Top e Flop, i protagonisti di sabato 24 maggio maggio 2025

I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di sabato 24 maggio 2025

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I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di sabato 24 maggio 2025

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TOP

FABIO CAGNAZZO

Fabio Cagnazzo ai tempi del Comando Provinciale di Frosinone

Non ha mai parlato. Mai una dichiarazione, mai un commento, nemmeno un sussurro fuori posto. Ha scelto il silenzio, quello duro, militaresco, scolpito nel motto “Usi ad obbedir tacendo e tacendo morir”. E adesso, otto mesi dopo, il colonnello dei Carabinieri Fabio Cagnazzo esce dal carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. Da uomo libero.

Uno di quei silenzi che pesa più di mille conferenze stampa. Che fa rumore, perché mentre fuori volavano accuse da prima pagina – di quelle che bruciano la reputazione prima ancora del processo – lui restava lì. Muto. Con il volto dritto verso chi l’aveva messo dentro, e la fiducia incrollabile nei suoi avvocati, Ilaria Criscuolo e Giuliano Dominici. Ha lasciato che fossero loro a parlare, ma solo nei tribunali. Lì dove le parole non si consumano, ma contano.

Un’accusa che traballa
Angelo Vassallo

Cagnazzo non era solo in questa discesa agli inferi. Insieme a lui, anche l’imprenditore Giuseppe Cipriano e l’ex carabiniere Lazzaro Cioffi. Tutti finiti nel tritacarne giudiziario per l’omicidio di Angelo Vassallo, il “sindaco pescatore” di Pollica, ucciso con nove colpi di pistola in una sera del settembre 2010. Un cold case riesumato da voci logore e pentiti dalle versioni ballerine. Uno su tutti ha parlato a corrente alternata: utile quando accusa, improvvisamente inattendibile quando cerca di alleggerire il proprio carico.

Secondo la Procura, Cagnazzo e gli altri non avrebbero premuto il grilletto, ma avrebbero avuto un ruolo nella messa in scena: sopralluoghi, coperture, depistaggi. Ma qualcosa non ha tenuto. Prima la Cassazione, poi il Riesame, hanno fatto a pezzi quell’impianto accusatorio. Troppe crepe, troppe ipotesi, troppa fiducia in testimonianze che ora sembrano sabbia tra le dita.

Il Riesame ha annullato l’ordinanza cautelare. E sia ben chiaro: non perché ha assolto – il caso è ancora in piedi – ma perché ha detto che lì dentro, in quelle 200 pagine d’accusa, mancavano i “gravi indizi di colpevolezza”. Tradotto: non doveva starci, in galera. E forse, non ci doveva stare nemmeno all’inizio.

Il punto più delicato
Il ritorno dell’uomo in grigioverde
Fabio Cagnazzo nell’ufficio di Frosinone

Ora Cagnazzo è fuori. Non ha rivendicato nulla, non ha attaccato nessuno. Non serve. Il colonnello ha già parlato. Ma lo ha fatto a modo suo: tacendo. E adesso, nel silenzio che rimane, c’è una domanda che si fa largo come una sirena nella notte: chi ha davvero ucciso Angelo Vassallo? E soprattutto: chi ci ha portati così lontano dalla verità?

Il sillenzio che fa rumore.

AURELIO DEL LAURENTIIS

Aurelio De Laurentiis (Foto: Andrea Panegrossi © Imagoeconomica)

Il quarto scudetto del Napoli è arrivato ieri sera, sul filo dell’ultima giornata, con quella classe operaia del pallone che lavora a testa bassa e poi alza la coppa quando gli altri non ci credono più. Non è più tempo di miracoli: stavolta c’è dietro un piano. E quel piano ha un nome e un cognome. No, non è Maradona. Stavolta si chiama Aurelio De Laurentiis.

Certo, lo sappiamo tutti: i primi due scudetti avevano il volto e i piedi di Diego, il Re Sole del San Paolo. Corrado Ferlaino stava dietro, in penombra, quasi timoroso di disturbare il mito. E il terzo, quello del 2023, è stato la rivincita poetica dopo 33 anni di astinenza: una cavalcata da sogno con Kvaratskhelia e Osimhen nei panni dei nuovi idoli laici.

Ma questo quarto scudetto è un’altra cosa. È un segnale. È l’attestato che il Napoli non vive più solo di estro e colpi di genio, ma di organizzazione, scelte lucide, programmazione. In una parola: serietà.

