Internazionale: protagonisti della settimana nel mondo

Internazionale. I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Internazionale, lo notizie dalle pagine degli Esteri che non troverete mai sui quotidiani in Italia.

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DOUG MC MILL(I)ON

Nomen omen. Cioè come essere Ceo di un’azienda che fa i miliardi perché in un certo senso era scritto nel tuo cognome. Perché se fai Millon, che suona come danè e lo fai precedere dallo scozzese Mc, cioè sparagnino, allora sei nell’Occhio del Fato. Lui è nato a Memphis, è concittadino di Elvis cioè, e in azienda fa ballare il rock n’ roll ai soldi da sempre. Giochini a parte Doug Mc Millon, Ceo di Walmart, è cornerstone del gruppo. Perché sempre lì ha lavorato, fin da ragazzino, scalando le posizioni passo dopo passo, come uno sherpa dell’American Dream.

il presidente di Walmart Doug Mc Millon

E la sua ultima scommessa ha il tono dei cimenti grossi. Perché? Perché sfidare Jeff Bezos sul suo terreno è da matti. Da matti o da mazzieri come lui. Un po’ come dire a Hulk che ha la mamma maiala. Walmart in Italia è nome che dice pochino, ma nel mondo fa numeri grossi davvero. E’ presente in 30 paesi e ha 100 milioni di utenti nell’e-commerce. Ogni anno ha un numero di clienti pari alla popolazione dell’Argentina, circa 45 milioni. E fa vendite per 514 miliardi. In cosa? Nella grande distribuzione, di cui è leader mondiale con tanto di quotazione in borsa. Con la pandemia poi il colosso si è fatto titano e con l’e-commerce ha incrementato il bottino del 40%.

Fra un po’ lancerà Walmart+. Cioè la same-day delivery di generi alimentari, sconti sulla benzina e altri benefici ad un costo annuale di 98 dollari. Attenzione ché qui si intravede il profilo sfumato di chi Doug vuole sul ring: sono esattamente 21 dollari in meno rispetto alla membership offerta da Amazon Prime. Ergo, Bezos è in tacca di mira.

Ma a Mc Million non bastava, lui voleva puntare una mitraglia aerea e lo ha fatto. Come? Giocandosi anche lui la carta dei droni per la distribuzione. E per giocarsela tutta ha voluto il meglio. Quando in materia di roba che vola-spia-trasporta vuoi il meglio devi guardare verso Tel Aviv, lo sanno anche i sosia di Elvis.

E infatti Walmart ha annunciato di aver avviato una collaborazione ad hoc con la startup israeliana Flytrex. La società è «specializzata nella produzione di droni con gestione dei dati end-to-end attraverso una piattaforma cloud proprietaria». Lo svela il Financial Times. I droni Flytrex saranno controllati utilizzando un dashboard «intelligente e facile». Il guanto di sfida è lanciato. Anzi, è in rampa di lancio. La prossima sfida è quella del peso del carico, finora con massimale di 8 libbre.

Inutile dirlo: per gli americani l’unità di misura è l’hamburger e un drone ne mette in carretta circa 15. Del peso e del meteo. I droni infatti non volano con venti superiori a 18 nodi e con la pioggia. Per ora, perché un cheeseburger val bene un acquazzone.

Icaro coi danè.

LIU XIAOMING

Gonzo o drago. Fate voi, per noi è umano, cioè un mix dei due. E a tirar fuori la sua umanità è stato Twitter, una cosa che dalle nostre parti di solito succede, ma al contrario. Cioè con i social che forgiano inutili umanità-avatar. Ma dalle nostre parti non hai Pechino che ti alita sul collo e ti dice dove navigare, cosa vedere e quando farlo. Il gonzo è l’ambasciatore cinese nel Regno Unito Liu Xiaoming. Calma, gesso e spieghiamola.

L’ambasciatore Liu Xiaoming. Foto © Chatham House

Il nostro è stato lì lì per soccombere ad un infarto, perché è emerso un suo ‘like’ ad un video su Twitter che gli ha tirato in ballo ciò che Twitter ha in logo, ma in mood metafora. Insomma, l’ambasciatore risulta aver apprezzato un video fetish in cui c’entrano il sex soft e l’uso dei piedi. Roba di starlettes da due soldi, innocua. Dopo aver preso il colore della maglia di Totti, il diplomatico si è giustificato dicendo che il suo account era stato violato. E che lo zozzone che aveva gradito il siparietto banfiano non è lui. Resta però in ballo la possibilità che il signor Liu possa essere un boomer un po’ malaccorto. Un grullo magari non proprio esperto «dell’uso di una piattaforma che è vietata nel suo paese».

I dubbi li hafatti suoi un gustoso pezzo di Austin Ramzy sul New York Times. Ma il problema sta diventando anche politico, perché quell’account non ha solo gradito il sex frame. Non avrebbe infatti neanche risparmiato lazzi sulla morale della madrepatria cinese.

