Internazionale, i protagonisti della X settimana MMXXII

I protagonisti della X settimana del 2022 sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

I protagonisti della X settimana del 2022 sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo.

BRENT RENAUD

Brent Renaud

Alla fine muoiono anche loro, i giornalisti, quelli che la guerra la devono raccontare perché qualcuno deve pur farlo. E Brent Renaud è morto così, fatto secco ad un checkpoint ad Irpin, mentre girava un reportage su quelli che della guerra sono le vittime di seconda scelta dopo i morti, i profughi. E la figura di Renaud spicca per due ragioni: una più squisitamente eroica, perché quando parti ramengo per narrare l’orrore sapendo che puoi diventare parte della narrazione c’è poco da fare, quella mistica ti arriva addosso senza che tu la voglia.

Poi c’è il secondo motivo: ed è quello per cui in una guerra fatta di disinformatja e combattuta anche a colpi di propaganda pelosa fortemente incentivata dalla più parte dei media, l’atto crudo della morte riporta le misure della faccenda al loro orrore primigenio. Ed è un cuore nero per cui una guerra non è una faccenda esantematica da cui scappare è impossibile, ma una sottile, grulla e testarda escalation di piccoli episodi che alla guerra ti ci conducono per gradi.

Brent è stato preso al collo da un colpo sparato da un soldato che al 70% non sapeva neanche più perché si trovasse lì a cecchinare cugini di ceppo rus, ma sapeva in ogni vena che quando hai messo in moto l’adrenalina la visione d’insieme scappa via e la guerra torna ad essere, in barba ai bottoni, un cimento di clava e macello.

Foto: Aleksey Ohrimenko

Brent Renaud invece sapeva benissimo che stare esattamente dove poteva morire equivaleva a dare un senso ad un mestiere (non professione, mestiere, lavoro) che proprio nei momenti più duri torna alla sua natura originaria: quella di sposare la verità senza cornificarla con la verisimiglianza. Un proietto non sarà mai una cosa verosimile, è vero, solido, tridimensionale e buca organi.

E ci consegna eroi laici di cui avremmo voluto fare a meno, e a quali dobbiamo il rispetto assoluto che si deve ai narratori di orrori. Orrori come questa Ucraina persa fra Occidente e Mosca, divisa fra sogni ed origini, mangiata da odio ed orgoglio. Ed innesco di paure che forse avremmo dovuto disinnescare prima.

La bandiera dell’informazione

ERIN HUTCHINSON

Presente lo Yemen? Se l’Arabia Saudita fosse l’Italia in posizione geografica lo Yemen sarebbe la Calabria che, attraverso la stretta di Djibouti e il Golfo di Aden, praticamente è in affaccio alle coste della Somalia e sulle rotte dei petroldollari. Ecco, adesso che abbiamo fissato il quadrante geografico mettiamo una spunta a quello politico. Lo Yemen è una nazione musulmana che ha espulso gli osservatori Onu che nel farsi espellere non hanno protestato più di tanto.

Una nazione che da quando li ha cacciati via o aiutati ad auto-cacciarsi ha raddoppiato le uccisioni, gli arresti e le vittime di una guerra civile fra legittimisti al governo e “ribelli” Houti.

Le due fazioni sono entrambe musulmane, solo che quella governativa si struscia addosso all’Arabia petrolfiga che vuole porti tranquilli dove passano le petroliere. E quella ribelle si fa appoggiare dall’Iran sciita e dalle frange iper ortodosse waabite.

Poco cale chi abbia ragione in questo contesto, basti solo sapere che gli sciiti sono per la teocrazia, i sunniti per le repubbliche islamiche separate dai vescovi coranici e gli waabiti sono per mettere la guerra santa anche nella schiuma da barba. Quello che conta è che lo Yemen da 18 mesi è diventato una macelleria a cielo aperto molto più di quanto non lo fosse già con gli ispettori Onu in casa.

