Top e Flop, i protagonisti di venerdì 4 luglio 2025

I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di venerdì 4 luglio 2025

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I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di venerdì 4 luglio 2025.

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TOP

NICOLA CALANDRINI

Sono le risposte a dare l’esempio. Soprattutto quelle che arrivano quando il termometro sfida le soglie dell’asfalto fuso. Non si arretra davanti al crimine ma si rilancia: è questa la risposta arrivata ieri sera ad Aprilia.

Nell’Hotel Enea c’è stato un incontro che è stato più una chiamata alle armi civili che una semplice riunione politica. Con il senatore Nicola Calandrini, la sottosegretaria Wanda Ferro, l’assessora regionale Elena Palazzo, il consigliere regionale Vittorio Sambucci ed il coordinatore comunale di Fratelli d’Italia Edoardo Baldo – moderati da Carola Latini. Tutti lì per dare un segnale chiaro: Aprilia non sarà terra di nessuno.

La miccia, stavolta, non è solo metaforica. Un ordigno, piazzato in pieno centro cittadino, ha rotto l’illusione di una provincia immune dalla barbarie. Calandrini non ha usato mezzi termini: “Una gravità inaudita. Qui poteva scapparci una strage. E non siamo più nemmeno nella Palermo degli anni ’80”.

Parole chiare
L’intervento di Nicola Calandrini

Nessuno spazio per i toni sfumati. Di fronte ad un segnale di sfida allo Stato tocca alla politica prendere la parola: senza ambiguità. E il messaggio è arrivato forte: «No a zone grigie. No alla paura». Perché oggi Aprilia è commissariata – a seguito di vicende giudiziarie che Fratelli d’Italia ha tenuto lontane dalla propria sfera – ma non è priva di futuro. E quel futuro, a sentire gli interventi, passa da una presenza dello Stato tangibile. Il nuovo Commissariato di Polizia sarà inaugurato il 7 luglio: 45 agenti in più, un presidio concreto, simbolo di una legalità che non vuole restare sulla carta.

C’è stato spazio anche per la memoria istituzionale. Calandrini ha ricordato il primo Consiglio dei Ministri del governo Meloni, “di domenica”, quasi a voler sottolineare una dedizione che non guarda al calendario. E soprattutto quel secondo Consiglio dei Ministri, il 31 ottobre, che ha partorito il decreto sul carcere ostativo e lo stop ai rave abusivi. “Era questa – ha detto – l’immagine dell’Italia che volevamo cambiare.

Decreto sicurezza

Ma il cuore dell’incontro batteva anche per altro: per il Decreto Sicurezza, per la tutela legale degli uomini e delle donne in divisa, per il contrasto alle occupazioni abusive. Non solo buone intenzioni, ma norme già varate, che parlano di un’Italia dove non è normale che una pensionata torni a casa dal mercato e la trovi occupata da ignoti. “Le Forze dell’Ordine – ha detto Calandrini – possono intervenire entro 48 ore e restituire l’abitazione. È finita l’epoca in cui i delinquenti avevano più diritti delle vittime”.

Wanda Ferro ha fatto da contrappunto: “Non siamo giustizialisti. Siamo per il rispetto delle regole. La criminalità organizzata oggi è liquida, si mimetizza, si muove nel web. Per questo serve uno Stato che corra più veloce. Essere oggi qui ad Aprilia significa ribadire che lo Stato c’è, che la legalità non è un’opzione e che le Forze dell’Ordine non sono mai sole”.

È stato un segnale di presenza. Un presidio politico. E in tempi in cui la politica si rifugia nei talk-show e negli slogan, Aprilia ha ospitato uno spaccato raro: lo Stato che si fa carne, presenza, azione. E che non arretra davanti alla minaccia, ma la sfida.

Lo Stato che risponde.

FEDERICO GIANASSI

Federico Gianassi

Nella sua sindrome autolesionista ieri sera il Partito Democratico è riuscito a non ferirsi più di tanto. Era pronto per un nuovo suicidio politico dopo quello andato in scena il 23 dicembre scorso: distribuzione delle Tessere fatta in maniera irregolare (lo dice la Commissione di Garanzia Regionale), dimissioni in massa, blocco fino ad oggi del Congresso Provinciale con cui rinnovare tutto il gruppo dirigente.

Stavolta i lividi sono pochi. Ha retto l’argine chiamato Federico Gianassi. Deputato toscano, commissario del Pd provinciale di Frosinone, uomo di Partito prima ancora che di corrente. Perché, a ben vedere, nel caos della Federazione ciociara, non è tanto un conflitto tra correnti quanto l’assenza della capacità di tenerle insieme. Di farle convivere senza azzannarsi. Di dettare regole comuni che non sembrino diktat. Insomma: di fare Politica, con la P maiuscola. E Gianassi, proprio questo, sta facendo.

