’immunità parlamentare si affermò solo un principio di eguaglianza assoluta.
Quello per cui se (anche) un parlamentare fosse stato in odor di reato allora anche lui/lei doveva essere sottopost* a verifica da parte della magistratura.
Cosa ipotizza Forza Italia

Oggi le cose sono cambiate, Tangentopoli è vista come un’aberrazione e non più come un lavacro che dalle aberrazioni non fu immune ma che tutto sommato fu sacrosanto come concetto.
Perciò Forza Italia ventila una possibilità che l’immunità parlamentare torni ex lege. E che il tempo diventi gambero, come in quel memorabile spettacolo teatrale di Enrico Montesano.
Giuseppe Conte ha perciò colto due cose, entrambe fondamentali: l’usta tutta tattica di “inchiodare” il destracentro ai suoi pruriti storici, ribadendo al contempo che il “suo” M5s è proprio l’argine giusto. Poi che in punto di etica il ritorno dell’immunità è una sfacciata retrocessione di civiltà giuridica.
Con queste parole: ”E dopo il ripristino dei vitalizi al Senato, l’abolizione del reato per i politici che abusano del loro potere, l’aumento degli stipendi dei Ministri e la imbarazzante difesa della Ministra Santanchè tenuta incollata alla poltrona, ecco che ci provano”. Con cosa? “Con l’immunità e il ritorno di uno scudo che renda intoccabili esponenti del Governo ed eletti!’‘.
Meloni-Marchesa del Grillo

Su X il presidente del Movimento Cinque Stelle non ha avuto pietà per questo scenario possibile. E ancora: “Capite a cosa servono i piagnistei di Meloni e soci contro i giudici? A creare il clima adatto ad aumentare privilegi, soldi e spazi di impunità per i politici”.
E questo “mentre si colpiscono i cittadini comuni con nuovi reati e tagli anche sulle buste paga. Siamo governati dalla Marchesa del Grillo? Questi qui sono in pieno delirio di onnipotenza”.
Ovviamente il mood demagogico c’è tutto (una sedicente capopopolo che il popolo disprezzerebbe), ma quel sottofondo di sacrosanta reprimenda non recede, affatto. ”Facciano subito retromarcia su questa proposta e su queste intenzioni. Alziamo il livello di guardia prima che sia troppo tardi, dobbiamo opporci tutti insieme. Altro che Meloni ‘una del popolo’, hanno gettato la maschera: arroganza, immunità e privilegi”.
Recita populista

Forte e scenografico, non del tutto errato. Ma assolutamente pretestuoso. Quella di Giuseppe Conte non è una battaglia di principio. È soltanto un accarezzare la pancia al suo elettorato più antico e basico, tentando di riproporre il vecchio cavallo di battaglia che cavalcò Beppe Grillo: i ladroni in Parlamento ed i grillini con l’apriscatole. Che poi non aprirono un bel nulla è altra faccenda. E che nulla trovarono in quei pochi casi in cui aprirono è altra faccenda ancora.
Qui è questione di Costituzione. Quando i padri costituenti inserirono la norma sull’immunità e l’insindacabilità lo fecero prevedendo quello che sarebbe accaduto in sua assenza. E cioè: una assurda lotta tra due Poteri dello Stato per avere il predominio l’uno sull’altro. Da quando è stata tolta l’immunità centinaia di parlamentari sono stati inquisiti e poi assolti ma nel frattempo la loro carriera è stata rovinata. Ai colpevoli di malefatte si sarebbe potuti arrivare lo stesso: con le regole che c’erano prima. Non prevedevano la libertà di furto, rapina, stupro e tangenti per chi fosse Parlamentare: prevedeva uno scudo con cui evitare che a qualcuno venisse in mente di giocare al tiro al piccione.

Cosa che avvenne. Basti ricordare che Francesco Cossiga, 8° Presidente della Repubblica e prima chiarissimo professore di Diritto Costituzionale, mandò le camionette con i carabinieri in tenuta anti sommossa davanti alla sede del Csm. Per difendere la Costituzione che riteneva si stesse violando, tentando di trasformare un organo di autogoverno in una terza Camera dello Stato. (Leggi qui: Quando Cossiga mandò i carabinieri al Csm).
Tattica buona, etica meno.
DANIELA SANTANCHE’

Un po’ se stessa, un po’ quella che oggi è costretta ad essere. Vale a dire un’esponente del governo cannibalizzato da Fratelli d’Italia che a quelli di Fratelli d’Italia aveva detto “chissenefrega”. Daniela Santanché aveva pronunciato questa frase mezza sprezzate quando, incalzata dai cronisti, aveva dovuto rispondere sul fatto che a Via della Scrofa un suo passo indietro è visto come salutare.
Per cosa? Per la vicenda Visibilia e per la posizione giudiziaria della ministra del Turismo, rinviata a giudizio. Insomma, dire che l’arrivo della Santanché alla Direzione Nazionale del Partito “di” Giorgia ed Arianna Meloni è stata cosa soft significherebbe mentire.
Non è stata roba light
E infatti non è stata roba light, piuttosto una faccenda mezza imbarazzante con una “fuitina” finale della ministra “per impegni pregressi”. Qui il primo errore della “Pitonessa”. Quello cioè di non essersi resa conto del fatto che le sue sorti politiche sono appese proprio al gradimento di Fdi, che è oggi la sola forza politica capace di resistere al dato ovvio della sua posizione fascicolare ed a quello politico delle opposizioni che di Santanché invocano le dimissioni.
Vero è che Giorgia Meloni e la sua “sceneggiata” sul caso Almasri hanno distolto l’attenzione dal caso quel tanto che bastava per togliere allo stesso calor bianco.
L’argine di Ignazio

Vero è anche che la ministra non ha fatto mistero di contare sull’argine di Ignazio La Russa per resistere alla slavina di “dimettiti”. Però così la Santanché ha lanciato il solito messaggio sfrontato. Traducibile liberamente così: “Io qui resto e ci resto perché ho i capi che nel mio caso ‘abbozzano’, e il perché lo so solo io”.
Non proprio un gesto collegiale, a contare anche il suo atteggiemento. La ministra ha dribblato i cronisti, addirittura “con qualche momento di tensione per la ressa scatenata” e poi se ne è andata va in anticipo. Giusto il tempo per far capire alcune cose non proprio accomodanti.
Tre step “sfrontati”

Primo, che lei, usando sempre il “noi” nelle sue brevi e scattiste dichiarazioni, ha ribadito che lei è di Fratelli d’Italia malgrado quel che Fratelli d’Italia vorrebbe da lei. Secondo, che nella sala Congressio di Piazza di Spagna non ci è arrivata una politica saggiamente predisposta a capire e far capire che forse ha capito, ma una Erinni testarda che non schioderà. Mai.
Terzo: che forse Daniela Santanché non ha ancora capito che il “suo” partito ha una pazienza limitata. E che quella pazienza a scartamento ridotto ce l’ha soprattutto Giorgia Meloni, che dopo il caso Almasrsi non sa più cosa inventarsi per risolvere un caso risolvibile in un solo modo. Quello che alla santanché proprio non piace.
“Santa” ma non troppo.