
I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di sabato 12 aprile 2025
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I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di sabato 12 aprile 2025.
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MAURO BUSCHINI

Ci sono storie che fanno rumore quando iniziano ma non lasciano il segno quando finiscono. Quella di Mauro Buschini è una di queste. Dopo anni di silenzio, è arrivato il “pezzo di carta“: un tribunale ha scritto nero su bianco quello che la giustizia penale non ha mai nemmeno dovuto chiarire, perché non ce n’era bisogno — Buschini non c’entrava nulla con il caso del concorso di Allumiere.
Sembra banale, ma non lo è. Perché in quel 2021, mentre la seconda amministrazione Zingaretti veniva scossa dalle polemiche sul concorso pilotato nel piccolo Comune di Allumiere, Buschini — allora presidente del Consiglio regionale — scelse di dimettersi. Non era indagato. Nessun avviso di garanzia, nessuna accusa formale. Solo l’ombra. Ma, da dirigente politico vero, scelse di farsi da parte per non dare alibi a chi voleva colpire l’intera Regione.
Un gesto raro, tanto più oggi, dove la politica si difende a prescindere, anche di fronte all’evidenza. Buschini no. Ha preferito il silenzio all’autodifesa televisiva, l’attesa alla reazione scomposta. Non si è ricandidato, ha evitato conferenze stampa, non ha brandito il garantismo a intermittenza. Ha scelto il campo più difficile: quello della coerenza.
La sentenza

Ora arriva una sentenza del Tribunale civile di Frosinone, che condanna alcuni articoli pubblicati all’epoca per i toni e le allusioni. E indirettamente, quel verdetto certifica che sì, tutto quel fango era gratuito. Ma la notizia vera è che Buschini ha reagito con una sola frase: “Quanto fango”. Niente rivalse, nessuna richiesta di palcoscenico. Nemmeno adesso.
In un’epoca in cui si urla anche per difendere l’indifendibile, la scelta di Buschini di non fare rumore nemmeno in una circostanza in cui in ballo c’è la propria onorabilità è politica allo stato puro. Una lezione di stile, ma anche di cultura democratica. Chi guida le istituzioni, anche solo per un’ombra, deve sapersi fare da parte. Ma chi subisce un’ingiustizia, quando poi viene riabilitato, ha tutto il diritto di alzare la testa. Lui ha preferito non farlo. Un paradosso che dice molto del suo modo di intendere la politica. Potrà essere criticato per le sue opinioni, come le attua, come fa politica e come la interpreta; non per il senso morale.
Per questo quella frase — “quanto fango” — vale più di mille comizi. Perché detta oggi, dopo tutto questo tempo, non è solo uno sfogo. È la chiusura amara e composta di una vicenda che non sarebbe nemmeno dovuta iniziare.
Quanto fango.
RAFFAELE TREQUATTRINI

Il Consorzio Industriale del Lazio non è un ente di beneficenza. Il suo compito, per statuto, è chiaro: sviluppare le aree industriali regionali, attrarre investimenti, creare condizioni favorevoli per le imprese. Eppure, anche quest’anno, ha deciso di fare qualcosa che con le infrastrutture produttive e i capannoni ha poco a che vedere: regalare uova di cioccolato ai bambini ricoverati nei reparti pediatrici degli ospedali di Frosinone, Latina e Rieti.
Un’iniziativa, “Un sorriso per i bambini”, che torna per la quarta volta. Un gesto simbolico, certo, ma non superficiale. Perché parlare di sviluppo – quello vero – significa anche sapere guardare fuori dai confini di competenza, e ricordarsi di chi in quei territori non produce, non investe, non assume: semplicemente, soffre.
Il merito, va detto, è doppio. Da una parte c’è Lidl Italia, che mette le uova. Dall’altra c’è il Consorzio, che ci mette il senso. Perché uscire dal perimetro delle proprie funzioni per portare un po’ di conforto a chi è più fragile non è una fuga dal mandato, ma una sua evoluzione. Vuol dire avere chiaro che il territorio non è fatto solo di imprese, ma anche di persone. E che la crescita di una comunità non si misura solo in punti di PIL, ma anche nella capacità di non dimenticare chi resta indietro.
L’aspetto umano dell’industria

Il commissario Raffaele Trequattrini lo ha spiegato bene: un’area industriale sostenibile deve essere anche umana. Deve stare nel territorio, non sopra. Deve fare impresa, ma anche costruire relazioni. In questo senso, le uova di Pasqua diventano un piccolo simbolo di una visione più ampia della responsabilità: sociale, sì, ma anche culturale e civica.
Non c’è retorica nel regalare un sorriso. C’è la consapevolezza che le istituzioni pubbliche – anche quelle votate allo sviluppo economico – non vivono in una bolla. E che il valore di un gesto gratuito può lasciare un’impronta più profonda di tanti bandi o piani strategici.
In fondo, non è fuori mandato. È oltre. E in certi casi, andare oltre è esattamente il modo giusto per essere davvero dentro. Dentro le comunità. Dentro la vita vera.
Oltre il mandato, dentro la comunità
FLOP
ENZO PERCIBALLI