L’incontro da Memmina

Il contesto è noto: dopo mesi di veleni, ricorsi e ripicche, si prova a rimettere in moto il Congresso provinciale del Partito Democratico. A farlo con un nuovo tesseramento, certificato, condiviso. Era tutto apparecchiato, finché da Memmina, ristorante simbolo delle grandi manovre dem, non è arrivato l’ennesimo stop: Francesco De Angelis, leader di AreaDem, ha detto no. No a un metodo che, a suo giudizio, snatura il senso della militanza. No a una logica di sportello che, nella provincia d’agosto, assomiglia più a un ostacolo che a una chance. E allora? Tutto da rifare? Non proprio. (Leggi qui: Frosinone, il Pd bloccato all’antipasto: Gianassi ferma tutto e aggiorna).

Gianassi ha fermato i motori, non li ha spenti. Ha bloccato tutto ma non ha chiuso la porta. Ha sospeso la riunione, non ha rotto con nessuno. Perché non è lì per far vincere una parte. È lì per far vincere un metodo, una cultura politica. Quella che parte dalla mediazione, non dal muscolo. Quella che cerca la composizione, non l’esibizione del conflitto. E per farlo, serve autorevolezza. Ma soprattutto, serve un’idea chiara di Partito.

Basi solide
Federico Gianassi

Quella che Gianassi ha portato con sé da Firenze — e che ha condiviso con Leodori e Mancini, cioè con la nuova regia regionale del Pd — dice che le regole vengono prima dei voti. Che non si può costruire un gruppo dirigente sulla sabbia di un tesseramento incerto. Che non serve solo il consenso, serve anche il consenso legittimato.

Il fatto che, dopo la bagarre, Sara Battisti (Rete Democratica) e Francesco De Angelis (AreaDem) si siano appartati ed abbiano avuto un chiarimento, che successivamente Gianassi abbia deciso di aggiornare tutto solo di 24 ore, dimostra che lo spazio per una sintesi c’è. Che il fronte non è saltato. E che anche i toni, da tesi, si sono fatti trattabili.

Merito, anche, di chi ha capito che Frosinone non è un fortino a parte, ma un pezzo di un mosaico più grande. Dove la tenuta del Pd laziale passa anche da qui. E che la Politica, quando non abdica alla sua funzione di guida, può ancora fare la differenza.

Il ritorno della Politica (con la P maiuscola)

ARTURO CAVALIERE

Arturo Cavaliere (Foto: Saverio De Giglio © Imagoeconomica)

Niente timidezze, niente mezze misure. L’azzeramento di un Atto Aziendale non è una scelta amministrativa. È un atto politico. Coraggioso, netto. È il messaggio che il direttore generale della Asl di Frosinone Arturo Cavaliere ha voluto lanciare ieri sera con la revoca della proposta di Atto Aziendale approvata oltre un anno fa.

Non si tratta di un banale passo indietro, né di una marcia forzata in retro. È l’inizio di una ripartenza. Perché in sanità, come in politica, c’è un tempo per gestire l’esistente e un tempo per ricostruire. Cavaliere ha scelto il secondo. Lo ha fatto dopo aver sospeso cautelativamente, già dal primo luglio, la delibera 482 del 16 giugno scorso. Un atto dovuto, sì, ma anche un segnale chiaro: il tempo dei compromessi ereditati è finito.

L’Atto da ridisegnare

L’Atto Aziendale, per chi non mastica di tecnicismi, è molto più che un documento burocratico. È la mappa strategica con cui un’Azienda Sanitaria disegna il suo futuro. Serve a stabilire priorità, risorse, modelli organizzativi, investimenti. E soprattutto a decidere chi fa cosa e dove. In poche parole: come si cura la gente in un territorio.

Il fatto che Cavaliere abbia deciso di rimettere tutto in discussione significa una cosa sola: vuole una sanità che parli con la voce del territorio. E non con l’eco di documenti partoriti in epoche diverse, per contesti ormai superati.

Il precedente Atto, infatti, aveva ricevuto l’ok della Conferenza dei Sindaci nel luglio 2024 e subito dopo era stato ritoccato ad agosto. Tutto prima dell’arrivo di Cavaliere al timone della Asl, che è avvenuto solo a marzo scorso. Tradotto: non era roba sua. E oggi ha deciso di non ereditarla per forza.

Nella delibera si legge che “le previsioni saranno attuate nel rispetto dei vincoli regionali in tema di personale, spesa e reclutamento”. Ma prima ancora di tutto questo, Cavaliere ha voluto concludere le sue interlocuzioni con la Regione. Lo ha fatto in silenzio, senza proclami, ma ora è evidente: vuole metterci la faccia. Vuole un Atto che porti la sua firma e, soprattutto, la sua impronta.

Il messaggio ai sindaci ed agli operatori
Arturo Cavaliere

Ed è un messaggio anche politico, rivolto ai sindaci, ai medici, agli operatori sanitari e ai cittadini: non ci sarà una sanità calata dall’alto. Si riscrive tutto, dal principio. Con un’impostazione nuova, che tenga conto della realtà di un territorio difficile, composito, spesso lasciato ai margini nei disegni sanitari delle grandi Regioni.