Quanto basta per far mettere in moto i “guerrieri lupi”. Chi sono? Una sorta di club occulto dei diplomatici cinesi planetari. Una mezza confraternita i cui membri hanno giurato di fare dell’ortodossia una regola da applicare al di fuori dei confini che valicano per mission. Sono cioè gli ultras degli ambasciatori di Pechino sparsi nel pianeta. Ed è lecito pensare che siano dei barbagianni mogi a cui per strappare un sorriso o un attimo di scollaccio serva una betoniera di grappa.

Sempre secondo Il NYT sono capaci di cose truci, come ostracizzare un collega o escluderlo dagli eventi. E tagliarlo fuori dall’intranet di categoria se usa un software per aggirare il divieto di cinguettare.

A stemperare questo clima da spy story ci conforta una lettura più piaciona. Quella per cui un serio ed imbalsamato diplomatico cinese, magari gonzo in quanto a maneggio dei social, ha fatto una cosa umana. E ci è piaciuto. Perché anche la libertà di apprezzare una maialata diventa massimo sistema quando hai una patria che quella libertà te la nega. Quella e molte altre.

Canarino coraggioso.

FLOP

LDP

Non è il nome di una nuova droga di sintesi, ma qualcosa a che vedere con l’oppio ce l’ha. L’oppio dei popoli in senso non marxiano, ma laico. E di un popolo in particolare: quello giapponese. Che per mezzo del Liberal Democratic Party, il suo Partito più longevo, proprio non ci riesce a dare alle donne posti di rilievo o la possibilità di raggiungerli. La prova? L’impossibilità per due candidate sostitute del dimesso premier Shinzo Abe di raccogliere le firme necessarie per validare la loro candidatura a guidare il paese. Nessuno che abbia messo uno scarabocchio verticale sotto il loro nome.

Una cosa da medio evo samurai che fa a cazzotti con la trazione hi tech di un Paese che non riesce a superare le proprie contraddizioni secolari. I tre contendenti che si erano ufficialmente registrati per concorrere a guidare il governo in quota LPD sono tutti uomini. Ma c’è l’aggravante e non è di fuffa. Secondo il Chicago Tribune nessuno dei tre infatti è famoso come sostenitore dell’uguaglianza di genere.

L’ex ministro Tomomi Inada. Foto © Japan Maritime Self-Defense Force

Ne hanno avuto prova provata l’ex ministro della Difesa Tomomi Inada e l’ex ministro degli Interni Seiko Noda. Due signore con competenza internazionale talmente ferrea che addirittura la prima era stata pioniera nell’endorsement alle tecnologie di artiglieria al plasma. E’ roba che solo i ‘cuginastri’ cinesi per il momento maneggiano, e con la cautela dei neofiti che giocano col tritolo in tinello.

Le due non sono arrivate neanche al ballottaggio, consegnando le sorti del Paese ad un uomo. Il che non è un male se è un’opzione di merito, ma è malissimo se è un cul de sac sociale impossibile da aggirare.

In Giappone i liberal democratici hanno governato per 62 anni, il che mette il Partito in cima alla lista dei sospettati di aver creato una subcultura ‘mascula’. Una linea testosteronica condensatasi nella decisione di far convergere tutte le forze sul nome del braccio destro storico del premier dimissionario: Yoshihide Suga. Cioè uno conosciuto per essere talmente gaffeur che Luca Giurato a suo paragone pare Kissinger.

Progresso kamikaze.

LE ARMI NEGLI USA

Ok, la faccenda che negli Usa le armi siano estensione diretta di una legge costituzionale e fisiologica che sfuma nelle braccia di un americano su tre la conosciamo da tempo. Ma questo non significa che l’abbiamo digerita. Anche perché di digestione difficile si tratta, a contare le perle che la cronaca stars and stripes ci regala in maniera ciclica. Sono le perle per cui ogni tot un adolescente foruncoloso prende d’aceto con i compagni bulli, o con i prof, o con il sistema. O con la macchinetta sputa merendine tirchia o con i criteri di accoppiamento delle marmotte dell’Iowa.

Michael Douglas sul set di Un Giorno di Ordinaria Follia

E sull’onda di quel malmosto cerca il Barret REC7 di papà, inevitabilmente lo trova e lo imbraccia. Per andare a fare sanguinaccio scolastico di un mondo che non lo ha capito e che quindi merita di essere farcito di piombo, e datemi un amen.

Questo accade a seguire la norma, si badi. Se poi, come informa soavemente il Miami Herald, l’Fbi fa una tana come quella che ha fatto in questi giorni, la faccenda da brutta si fa aberrante. Sono quasi 300mila, per la precisione 297.644 le armi che negli Usa durante il lockdown sono state vendute senza i controlli preventivi. Come è stato possibile? Semplice. E agghiacciante.

