Nelle polemiche che da ore stanno divampando ad Anagni per l’ennesima tragedia stradale al bivio della ex Winchester, che ha strappato ancora una vita, quella di una 26enne amata e benvoluta, hanno tutti ragione e tutti torto.
Ha ragione il sindaco Daniele Natalia quando dice che non è corretto strumentalizzare una tragedia, che certamente non si può addossare alla amministrazione comunale la responsabilità morale della morte di Francesca Colacicchi: che farlo equivarrebbe a mandare a processo ogni sindaco dei comuni in cui si sono verificati casi simili. Hanno ragione i cittadini che da anni fanno l’elenco triste degli incidenti nella zona, e chiedono da sempre la realizzazione di opere di messa in sicurezza, a partire dalla tanto attesa rotatoria.
Hanno ragione gli altri enti coinvolti, ognuno con regole e norme che vanno rispettate. Perché non si può seriamente pensare che una rotatoria, per fare un esempio, non si fa perché qualcuno non la vuole.
La lentocrazia che uccide
E forse il problema è proprio questo. Ovvero che quando le parti in causa sono troppe si crea, come accade da anni, uno stallo che genera un blocco complessivo.
In fondo, a ben guardare, in questo senso la morte di Francesca è figlia di un enorme problema che da anni caratterizza non solo Anagni, non solo provincia e Regione, ma tutto il sistema burocratico del nostro disfunzionante Paese. Un problema che ha due facce. Il primo è quello della imponente massa burocratica che, letteralmente, annichilisce ogni volontà di fare qualsiasi cosa.
Questo è un Paese in cui possono volerci anni per cambiare un segnale stradale, mettere un cartello, operare una modifica banale. Un Paese in cui la mole di scartoffie necessarie a far partire qualcosa è un incubo di proporzioni kafkiane. Mediamente un Comune, cioè un pezzo dello Stato, impiega non meno di un anno per raccogliere la documentazione necessaria all’avvio di un’opera. Che è opera pubblica e non per il godimento di un singolo privato. E da quel momento a quello dell’effettivo avvio del cantiere trascorrono non meno di due anni. Per realizzare opere strategiche come il nuovo Ponte di Genova o l’ultimo tratto della Salerno – Reggio Calabria lo Stato ha dovuto commissariare se stesso.
Nessuno vuole responsabilità
È un Paese nel quale un sindaco, un assessore, un amministratore, un dirigente, possono essere chiamati a rendere conto solo per aver voluto fare qualcosa. Rispondendone di tasca propria. Chiaro perché non si firma: nessuno vuole assumersi responsabilità.
E se qualcuno se le assume diventa sospetto: com’è avvenuto per l’ex presidente della Provincia Peppe Patrizi, finito sotto processo fondamentalmente perché prima occorrevano anni per avere un’autorizzazione e dopo il suo intervento le pratiche si concludevano nei tempi di legge. Accadde lo stesso al suo predecessore Francesco Scalia: per essersi assunto la responsabilità di applicare la norma che imponeva il gestore unico dell’acqua o la responsabilità di avere credto nell’aeroporto. Assolto con formula piena in entrambi i casi. Un sistema che fatalmente condanna all’immobilita’ , al lassismo congenito.
Il rimpallo della lentocrazia
L’altra faccia è, appunto, il rimpallo. Lo scaricabarile, la tendenza a gettare sugli altri, chiunque siano, doveri e responsabilità. Anche qui, un sistema che porta, a lungo andare, al blocco. Colpa del sistema dunque? Fino ad un certo punto. Perché quegli stessi sindaci, assessori, amministratori, hanno la possibilità , magari anche il dovere di fare di più in tal senso. Nel caso della rotatoria invocata al bivio della ex Winchester quel progetto è in appalto da sette anni, è stato necessario riaprire la gara 4 volte, c’è stata una fase in cui sono stati persi i fondi.
Occorre sbattere i pugni sul tavolo, urlare laddove è necessario, magari anche minacciare. Perché altrimenti la burocrazia asfissiante, da limite, diventa un alibi. E di storie come quella di Francesca, con tutto il corredo di lacrime e di accuse, continueremo ad averne ancora a lungo