Ricordando Mimma – Il port a porter e l’assurdo negli ospedali (di Mimma Panaccione)

Un altro degli articoli che ci ha lasciato Mimma Panaccione, sul suo blog all'interno di Repubblica.it: la collega che ha smesso di scrivere nei giorni scorsi invece è più vice che mai.

Nei giorni scorsi ha smesso di scrivere la collega Mimma Panaccione. Ci ha lasciato una serie di articoli che la rendono più viva che mai. Sono quelli proposti sul suo blog all’interno di Repubblica.it Li riproponiamo per consentire, anche a chi non la conosceva, di capire quale straordinaria persona fosse.

 

di Mimma PANACCIONE

Quanti di voi hanno addosso un port? Parlo del port-a-cath (anche detto pacc), cioè di un accesso venoso centrale permanente, composto da una catetere in silicone inserito in una vena (succlavia, giugulare o femorale). Il picc è la sua versione temporanea che di solito si inserisce nel braccio. Insomma un enorme aiuto per malati cronici come noi metastatici che dobbiamo vivere in perenne terapia tra infusioni ed interventi, per salvare le nostre povere vene messe a dura prova. Entrambi si inseriscono con mini interventi ambulatoriali.

Per quanto mi riguarda, ho personalmente un rapporto di odio-amore col port. Il primo ha rappresentato un’esperienza terrificante. Nonostante fossi in un centro oncologico specializzato del nord Italia, il mini intervento di circa 20 minuti si trasformò in uno di 3 ore, dove chiamarono alla fine primario e “cavalleria” per riuscire nell’impresa. Io ero sfinita, esausta e in piena sindrome vagale… Uno spasso insomma.

Poi, per motivi logistici, poiché vivevo nel basso Lazio, fui dislocata nell’effettuare la chemio in un ospedale romano. Apriti cielo! Più che temere gli effetti devastanti dell’epirubicina, temevo la fila di oncologi, anestesisti ed infermieri che si davano il cambio (una media di tre buchi a testa, uscivo col ghiaccio sulla parte gonfia che sembrava la terza tetta) per centrare con l’ago il port inseritomi. Per di più inculcandomi sensi di colpa (è troppo piccolo, è pediatrico, si è spostato, si muove, ecc…) e magari farmi fare un’infusione di soluzione fisiologica per essere certi di non aver commesso errori.

Finita la chemio, tornai nel centro oncologico di riferimento del nord dove, con mio sommo stupore, decisero di togliermi l’accesso venoso subito. Scambiai questo atteggiamento per la sicurezza autorevole di chi sa cosa fa, e come simbolo della mia ormai imminente “guarigione”. Togliere il port fu una passeggiata, in un ambulatorio con un medico in gamba e comprensivo a cui chiesi di darmi l’odiato oggetto in un barattolo per portarlo nell’ospedale romano a mostrarlo per fugare ogni dubbio dei sanitari. Cosa che puntualmente feci e per la quale venni addirittura ringraziata.

Ma nel frattempo di lì a un paio di mesi venni dichiarata metastatica e tornai sulla giostra delle chemio. La vita non per questo mi ha risparmiato sorprese e col tempo mi ritrovai a Torino per motivi di lavoro di mio marito. Scelsi di essere curata nella Breast Unit delle Molinette dove ovviamente mi chiesero perché non inserissi un port. E bastò questo a trasformarmi nella figlia dell’esorcista e a farmi dichiarare la paziente più antipatica del secolo. Ma con santa pazienza, facendosi carico dei miei problemi, e tutti i possibili espedienti che la mia condizione clinica permetteva, riuscii a non farmi inserire il secondo port, che psicologicamente rifiutavo a priori.

Questo fino a quando nell’unico braccio che ancora poteva sopportare infusioni non sono apparsi due trombi. La classica goccia che fa traboccare il vaso… Così, presa con le pinze, pian piano sono stata persuasa ad incontrare il chirurgo per vedere se inserire un port o un picc. Il chirurgo era una donna che rimase esterrefatta dalle mie peripezie e mi espresse perfino la sua solidarietà. Ma soprattutto mi rassicurò, a tal punto che decidemmo di inserire un picc prima e successivamente un port.

Il giorno del port ero tesa come una corda di violino, come se dovessi fare un intervento a cuore aperto. Immaginatevi poi quando, entrando nell’ambulatorio, invece di trovare la chirurga conosciuta trovai un chirurgo… Non nascosi la delusione e il malcontento ma accettai di procedere. L’infermiera mi tenne la mano affettuosamente. Lui fu estremamente premuroso, dandomi da parlare per tutto il tempo per tranquillizzarmi. Io fui odiosa e detestabile, zittendolo più volte malamente. Risultato? Nel giro della canonica mezz’ora era tutto finito, io ero in piedi ricucita e contenta.

Solo allora mi resi conto che le infermiere lo chiamavano “Prof” e cercai di scusarmi per la mia condotta poco ortodossa, spiegandone i motivi. Per tutta risposta, senza battere ciglio, il prof mi invito di lì a 15 giorni ad intervenire a un master accademico sull’argomento (!), per portare la mia esperienza di paziente sfigata col port. Ci sono andata, ho partecipato e per di più sono stata contattata da altre persone interessate: “quando anche un accesso venoso centrale può influire sulla qualità di vita di un paziente cronico”. Non solo. Linda, una persona meravigliosa, mi chiese di intervenire ad un corso di formazione per addetti ai lavori presso un altro ospedale del Piemonte. Per due volte.

Ora convivo serenamente col mio port, che peraltro funziona benissimo e senza alcun ostacolo o pluribuco grazie alle super infermiere del Day Hospital della Breast Unit. L’unico neo è che all’interno delle strutture ospedaliere sono in realtà pochi coloro che sanno gestirlo ed usarlo nei diversi reparti. Succede, ad esempio, che se devi effettuare una tac con mezzo di contrasto, anche se hai il modello abilitato con tanto di tesserino, le linee guida interne lo vietino di fatto, e tu ti ritrovi di fronte a nuove odissee con gente in fila per bucarti in posti impossibili e dolorossissimi in cerca di vene.

Una beffa che ho segnalato all’Urp della struttura sanitaria dove sono in cura. Mi ha riferito le risposte dei reparti interessati. Tutte “ragionevoli” sulla carta, ma con due netti errori di fondo: se l’ospedale sceglie, acquista e fa inserire la “Ferrari” dei port e poi ne decreta di fatto l’uso esclusivo e limitato ad un numero esiguo di reparti e a personale esperto, si evince una contraddizione implicita. E il paziente – che crede di aver risolto una serie di problemi e che invece si ritrova sollevato solo in alcuni casi – non dovrebbe esserne informato meglio, nel dettaglio e prima?

Ai posteri l’ardua sentenza. Io non demordo.

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