La road-map di Urso che regala ma convince poco: specie Confindustria

Foto: Sara Minelli © Imagoeconomica

Il guaio di sempre e l'elenco dei finanziamenti che non fanno sistema. Quel sistema che Maurizio Stirpe invoca da tempo: invano

Starring e non sparring: il nodo atavico di Confindustria da 20 anni a questa parte è ancora nodo irrisolto. E resta ben fermo da quando la visione della politica si è ristretta di orizzonte. Cioè da quando, chiunque fosse al timone, la rotta è sempre stata quella di conquistare consenso di pronta beva invece che incasellare sviluppo di lungo corso. Tattica invece che strategia, uovo oggi invece che gallina domani, cicala invece che formica: mettetela come volete ma il senso è questo e non è sindacabile. Sull’onda di questo mantra è nato di tutto: leggi di bilancio simili a riffe da fiera e legiferati di prodiga largizione.

Caselle e categorie da riempire di cash narcotico e politiche industriali timide, orbe e stortignaccole quando non palesemente suicide. E tutto questo ha anche alimentato una mistica di secondo fronte: quella per cui un dicastero che metta sghei a pioggia sulla faccia del paese sia eroicamente vocato a mettere birra nelle pieghe del sistema che quel paese lo traina. Ovviamente non è così ma da noi succede come in ogni processo complesso. Quando un’azione è continuativa essa finisce per diventare la sola azione possibile, il paradigma solo e buono, non una derapata che col tempo si è fatta regola aurea.

La legge e l’elenco del Made in Italy

Foto: Paolo Cerroni © Imagoeconomica

Perciò se accade ad esempio che il Ministero del Made in Italy retto da Adolfo Urso si mette a disegnare una mappa di dove scucirà i cordoni della borsa c’è poco da fare. E le alternative sono due. Chi vede nella politica un lungo spot danareccio e premiandolo col voto abbaia di gioia, e chi vede nella stessa il copilota dello sviluppo sistemico, perciò abbozza. Ecco, Confindustria abbozza, e non lo fa da poco tempo. A Viale dell’Astronomia si sono trovati davanti un lungo e pignolo elenco di tutti gli spot dove il dicastero ursiano ha messo a regime la legge 206.

E’ quella “per la valorizzazione, la promozione e la tutela del made in Italy” ed apriti cielo assieme a cento, mille tasche. Ne ha scritto benissimo su Il Foglio un sottile Dario Di Vico. Il tema è sempre quello che in punto di filosofia social ci vede tutti ordinari di Vita Vissuta: quello del pesce al giorno al posto delle lezioni di pesca. E se per decapitare il Reddito di Cittadinanza questa massima messa al contrario è andata benissimo, per mettere l’industria italiana in condizioni di far fuoco non ha funzionato più. Sono i paradossi del benaltrismo politico di oggi, che vuoi farci.

Norme più identitarie che utili

Carlo Bonomi, presidente di Confindustria. Foto © Carlo Carino / Imagoeconomica

La 206/’23 è una legge “considerata ad alta intensità identitaria e strumento di dialogo (magari anche elettorale) tra i partiti di governo e i distretti della specializzazione produttiva”. Solo che sembra una legge fatta più di proclami che di piani, più di “mance” che di investimenti, il solito loop tricolore.

“In quanto alla rilevanza strategica dei suoi obiettivi basta sottolineare che l’articolo 17 assicura sostegno persino alla filiera del pane fresco”. La stesura definitiva è poi finita al vaglio di Confindustria, che ne ha tratto una silloge pignola. Non poteva essere altrimenti, a contare numero e natura delle caselle produttive enunciate.

Come l’hanno presa a Viale dell’Astronomia

Foto: Sara Minelli © Imagoeconomica

E da Viale dell’Astronomia si sarebbero limitati “a sottolineare come siano ‘numerose’ le disposizioni dedicate a specifiche filiere produttive. Insomma, meglio elencarle una per una per evitare che strutture e associazioni territoriali possano perdersi in tanta confusione”. Che significa?

Che quel lancio di mangime a pioggia dalla politica alla produzione piace ma non troppo, e che bisogna scremare poco grano da tanta pula. Pula pubblicistica buona per la politica ma mediocre per i sistemi complessi di produzione. Si va dalla Giornata nazionale del Made in Italy del 15 aprile ai relativi “panel straordinariamente rigonfi di amministratori e politici locali, chiacchiere in libertà per cercare di ritualizzare l’eccellenza italiana”.

La sensazione è quella per cui l’eccellenza sia più un vessillo che un fine, e da questo punto di vista Paese in generale e provincia di Frosinone in particolare sembrano più l’oggetto di un test da sala trucco che il soggetto di un’azione di governo. C’è un’idea ipertrofica di qualità, ad esempio, dai cui effetti aveva già messo in guardia a suo tempo su Il Messaggero Maurizio Stirpe.

L’appello di Maurizio Stirpe: inascoltato

Cioè un industriale di lungo corso e vicepresidente nazionale proprio di Confindustria. Ed uomo simbolo di un territorio che non ha avuto le Zes per pagare dazio allo status alieno ed altero di Roma Capitale. Un magnete che fa curriculum per tutti ma che a tutti toglie risorse. Un po’ come l’Isee familiare che vieta al membro di quella stessa famiglia senza lavoro di avere i bonus solo perché il padre è pensionato di ceto medio ma lui non ha un euro in saccoccia.