Il metodo De Laurentiis
Piazza Plebiscito in festa

Aurelio, il presidente che veniva dal cinema e che tutti trattavano da corpo estraneo, ha capito più del previsto. È rimasto saldo quando tutti chiedevano la testa dell’allenatore, è ripartito dopo il flop della stagione scorsa senza isterismi, puntando su chi sa vincere, come Antonio Conte. Ha scelto uno specialista: uno che non ha bisogno di illusioni, ma di campo, fatica e obiettivi chiari.

La sua forza? Avere trasformato la passione in impresa. Aver tenuto i conti in ordine mentre attorno esplodeva la bolla dei debiti. Aver costruito una squadra forte senza svendersi ai capricci del mercato o alle nostalgie del passato. E soprattutto: non aver ceduto alla tentazione di farsi trainare solo dall’emozione.

Il Napoli del quarto scudetto non è una cartolina. È un progetto.

Oltre la retorica
Maradona ai tempi del Napoli

È facile – troppo facile – usare questo scudetto come metafora di riscatto per l’intera città. Ma è un abuso, anche un rischio. Napoli ha bisogno di molto di più di una vittoria sportiva per guarire. Le affiliazioni ai clan iniziano in età da scuola primaria. I quartieri difficili non si sistemano con le bandiere tricolore appese ai balconi. Il lavoro, l’istruzione, la legalità: è lì che si gioca la vera partita.

Lo scudetto non risolve. Però insegna. Insegna che se vuoi vincere, devi darti delle regole. Che la continuità è meglio dell’estro. Che non serve il Messia ogni volta, ma un gruppo che sa stare insieme e una guida che sa dove andare. E De Laurentiis lo ha capito: non ha puntato sui talenti ma sulla normalità. Che detta così sembra poco. Ma nel calcio, e a Napoli in particolare, è una rivoluzione. Costruire, correggere, restare. Non sbracare dopo una sconfitta. Non esaltarsi oltre il dovuto dopo una vittoria. Una rivoluzione silenziosa, ma che fa più strada del corteo in motorino.

E se questa volta lo scudetto non è di un dio, ma di un presidente, di una squadra fatta bene e di un allenatore con le idee chiare, allora sì: forse davvero Napoli può cambiare passo. Con la testa prima che con il cuore. Con la sostanza prima che con la poesia. Perché il quarto scudetto, finalmente, non è un miracolo. È un merito.

L’uomo che costruisce sogni: di celluloide e di calcio.

FLOP

JOHN ELKANN

John Elkann davanti alla foto del nonno Gianni Agnelli Foto © Imagoeconomica / Stefano Carofei

L’Italia dell’automotive, quella che un tempo poteva parlare alla pari con la Germania, oggi è un guscio svuotato. Una filiera disossata. Un’identità produttiva ridotta a simboli, mentre la sostanza è evaporata. A dirlo, con l’amarezza di chi sa cosa rappresentava la Fiat per il Paese, è stato ieri Luca Cordero di Montezemolo. Il suo giudizio è netto: «Se togliamo Ferrari, l’industria dell’auto italiana non esiste più». Il punto è che ha ragione. E i responsabili hanno nome e cognome.

Il declino dell’auto italiana ha una data di partenza simbolica: il momento in cui John Elkann ha preso il timone della storica eredità Agnelli. Il nipote dell’Avvocato ha puntato tutto su una visione finanziaria e cosmopolita, sacrificando l’anima industriale e nazionale del gruppo. Le scelte compiute – dalle fusioni ai modelli – hanno via via allontanato il baricentro decisionale da Torino e dall’Italia, fino a svuotare gli stabilimenti. Fino a Cassino, ex capitale dell’automotive tricolore, oggi ridotta a ruota di scorta, con appena un modello da produrre, il residuale Stelvio.

Le parole che bruciano
Luca Cordero di Montezemolo (Foto: Giuliano Del Gatto © Imagoeconomica)

Montezemolo ha dato voce a un disagio profondo e trasversale. Non si tratta solo di nostalgia, ma di numeri. Oggi in Italia si producono poche auto, e in larga parte non si tratta neanche di modelli strategici o innovativi. La Panda e la 500 restano simboli affettivi, ma non sono vetture su cui si costruisce il futuro. La nuova Grande Panda? Viene prodotta in Serbia. O in Marocco. Ovunque, ma non qui. E non si tratta solo di costi di produzione più bassi: si è scelto deliberatamente di non lottare. Di non investire. Di non rischiare.

