L’amore di comodo tra Matteo e Nicola

[dfads params=’groups=105&limit=1&orderby=random&return_javascript=1′]   Non si amano. Non si sono mai amati. Troppo diversi politicamente e troppo simili nella capacità di bucare lo schermo. Matteo Renzi e Nicola Zingaretti diffidano l’uno dell’altro. E fanno bene: ciascuno sa che l’altro gli fa ombra, ognuno dei due sa che per questo potrebbe essere assassinato dall’altro. Non è amore…
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Non si amano. Non si sono mai amati. Troppo diversi politicamente e troppo simili nella capacità di bucare lo schermo. Matteo Renzi e Nicola Zingaretti diffidano l’uno dell’altro. E fanno bene: ciascuno sa che l’altro gli fa ombra, ognuno dei due sa che per questo potrebbe essere assassinato dall’altro.

Non è amore quello che li sta portando a farsi vedere sempre più spesso insieme e sorridenti. E’ reciproca convenienza politica. Il riavvicinamento c’è ed è reale: il sensale è stato Bruno Astorre che ha intessuto la tela fino a fargli inaugurare assieme il Pronto Soccorso del Santo Spirito in Sassia; ha ricamato, tagliato e cucito fino a confezionare l’intesa firmata alle Terme di Diocleziano venerdì quando sono stati consegnati al Lazio 1,4 miliardi per opere pubbliche.

Renzi ha bisogno di Zingaretti. E Zingaretti ha bisogno di Renzi.

Il premier ha sentito in modo chiaro il segnale d’allarme quando il 18 aprile scorso sono arrivati i risultati del referendum. Delle trivelle non fregava a nessuno ma in tanti sono andati lo stesso a votare. Un segnale dell’insoddisfazione che c’è nel Paese: i risultati non arrivano, il sacrificio dell’Articolo 18 non ha portato i posti di lavoro, la cancellazione del Senato non serve a fare ripartire l’economia, la riforma delle Province ha solo ingarbugliato le cose e non ha fatto aumentare né stipendi né pensioni.

Un primo segnale, altrettanto chiaro gli era arrivato alla precedente tornata di voto: gente come Alessandra Moretti o Matteo Orfini non ha portato i risultati attesi; gente come Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani è brava ma non scalda l’elettorato.

Allora va registrata la macchina del Partito, il Consiglio della Corona deve essere rivisto. Perché governare da solo è possibile ma non coinvolgere gente che ha il consenso, come Nicola Zingaretti o Michele Emiliano (governatore della Puglia uscito come un gigante dai referendum sulle trivelle) rischia di trasformare il terreno politico nel Pd in una palude nella quale Renzi non vuole restare intrappolato.

L’appello ad una tregua interna di 5 mesi fino ad ottobre non sta funzionando ed anche se i toni si sono abbassati, la tensione è evidente. «Il referendum costituzionale è il Congresso del Partito Democratico» ha ammonito Gianni Cuperlo mettendo in guardia dalla mutazione genetica del Pd dopo il sostegno di Denis Verdini.

Ecco cosa c’è dietro alla nuova strategia di Matteo Renzi ed al suo ritrovato feeling per Nicola Zingaretti. Il premier sa che il governatore gode di un gradimento addirittura superiore al suo, come ha certificato il sondaggio dell’autorevolissima Swg (poi non pubblicato dal Pd) ad ottobre 2014.

Allora, meglio disinnescare i potenziali fronti, dialogare con i territori. Il dato politico nel Lazio è evidente: nella regione, l’asse Astorre – Zingaretti non lascia margini per nessuno.

Si arriva così alla firma alle Terme di Diocleziano. Zingaretti con quel miliardo e mezzo può finalmente iniziare a dare al Lazio le opere che per 4 anni ha solo potuto sognare, sepolto sotto ai 10 miliardi debito nella Sanità che gli avevano sigillato tutti i conti. Renzi per contro incassare la tregua con cui arrivare in sicurezza ad ottobre ed al referendum costituzionale.

Se vince il Si, inizierà veramente la Seconda Repubblica. In caso di sconfitta sarà la fine del governo e della carriera politica di Renzi.

Ma se vince, poi, dopo, potrà tornare a fare come gli pare. Senza dover più sorridere né con Emiliano né con Zigaretti.

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