Ad agosto 2023 Stirpe disse: “Con la Cassa del Mezzogiorno si era puntato troppo sulla quantità di siti e poco sulla qualità ed oggi paghiamo i danni ambientali realizzati in quell’epoca. Oggi per puntare troppo alla qualità si sta perdendo la quantità.

Poi un appello che, prima del voto che avrebbe consegnato il paese al destracentro, fu molto più che profetico: “Le istituzioni dovrebbero ascoltare di più il mondo dell’impresa”. Ed avrebbero dovuto farlo “per capire quali esigenze vengono richieste al fine di creare nuovo sviluppo e preservare quello che c’è”.

Da Frosinone al solito Fondo: da 700 milioni

Ecco, oggi, con nuovi inquilini a Palazzo Chigi, nel novero delle “esigenze” di incremento e preservazione ci sono: “La creazione del Fondo nazionale del made in Italy. Dotazione iniziale di 700 milioni nel 2023 e di altri 300 nel 2024. Compito assegnato: investire direttamente o tramite altri fondi nel capitale di Spa che hanno sede legale in Italia. I criteri di scelta sono rimandati a un successivo decreto del Mef che dovrà sciogliere anche il nodo dell’eventuale partecipazione degli investitori privati”. Un fondo: cioè quasi certamente una faccenda che chiamerà in ballo le casse previdenziali dei professionisti.

Foto: Philippe Ramakers

Ma c’è di meglio, secondo Il Foglio: “Segue un milione di euro per il Voucher 3i, utilizzabile per coprire le spese di brevettazione. Il passaggio clou però è quello che riguarda gli incentivi ai settori e alle filiere. Sono tanti e conviene metterli in fila: 1. legno per l’arredo; 2. olio di olive vergini; 3. fibre tessili naturali e provenienti da processo di riciclo. 4. moda (!); 5. nautica; 6. ceramica; 7. pane fresco e pasta; 8. terme. Definirle mance sarà anche banale ma è certo che una politica industriale non si costruisce così”.

I giovani ciociari da trattenere: pare facile…

Di certo no, né così si trattengono i giovani, che dell’industria e della produzione sono i propulsori. Stirpe era stato chiarissimo ma inascoltato. “Bisogna mantenere i giovani sul nostro territorio frenando l’emigrazione verso altri luoghi. Per questo occorre offrire loro opportunità a cui non possono rifiutare. Qui bisogna metterci la faccia tutti ad iniziare dal mondo imprenditoriale”. La “faccia” che ci sta mettendo la politica sembra rimandare però più ad un sornione ed allettante gelato, non alla possibilità di imparare a farlo e venderlo dopo che altri l’ha prodotto.

Foto © DepositPhotos.com https://it.depositphotos.com/stock-photography.html)

E lo stesso provvedimento di legge “istituisce la definizione di ‘imprese culturali e creative’, purché svolgano una delle seguenti attività. Altro prolisso elenco: ideazione, creazione, produzione, sviluppo, diffusione, promozione, conservazione, ricerca, valorizzazione di beni, attività e prodotti culturali.

Non si capisce bene dove finisca l’elenco e dove inizi lo scherzo. Iperbole? Magari… “La legge voluta da Urso definisce ‘start up innovative culturali e creative’ le imprese che rispondono alla definizione di start up e a quella di impresa culturale e creativa. Cioè, per aiutare concretamente l’industria e la produzione italiana c’è una legge che severamente definisce giallo tutto ciò che non è rosso ed ha il colore del sole. Roba da “cara affitta uno smoking ché mi vogliono a Stoccolma per il Nobel”.

Un’altra Fondazione: ovviamente

Per esse 3 milioni di euro di finanziamento, per ogni anno dal 2024 al 2033. L’Italia è per definizione il paese degli enti ad hoc. In tempo di sbandierata ripresa sono “spot imprescindibili”, in tempi di austerity diventano “inutili carrozzoni” ma il sugo è sempre quello. Noi facciamo le cose con il tono teatrante e melodrammatico che mai ci ha abbandonati da quando, non a caso, o abbiamo inventato, il melodramma. Ma la produzione è prosa, non gorgheggio, e le vie per metterla a regime serio non servirà certo la Fondazione imprese e competenze per il made in Italy.

“La sua nascita costerà 1 milione per il 2024 e 500 mila euro per il 2025 e, almeno dalle premesse, si capisce che servirà a conferire ogni anno il premio di ‘Maestro del made in Italy’.

Ricchi premi e cotillon

Carlos Tavares (Foto: Canio Romaniello / Imagoeconomica)

E tra Gran maestri, alamari, coriandoli, ricchi premi e cotillon proprio non se ne viene a capo, del legame strettissimo che dovrebbe esserci tra una politica orientata allo sviluppo e il settore che allo sviluppo è deputato e che di sviluppo ne sa.
Perché da noi devi mandare la pasta nello spazio per tacere delle tasse sull’agricoltura. Fai vedere a Linea Verde un singolo ex bancario naif che ha recuperato chissà quale antico broccolo visigoto e non fai vedere le migliaia di operatori che per coltivare rape sudano sangue erariale. E poi inforcano il trattore.

Te la prendi se Tavares parla di vacche magre ma dimentichi che nessun imprenditore gioca a perdere in una palude burocratica come la nostra. Perciò sbatti un paio di “sostenibile” e “green” in qualche codicillo e te la cavi in punta di lessico. Così il trucco è perfetto: l’elettore abbocca, il cittadino impreca ma non troppo e l’industria arranca.

Ma intanto il tuo mandato è salvo. Che salva ed in salute lo sia anche la nona economia mondiale poi magari si vedrà, ma non oggi.

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