In America per lo più se vuoi acquistare un’arma, anche da assalto, devi solo sceglierla e attendere tre giorni. Tanti ne servono perché il rivenditore metta in moto i controlli. Cioè le procedure con cui si verifica che un potenziale acquirente non abbia precedenti penali. E sia idoneo perciò all’acquisto. Ma c’è un trucco per farla franca e quasi 300mila americani l’hanno usato, molti inconsapevolmente, altri no. Lo dice il rapporto del gruppo di difesa Everytown for Gun Safety. Report che si basa sui dati del Federal Bureau of Investigation ottenuti attraverso il Freedom of Information Act. La furbata è una legge che negli Usa viene chiamata “la scappatoia di Charleston”, da un episodio che fece scuola nel 2015 proprio lì.

In cosa consiste? Nella possibilità di portare comunque a termine l’acquisto se dopo tre giorni le autorità non si fanno vive per dare l’esito dei controlli. Una specie di silenzio assenso sulla bontà dell’acquirente. Che poi sia magari acquirente di un cannone Oerlikon da 50 mm capace di bucare la Casa Bianca come cacio e che il tipo sia il più tossico fra i tossici sfasciati poco cale. Perché durante il lockdown e con i ranghi della pubblica amministrazione ridotti o rallentati i controlli sono stati effettuati solo in misura del 44%.

Il resto delle domande è andato in scadenza come lo yougurt. E all’alba del quarto giorno quel buio ha prodotto 300mila semafori verdi a ché 300mila americani si presentassero al bancone. Per pagare e portarsi a casa ferraglia sufficiente a invadere di nuovo Panama. O ad armare braccia e brocche fuse di migliaia di figli incappati in quel tragico momento di follia. Momento che fa di un teenager un massacratore. Momento che a diventare memento proprio non ci riesce.

Civiltà di piccolo calibro.

MENZIONE SPECIALE

MELANIA TRUMP

A detta del suo ufficio stampa si sarebbe incazzata come una crotala con la coda sotto un suv quando ha saputo della diffusione di alcune registrazioni della sua voce. Tapes che offrono un’immagine molto ma molto meno algida della first lady imbalsamata e bellona che tutti conosciamo. Cioè di una che ride ogni conclave. Ma Melania Trump ha preso d’aceto lo stesso. E ha fatto sapere che il libro che contiene quei brani è «la violazione di un accordo di riservatezza. Allo scopo di pubblicare indiscrezioni. E con il chiaro tentativo di mettersi in mostra».

Melania e Donald Trump

La nota è a firma di Stephanie Grisham, la ‘pit-bulla’ della first lady. E mette in tacca di mira Winston Wolkoff, ex assistente di Melania.

Costei ha fatto due cose. E le ha fatte secondo il consueto clichet americano che vede l’editoria pruriginosa sui potenti darsi una botta di vita sempre e solo in campagna elettorale. Ha pubblicato ovviamente un libro sulla signora Trump in cui dimostra comparaggio e complicità degni di due cheerleader. E ha dato alla CNN i nastri con brani di conversazioni tenute da Melania nel pieno delle sue incombenze casalinghe nella casa più grande e bianca del pianeta. E siccome in quelle registrazioni Melania sembra più un’insegnante di economia domestica che la moglie del politico più influente della terra è scoppiato un pandemonio.

Specie in merito alla parte in cui la first lady si lamenta del compito assegnatole. Che non è quello di visitare i bambini saltati in aria sulle mine dei cattivoni. No, il momento topico riguardava la scialba incombenza di curare gli addobbi natalizi della Casa Bianca, una cosa che sa molto di fare la calza. Calza gigante, ma sempre calza. Michelle Obama non aveva nessuna remora a fare la casalinga pop. Ma Michelle Obama è un’avvocatessa piazzata saldamente nell’establishment. Una che al 1600 PA riusciva ad offrire l’immagine della donna che sceglie la casa perché è sicura di ciò che fuori dalla casa rappresenta.

Melania invece vive da sempre il complesso della bella che non balla. Della donnina del riccone che vince solo quando azzecca il tailleur giusto o si fa paparazzare in Florida.

Lady Trump, che in quegli audio si fa venire le convulsioni per la mission minimal, ci è rimasta male. E accusa la sua ex amicona di voler boicottare la delicatissima fase pre voto. Fase in cui tra l’altro il marito è impastoiato da quello stesso Covid che aveva schernito per mesi. Ma il dubbio è un altro. Che Melania, che invece è bella e balla pure, giochi di contrappunto.

Che cioè voglia raccogliere consensi obliqui per il marito proprio nel momento in cui arrossisce per il ruolo in cui il marito l’ha relegata. Come una cenerentola sgamata a fare cose sceme. E per questo in empatia magnetica con tutte le elettrici che strofinano curve la cera mentre i mariti vanno a fare i piacioni al bar. Una Cinderella che in punto di psicologia merita una seconda occasione. Anche a costo di darne una eguale al coniuge tamarro che l’ha incatenata al tinello.

Meglio la zucca della carrozza.

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