Riprendersi lo stupore ogni volta che nasce una speranza: parola di vescovo

L'Omelia dell'Epifania di Monsignor Spreafico e l'appello a lasciare una nuova umanità ritrovata ai piedi di quella culla

Il concetto è semplice e grandioso: se una luce squarcia il buio allora quella luce dobbiamo essere capaci di coglierla. No, non di coglierla, di vederla, piena, tonda, salvifica e stimolante. Dobbiamo farlo perché la notte dell’uomo non è un cielo fisico cupo, ma sta tutta negli occhi di chi non attacca gli occhi al cuore. Monsignor Ambrogio Spreafico è troppo vescovo dentro, troppo pastore per non preoccuparsi di squarciare il velo. E lo ha fatto con la sua omelia dell’Epifania dalla cattedrale di Frosinone. Il presule ha messo un momento topico a servizio schietto di un appello a ritrovare l’umanità, a far tornare visibile la manifestazione di un Dio che implica l’azione perché saperlo ed agire sono un tutt’uno.

Un corpo unico che oggi ha scavalcato il mero significato di etimo e che ci ha riportati tutti di fronte alla più grande delle responsabilità. Quella di cercare il bene e trovarlo in una stalla, in tutte le stalle e dentro ogni mangiatoia. Di lenire un dolore, battere una notte diaccia e gioire per averlo fatto dovunque Gesù lanci i vagiti del bisogno. Grandioso, Spreafico, grandioso perché sintonizzato sull’umiltà di una missione per cui non è possibile oblio.

L’Epifania come compimento del Natale

“Nella festa dell’Epifania comprendiamo meglio il senso del Natale. Dio viene in mezzo a noi, bambino, debole, come i bambini di questo mondo. Quanto amore in questo avvicinarsi di Dio alla nostra vita! Noi diamo tutto per scontato e conosciuto, così non ci fermiamo più a riflettere e non ci stupiamo più per il grande mistero che si rivela nella nascita di Gesù. Dio ci ha tanto amato da mandare a noi il suo Figlio”.

La scontatezza dell’esistenza, la ridicola escatologia laica del dominio sulla materia ci hanno fatti miopi e crassi. E non ci fanno rammentare che adorare Gesù, meravigliarsi per la sua venuta, è come stare allo specchio e vederci per la prima volta per come dovremmo essere, e non per come troppe volte arrendevolmente siamo. “Solo dei poveri pastori e dei ricchi magi, che venivano da lontano, accorsero a Betlemme, per vedere quel grande avvenimento. E noi, sorelle e fratelli, dove ci collochiamo? Siamo ancora capaci di stupirci di fronte alla nascita di Gesù? Chi è Gesù che nasce per me, per la mia vita, per la mia comunità, per la mia città? Mi ha detto qualcosa la sua nascita o mi ha lasciato come sono?”.

Il guaio grosso è l’ego, quel fulcro nero che oggi, in queste terre, ci spinge a non vederci come parte di un sistema complesso, ma come cardine di esso, unico margine relativo per misurare la vita. “Ha trovato posto nel tuo cuore il Signore o lo hai allontanato per la forza dell’abitudine o per disinteresse, o perché sei stato preso da te stesso, dal tuo individualismo protagonista oppure triste?. Eppure la Ciociaria è mondo, parte nevrile e generosa di esso, e dal mondo riceve i suoi segnali funerei che il mondo lancia quando il mondo impazzisce. E sfratta la luce.

Cosa sfratta la luce e cosa la fa tornare

Foto: Omar Naaman / ApaImages

“Ci sono tante tenebre nel mondo. Molti vivono in una notte che non sembra avere fine. È la notte di coloro che si trovano in guerra, come in Terra Santa e Ucraina, di quelli che soffrono per la mancanza del necessario”. Il buio è sociale, è quello “dei bambini venduti e sfruttati, di quelli che non vedono la luce o che muoiono per le malattie. E’ il buio delle celle dei carcerati e dei condannati a morte, per cui la notte è come il giorno”. Li blandiamo con la sardonica patente dell’esperienza ma non li mettiamo al centro di un sereno interesse, perciò li lasciamo soli nella notte.

“La notte di tanti anziani dimenticati e che aspettano solo la morte, la cui vita non conta per nessuno”. Nel giorno dell’adorazione di re stranieri per un Re che azzera ogni diversità non siamo ancora capaci di includere. “E’ la notte di tanti immigrati che non trovano posto tra noi come Gesù. Anche noi spesso viviamo nella notte, quando riusciamo a vedere solo noi stessi e non ci accorgiamo delle notti degli altri”. Sì, manca lo stupore: “È la notte di quando non ci stupiamo dell’annuncio del Natale e abbiamo paura di lasciare qualcosa di noi imitando i pastori, che nella notte lasciarono il loro gregge per andare ad incontrare Gesù”.

Il vescovo Spreafico conosce bene il valore delle metafore e non cade nel trappolone di Cartesio, la fede è una faccenda più grossa del raziocinio. E nel quadro disegnato dal capo della Diocesi di Frosinone-Veroli-Ferentino ed in ‘persona episcopi’ di Anagni e Alatri una stella è molto più di un corpo celeste.