Ed Erin Hutchinson, la presidente del Norwegian Refugee Council, ha alzato la voce e preteso che qualcuno faccia qualcosa, qualcosa ora, non a giugno o novembre, adesso. E come tutti quelli che sanno ciò di cui parlano ha dato i numeri: “A cavallo della partenza dei rappresentanti Onu 823 civili sono stati uccisi o feriti nei quattro mesi prima della fine del monitoraggio e 1.535 nei quattro mesi dopo la loro partenza”. Significa che con le Nazioni Unite via dalle scatole le vittime sono quasi raddoppiate.

E le vittime civili causate dai raid aerei prediletti dalla coalizione a guida saudita che combatte gli Houthi? Aumentate di 40 unità in un mese e mezzo. Hutchinson ha chiosato come una furia: “La rimozione di questo importante organismo investigativo sui diritti umani ci ha riportato a violazioni incontrollate e orribili. Chi è responsabile della morte di questi bambini e famiglie? Probabilmente non lo sapremo mai perché non esiste più alcun monitoraggio indipendente, internazionale e imparziale delle morti tra i civili in Yemen”.

E mai come ora la distanza fra una risoluzione latrata ed una soluzione applicata è stata così abissale.

Erin come le Erinni.

BO VIKTOR NYLUND

Bo Viktor Nylund (Foto: Unicef)

La città di Hassakeh, nella Siria nord-orientale, è quanto di più vicino ad un lager si possa immaginare. Nel mondo di robe così, città-prigione, ce ne sono fin troppe, posti che diventano tabernacolo nero della folle determinazione dell’uomo a sfregiare il suo raziocinio. Non sono posti che abitano solo dove la civiltà è in arretrato, basti pensare a Guantanamo, però nei posti dove il mondo ha le lancette degli orologi indietro quelle prigioni sono più carceri delle altre.

Ad Hassakeh per esempio ci mettono i bambini. Già, centinaia di bambini detenuti in una prigione in Siria perché sono stato sodali con la fazione sbagliata durante le battaglie tra combattenti curdi sostenuti dagli Stati Uniti e l’ISIL (ISIS). Quei ragazzini, secondo un report Onu, vivono in condizioni “incredibilmente precarie“. Ma il dato è un altro e più netto: quei ragazzini, in quanto ragazzini e sia pur irregimentati, non dovrebbero essere lì.

E l’Unicef ha aggiunto di essere pronta a finanziare un nuovo luogo sicuro nel nord-est della Siria, una casa famiglia gigante per prendersi cura dei bambini più vulnerabili, alcuni dei quali hanno appena 12 anni. Molti di loro “hanno assistito e sono sopravvissuti a un’intensa violenza, sono spersi in mezzo a 3.000 detenuti militari adulti che possono fare di loro ciò che vogliono”.

I bambini di Hassakeh sono oltre 600. Ed a parlare per loro conto ed in loro nome ci ha pensato Bo Viktor Nylund, il rappresentante Unicef per la Siria: “Nonostante alcune iniziative blande già messe in atto la situazione di questi bambini è incredibilmente precaria“. Poi ha calato l’asso etico che piglia tutto il mazzo e che ricorda al mondo quale sia la sola rotta da tenere con i bambini: “I bambini non dovrebbero mai essere detenuti a causa dell’associazione con gruppi armati, essi dovrebbero sempre essere trattati come vittime di conflitti, non come loro protagonisti”.

Già, i bambini sono sempre e solo delle vittime, ma ad Hassakeh ed in tanti altri posti non lo sanno.

Via le mostrine.

DOWN

PENG SHUAI

Peng Shuai (Foto: © Claude Truong-Ngoc / Wikimedia Commons)

Chiariamoci: il casino grosso che ha piantato resta tutto in piedi per la parte che attiene la presunzione di reato, ma per ora resta presunzione e pure gestita male. Anzi, malissimo, perché la star cinese del tennis Penh Shuai proprio non ci riesce, a togliere di mezzo l’impressione che su quello che le è accaduto lei abbia anche voluto bisbocciare in mainstream.

Spieghiamola meglio ché il terreno è infido: a fine 2021 Shuai accusa l’ex vicepremier cinese Zhang Gaoli, non esattamente il presidente della Pro Loco, di averla violentata. Il fatto sarebbe avvenuto al culmine di una relazione che Peng intratteneva con lui coram populo malgrado il tizio fosse sposato.