Enzo Perciballi non è più il sindaco di Boville Ernica. Ieri sera il Consiglio comunale lo ha sfiduciato con otto voti favorevoli, tra cui quello decisivo di una parte della sua maggioranza. Che gli ha voltato le spalle, segnando la fine di un’amministrazione che, a dispetto dei progetti avviati, ha pagato un prezzo politico altissimo: quello dell’isolamento e della gestione solitaria del potere.
Non è stato un fulmine a ciel sereno. I segnali c’erano già tutti. Lo strappo interno avvenuto nella primavera dello scorso anno, con l’uscita di quattro consiglieri — Fabrizi, Verrelli, Zili e Bocconi — era il primo campanello d’allarme. La mozione di sfiducia, presentata il 24 marzo da Stefania e Angela Venditti con il gruppo “Per Boville”, ha avuto solo bisogno di tempo per maturare. Alla fine, è arrivato il colpo di grazia.
E qui il punto non è tecnico, ma politico. La caduta di un sindaco, in un piccolo comune come Boville, non è solo un atto istituzionale. È il segnale di una leadership che non ha retto alla prova del tempo. Perciballi è caduto non perché incapace, ma perché ha confuso il ruolo del sindaco con quello del comandante in capo.
Chi è il leader

Il leader non è chi ordina, è chi tiene unita la squadra. È chi riesce ad amministrare facendo credere agli altri di averlo fatto loro. È chi sa coinvolgere, ascoltare, mediare. Il cesarismo non paga. Non nei palazzi romani, né tantomeno nei municipi di provincia. Quando si governa da soli, si finisce da soli. Alle idi di marzo si arriva così: convinti di essere indispensabili, si scopre invece di essere rimasti senza scudi.
Le parole di Stefania Venditti, che ha parlato di uno stile amministrativo “autoritario e poco democratico” e di un’amministrazione “ingessata”, sono pesanti, ma fotografano bene il clima politico che ha accompagnato la sfiducia. Anche le astensioni degli assessori e del presidente del Consiglio comunale, su indicazione dello stesso sindaco, sono il segno di un finale già scritto, in cui la difesa si è limitata al minimo sindacale.
Ora tocca al commissario prefettizio traghettare il Comune verso nuove elezioni. Boville Ernica entra in una fase di transizione forzata, ma inevitabile. Saranno i cittadini a decidere chi, e soprattutto con quale metodo, dovrà amministrare nei prossimi anni. Una cosa però dovrebbe essere chiara a chiunque voglia candidarsi: comandare non basta. Serve guidare. E per farlo serve prima di tutto ascoltare.
Per ogni cesare ci sono le Idi di Marzo.
LUIGI DE MAGISTRIS

Come magistrato ha fatto il suo dovere: secondo alcuni in maniera impeccabile, secondo altri sollevando soltanto dei polveroni mediatici che ben poco hanno concluso in termini di condanne. Come sindaco di Napoli si è prestato alla giusta dialettica di valutazioni ambigue. Come articolista de Il Fatto Quotidiano invece Luigi De Magistris, al di là della consolidata corrispondenza di amorosi sensi con Marco Travaglio, pare non sbagliare un colpo. Il che può essere un merito o un demerito: dipende dal giornale che si ama leggere e da quale parte dello stadio si osserva la partita.
Colpa (o merito) del mestiere, e del fatto di essere stato un requirente in Magistratura. Ecco perché la sua analisi sul quotidiano in questione ed in ordine al Decreto sicurezza è parsa appassionata ma non sempre inappuntabile. Non tanto in ogni parte di merito, quanto piuttosto nel focus di analisi.
Il focus impietoso

Un focus impietoso con il quale De Magistris ha messo alla berlina l’ultima sterzata legislativa del Governo Meloni. Così: “L’abuso del potere da parte di questo governo e della sua maggioranza è sempre più evidente. In Parlamento da mesi era in discussione il disegno di legge nr. 1660, cosiddetto Sicurezza, già approvato dalla Camera dei Deputati, molto criticato da ampi settori della politica, dei giuristi, della società”.
Qui l’ex Pm va nel tecnico, con quella dote che lo accomuna al miglior Tonino Di Pietro, di sapersi spiegare comunque. “Da premettere che il disegno di legge (…) attraversato da numerosi profili di incostituzionalità emersi nel dibattito dei mesi scorsi, non ha nulla a che vedere con la sicurezza dei cittadini”.
Perché? Qui la chiave di lettura di De Magistris che quanto meno invita a riflettere, cosa questa sempre buona e giusta. “Il termine sicurezza serve alla propaganda di regime per iniettare l’idea che il governo si prende cura della sicurezza delle persone. Nulla di tutto questo. Il disegno di legge tutela la sicurezza del potere e dell’ordine costituito”. Ed il target, neanche tanto occulto, di Palazzo Chigi secondo versione di parte?
A cosa mirerebbe l’Esecutivo

“Obiettivo del provvedimento delle destre è la criminalizzazione del dissenso e la preservazione dell’impunità degli abusi del potere. È un altro tassello fondamentale del disegno costituzionalmente eversivo di costruire una giustizia di classe, forte con i deboli e debole con i forti. Tutto in tipica salsa autoritaria”.
E a chiosa: “Nessuna ragione giuridica giustifica, inoltre, l’adozione della decretazione d’urgenza. Difatti il disegno di legge, tenuto conto degli ostacoli parlamentari e giuridici, viene trasformato in decreto legge tenuto conto, come in violazione di Costituzione asserisce il governo, di sopravvenute ragioni di necessità e di urgenza”.
Con un finale rossiniano: “Se per ragioni di urgenza e necessità si considera arrestare il dissenso, è questa allora la confessione dell’abuso del potere e dello scivolamento dallo stato di diritto allo stato di polizia”.
Contestabile ma maieutico.