Niente astronomia: quella stella sussurra ai cuori

Immagine: OpenClipart-Vectors

E’ un sussurro all’anima, è una bussola ai petti che la contengono ed un monito ai ceppi che la tengono immobile. “Nella notte e nelle tenebre del mondo e dei cuori appare una stella, come avvenne per quegli uomini che abitavano lontano. Essa è una voce, quella mite e appena percettibile che ci guida verso Betlemme. Nessuno di noi saprebbe arrivarci da solo”. Eccola, la collegialità, ecco il senso modernissimo di parole che dell’antico hanno solo la nuance protocollare. Stupirsi ed agire non sono mai azioni individuali, ma spunti che, se ammalano benevolmente una società, ne divengono il tesoro più prezioso, su ogni fronte dell’esistenza.

“I più religiosi tra noi, ma anche i più lontani, hanno bisogno di quella stella, di quella luce che conduce fuori dalle nostre paure e abitudini. Quella voce ci invita: Alzati, rivestiti di luce…’”. L’appello è ginnico, da fiatone ritrovato assieme alle risate di chi agisce: “Alzati, amico mio, non avere paura di seguire la stella. Non tirarti indietro quando ascolti la parola di Dio, quando un fratello, una sorella, un amico, ti parlano. Alzati, c’è bisogno di te a Betlemme”.

C’è bisogno di noi, c’è bisogno di ogni singolo elemento di questa società laboriosa e forte che si è forgiata tra Ernici, Volsci e Marsi del sud. E il simbolismo proposto dal vescovo è talmente poco simbolico che ha il sapore pieno di questa terra forte. “A Betlemme troverai accanto al bambino una madre, Maria, che, come la Chiesa, ti accoglie per accogliere con te Gesù e per farlo crescere nei cuori. Non sei solo nel tuo andare a Betlemme”.

Un solo popolo, fratello nella diversità

Sono giorni di connubio, giorni che preparano a rendere quel connubio una costante etica, giorni tristemente foraggiati da solitudini che ci hanno ricordato cosa va fatto. “Un grande popolo si è unito a noi. Alcuni lo hanno visto a Natale quando si sono uniti a tante donne e uomini in cerca di luce, di un po’ di tenerezza e di amore”. Centellinare il concetto di diversità lasciando intendere che essa è formale e che si stempera cheta nella fratellanza è stato l’atto finale dell’omelia di monsignor Spreafico. Per chi ha avuto orecchie un’epifania nell’Epifania.

“Hanno vissuto la gioia di sedersi a tavola con donne e uomini che sarebbero rimasti soli, anziani, bambini, famiglie, stranieri, senza fissa dimora. Un popolo di fratelli e sorelle nella loro diversità, la tavola della fraternità universale. In quel popolo anche noi siamo stati raggianti, gioiosi, e il nostro cuore si è dilatato, è uscito dalle angustie e dalla tristezza in cui spesso lo costringiamo”. Ma di quale popolo si parla? A chi ha alluso Spreafico nella Cattedrale di Frosinone? E dove abita questo popolo? La grandezza della risposta è ecumenica, piccola come una mangiatoia, immensa come il suo contenuto.

Senza confini, per ritrovare la gioia

La cattedrale di Frosinone

“È il popolo senza confini della Chiesa. Non continuare a guardare solo te stesso o ti perderai senza che te ne accorgi. Come i Magi, al vedere il bambino in questo grande popolo anche noi abbiamo provato una grandissima gioia. Non lasciamo che il mondo ci tolga questa gioia, facendoci ritornare prigionieri e isolati nel nostro io, cercando di farci tornare sulla stessa strada di ieri. Perché no, “Erode non è morto. Il suo inganno continua ad insidiarci. Ci illude facendoti credere che se pensi solo a te stesso, sarai felice. Vuole che noi restiamo come siamo, vorrebbe impedirci di uscire e di seguire la stella, di ascoltare qualcuno che non sia il tuo io prepotente o pauroso.

“Ma l’angelo di Dio ci avverte di non tornare per la stessa strada. Da Betlemme non si può tornare per la strada di sempre, perché siamo giunti qui seguendo la strada della parola di Dio”. Che è come dire, anzi, riscoprire, che il bene è una rotta, non un approdo, e che il premio vero sta nel farlo, non nell’usarlo come bonus etico o fideistico.

Qualcosa di nostro ai piedi di quella culla

Natività, Carlo Maratta (1650) Roma, San-Giuseppe dei Falegnami

“Come i Magi allora, lasciamo ai piedi di Gesù qualcosa di nostro, qualcosa di prezioso, a cui teniamo, come segno della strada nuova che vogliamo seguire seguendo non noi stessi, ma la stella che Dio ci ha mandato. Ognuno sa che cosa lasciare. Di fronte a Gesù scegli almeno di stare di più con lui e di vivere la gratuità dell’amore, perché la gioia viene dal dare più che nel ricevere”. Già, ognuno sa cosa lasciare, come l’artista premuroso che per salvarla dai bruti ricoprì di malta vigliacca l’oro zecchino della statuina della Madonna Brutta di Guareschi.

Come le forti mani di fabbro comunista che pitturarono gli occhi minuscoli del Bambinello piccolissimo sperso tra i calli nel presepe di un grosso ed iracondo parroco di campagna. Come il bene che sta nascosto dietro le nostre stesse brutture. E che Spreafico ci ha invitato a scoprire di nuovo. Senza paura nell’oggi, senza più indugi per tutti i domani che verranno. In costante e gioiosa Epifania.

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