Cavaliere ha fatto un gesto radicale: si è fermato, ha azzerato, e ha detto “ripartiamo insieme”. E in tempi in cui il cambiamento è spesso una parola vuota da conferenza stampa, questo gesto ha il pregio raro della coerenza.

Il coraggio di ripartire da zero.

FLOP

ALESSANDRO GIULI

Alessandro Giuli (Foto: Sara Minelli © Imagoeconomica)

Non è la logorrea a volte ridondantissima e non è quel lessico surreale, quasi futurista, che lo ha reso famoso (o famigerato?) negli ambienti del Ministero della Cultura e del giornalismo salace. No, quello che continua a non convincere di Alessandro Giuli è quella sua aura falsamente “scapigliata” a cui invece pare faccia da fondo una linea abbastanza truce.

Una condotta che sembra assimilare il ministro della Cultura più alla figura di un servizievole scherano che di un autonomo gestore del dicatsero che dovrebbe caratterizzare l’Italia più di tutti gli altri. L’ultimo braccio di ferro tra Giuli ed il Premio Strega è piaciuto poco infatti. Premessa: non sono sempre ambiti e personaggi di destra che ingaggiano per primi battaglia con gli omologhi prog.

Tra Giuli e la Fondazione Bellonci, che da sempre cura il Premio Strega, le scintille vanno avanti da settimane. E dopo le schermaglie e le frecciate, si è arrivati al colpo di scena. A ridosso della proclamazione del vincitore, il Ministero della Cultura ha annunciato lo spostamento della cerimonia: non più nella storica Villa di Papa Giulio III, ma a Cinecittà, sulla Tuscolana.

La misura che sta mancando
Gepi Cucciari al Premio Strega

La motivazione ufficiale – promuovere le periferie in linea con il piano Olivetti – suona nobile ma, in questo contesto, assume toni ambigui, quasi punitivi. Sembra più una ritorsione mascherata da impegno sociale. E la scelta di Cinecittà lascia perplessi, proprio mentre anche l’industria del cinema è scossa da tensioni e polemiche. Per comprendere davvero come si è arrivati a questo punto, serve però tornare indietro di qualche passo.

Gli organizzatori del Premio Strega – sì, quelli che hanno ospitato Geppi Cucciari e la sua celebre domanda sul numero di libri letti da Sangiuliano – hanno scelto una strategia più sottile ma non meno tagliente: invitare il ministro della Cultura Alessandro Giuli, pur facendo capire in maniera indiretta che la sua presenza non sarebbe stata esattamente benvenuta.

Di fronte a questo sottinteso, Giuli ha commesso l’unico errore che un ministro non dovrebbe mai fare: invece di ricordarsi il proprio ruolo istituzionale, ha deciso di accettare il messaggio e defilarsi. Ufficialmente, parteciperà a Berlino a incontri bilaterali e all’apertura della mostra sui Bronzi di San Casciano.

Botta e risposta
Il ministro Alessandro Giuli

Ma il significato politico della sua assenza non sfugge a nessuno: è una risposta, piuttosto chiara, al trattamento riservatogli. Peccato che nessuno sembri voler sottolineare un aspetto fondamentale: un ministro non rappresenta soltanto una parte politica, ma è una figura dello Stato. E lo è sempre, anche davanti allo sgarbo più evidente.

Giuli ha dichiarato: “Sono stato invitato con molta cortesia alla serata del Premio Strega, ma non ho ricevuto alcun contatto diretto, né tantomeno i libri. E ancora: “È singolare dover partecipare a un evento incentrato su cinque romanzi senza averne ricevuto nemmeno uno”. La replica del direttore della Fondazione Bellonci, Stefano Petrocchi, è arrivata con puntualità e tono fermo: “Spediamo i libri solo ai membri della giuria dello Strega. Il ministro non fa più parte degli ‘Amici della domenica’ perché si è dimesso”.

Nel frattempo, l’assenza del ministro aleggia sull’intera serata. Petrocchi, con tono diplomatico, prova a ricucire: “Oggi stesso abbiamo inviato i libri a Berlino, il ministro ci ha ringraziato”.

La (quasi) defezione dallo Strega

Così, in una calda serata di inizio luglio nei giardini di Villa Giulia, mentre il Ninfeo osserva silenzioso, si consuma un’altra frattura tra il ministero e una parte del mondo culturale italiano.

Al punto che la vincitrice dell’anno scorso, Donatella Di Pietrantonio, taglia corto: “Quella del ministro è una polemica inutile. Se avesse chiesto i libri, li avrebbe ricevuti”.

Insomma, un po’ ha fatto tutto lui ed un po’ ha paura di fare la fine del suo predecessore previo trappolone ad hoc, pare di capire. E siccome il Premio Strega non è una gara di rutti forse Giuli avrebbe dovuto accettare comunque l’invito. Senza ripicche preconcette.

La fifa snob.