Elkann e il gruppo Stellantis hanno guardato, come dice Montezemolo, “alla finestra”, mentre l’intera architettura industriale crollava pezzo dopo pezzo.

A questo disastro tutto italiano si somma la miopia europea. L’industria dell’auto è sotto attacco da normative che paiono più ideologiche che lungimiranti. Il passaggio all’elettrico, sacrosanto in prospettiva ambientale, è stato gestito senza una reale strategia industriale. Chi aveva filiere deboli o non ha saputo riconvertirsi in tempo – come l’Italia – è rimasto schiacciato. Servirebbe un patto continentale tra costruttori per riscrivere le regole. Ma l’Italia oggi pesa poco. Non ha più un grande costruttore da mettere al tavolo. E quando non si è parte del gioco, si subiscono le decisioni.

Un’occasione sprecata
John Elkann (Foto: Alessandro Amoruso © Imagoeconomica)

John Elkann aveva in mano un’occasione storica: rilanciare il comparto industriale italiano a partire da un marchio che ha fatto la storia del Paese. Ha scelto un’altra strada. Ha fuso, accorpato, globalizzato. Ha scelto i dividendi e non la produzione. Ha fatto finanza, non industria. E oggi il risultato è sotto gli occhi di tutti: un’Italia senza un’industria automobilistica degna di questo nome.

È il momento di dirlo con chiarezza: il fallimento dell’automotive italiano è anche – soprattutto – il fallimento delle scelte di John Elkann. E l’Italia, che senza auto perde una parte di sé, non può permettersi altri dieci anni di questa miopia. Serve una strategia, servono investimenti, serve un piano nazionale. Oppure non ci sarà più niente da salvare.

Con le gomme a terra.

MATTEO SALVINI

Matteo Salvini (Foto: Andrea Di Biagio © Imagoeconomica)

Ci ha provato o ci ha fatto provare qualcuno dei suoi ma alla fine è incappato nella “tana” di massimo rango che possa verificarsi in Italia. Questo perché se alla fine ti chiami Matteo Salvini, sei ministro delle Infrastrutture ed a “sgamarti” alla fine è il Quirinale c’è poco da fare.

Quella che hai appena fatto, come scriveva Stephen King, è una figura di “roba calda e marrò” tonda e finita. Ma cosa è successo in buona sostanza? Che gli uffici della presidenza della Repubblica hanno rilevato una grossa incongruenza in un articolo del Decreto Infrastrutture nella parte che attiene il Ponte Sullo Stretto.

E che alla fine, come spiega Il SOle 24 Ore, “hanno ottenuto la cancellazione dell’articolo che assegnava la competenza dei controlli antimafia per il ponte sullo Stretto a una struttura centralizzata presso il Viminale”.

Cosa ha rilevato il Colle

Ma perché il Quirinale ha ritenuto tempestivo e doveroso modificare l’impiant del legiferato diretto? Perché “la legislazione in vigore contempla norme antimafia rigorose per le opere come il ponte di Messina”.

E attenzione, il sito del Quirinale riporta integralmente a nota de cuius. Questa: “In riferimento ad alcune inesattezze comparse sulla stampa odierna in relazione al decreto Infrastrutture, l’Ufficio stampa del Quirinale precisa quanto segue. La norma sui controlli antimafia non era contenuta nel testo preventivamente inviato al Quirinale, ma è apparsa poche ore prima della riunione del Consiglio dei ministri.

Poi la spiegazione, che è un po’ come a dire, “già c’era tutto previsto, perciò nessun upgrade di bottega caro ministro”.

Le leggi antimafia già ci sono

Che tradotto in linguaggio official si legge così: “La legislazione in vigore contempla norme antimafia rigorose per le opere come il ponte di Messina. La norma proposta prevedeva invece una procedura speciale – adottata finora soltanto in casi di emergenza, come i terremoti, o di eventi speciali, come le Olimpiadi – che non risulta affatto più severa delle norme ordinarie.

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

E a chiosa: “Basti ricordare che la procedura speciale, che veniva proposta, autorizza anche a derogare ad alcune norme previste dal Codice antimafia, deroghe non consentite dalle regole ordinarie per le opere strategiche di interesse nazionale.

E Salvini? Non ha accusato (ancora) colpo perché sarebbe un’ammissione di “coinvolgimento”, ma di certo ha comprato i cerotti.

Sergio ti guarda…