E in una circostanza specifica quello che di solito Peng concedeva Gaoli lo avrebbe estorto con la violenza. Il principio etico e giuridico è sacrosanto perché rimanda ad una realtà evidente: è violenza sessuale e sempre sarà tale anche se matura all’interno di una coppia che ha già fatto ancoraggio della propria intimità reciproca.
Poi però Peng, dopo aver denunciato l’accaduto con un post, scompare e la Women’s Tennis Association rilancia sui social la mistica della donna inghiottita dal regime potente di cui ha minacciato l’integrità. Ad un certo punto la tennista ricompare e pare che qualcuno l’abbia lobotomizzata: non si rimangia le accuse ma le mette talmente sottotraccia da farle diventare sfondo invece che polpa della vicenda. E in questi giorni di volubilità marzolina la star con la racchetta è tornata a precisare che no, lei qualche mese fa non era affatto scomparsa.

Io? Non sono mai scomparsa. È solo che molte persone, come i miei amici o persone del CIO, mi hanno inviato messaggi ed era semplicemente impossibile rispondere a così tanti messaggi”. E ancora: “Io sono sempre stata in stretto contatto con i miei amici più cari. Ho parlato con loro, ho risposto alle loro email, ho parlato anche con la WTA”.

Delle due l’una: o hanno fatto tutto gli “amici” di Peng inventandosi la campionessa desaparecida o Peng, nel farsi desaparecida per motivi presuntivamente genuini, ha intuito che la sua storia e la sua immagine avrebbero preso il largo verso i mari della grandi faccende sugose. Ma in tutto questo, oltre la denuncia social, non si è vista traccia della sola denuncia che Peng avrebbe dovuto fare: quella in rubrica di atti preliminari di un tribunale. Perché a noi Gaoli non la conta giusta, ma in punto di Diritto serve molto di più di un tipo losco per fare un reato.

Un mazzo di rose e passa la paura.

LA FRANCIA

Eugène Delacroix – La Liberté guidant le peuple – 1830, olio su tela, Museo del Louvre

I primi tre mesi pieni del 2022 fanno segnare una tappa che alla Francia ormai in mood elezioni presidenziali piace molto poco: la perdita progressiva ed ineluttabile dello Shael. La regione africana a sud del Sahara che è da sempre spot strategico e privilegiato di Parigi ha di fatto estromesso gli interessi transalpini con una gradualità lenta ma agghiacciante.

In Guinea Bissau il tentato assassinio del presidente Embalò, poi nel vicino Mali l’espulsione dell’ambasciatore francese Joel Meyer, infine le puntate in Repubblica Centrafricana del gruppo Wagner hanno messo la Francia alla mercè di una storia che Parigi non era abituata a vivere: la storia di chi sta alla finestra a guardare invece che in cortile a “giocare”.

Giocare e dettare punti, soprattutto, a tener conto che stiamo parando di Paesi in cui avere interessi post coloniali significa avere gioco e mano su strategie militari ed economiche monstre. Perché è proprio nello Shael che l’Occidente marca la Cina che dell’Africa sta facendo una provincia mandarina. Sotto accusa ci è finito soprattutto il gruppo Wagner, l’organizzazione paramilitare russa che appoggia via via le fazioni golpiste che vanno a frizione con i governisti sostenuti da Parigi.

Sta di fatto che da questo braccio di ferro la Francia è uscita con le ossa rotte e con le sue mire economiche ridimensionate in maniera drastica. Secondo Le Drian, il gruppo Wagner “usa la debolezza di alcuni Stati per affermarsi e rafforzare l’influenza della Russia in Africa”. La partita è ampia e vede come sempre l’Africa ridotta a giocatore coatto o a campo di gioco.

Tuttavia se prima gli equilibri aberranti di questa equazione vedevano alcune teste di serie europee tener testa allo strapotere sino-russo, adesso con la Gran Bretagna in ambasce Brexit e con la Francia ridotta a riserva da panchina lunga gli interessi africani hanno un altro padrone. Che come sempre non è il padrone vero di quella terra.

Spartito wagneriano.

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