Miele sul caso Degni, il giudice aquinate valuterà il post “partigiano”

Il Presidente Aggiunto della Corte dei Conti Tommaso Miele (Foto: Andrea Panegorossi © Imagoeconomica)

La Corte dei Conti che "ripara se stessa" e il giudice originario della provincia di Frosinone chiamato ad un compito su cui c'è chi polemizza

Per alcuni è un casino nel casino e la prova provata di una sceneggiata formale tra sodali. Per altri è la garanzia assoluta di soluzione per un caso che mette in imbarazzo de relato la politica delle opposizioni. Poi ci sono quelli, i più, per i quali l’assegnazione a Tommaso Miele del caso di Marcello Degni è una cosa basica e doverosa. Cioè lo step ufficiale per fare chiarezza sulla sanzionabilità o meno del magistrato della Corte dei Conti amante dei post social al curaro. E poco attento ad una terzietà che avrebbe dovuto imparare a tenere indossata perfino quando dorme.

La notizia cruda è che Tommaso Miele, toga contabile di rango massimo originaria di Aquino, sarà l’uomo di punta del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti che valuterà il magistrato finito nell’occhio del ciclone. Per cosa? Per un post che ormai è quasi meme con tanto di tag struscione ad Elly Schlein. Questo: “Occasione persa. C’erano le condizioni per l’ostruzionismo e l’esercizio provvisorio. Potevamo farli sbavare di rabbia sulla cosiddetta manovra blindata e gli abbiamo invece fatto recitare Marinetti”.

Toga di rango “made in Aquino”

(Foto: Andrea Panegorossi © Imagoeconomica)

Da qui partono le “notizie” di merletto, cioè quelle legate all’interpretazione politica ed analitica di una scelta che è diventata controversa su alcuni media ed in certi ambienti.

Prima però un’altra botta di empiricità. Comunque la si pensi su alcune vicende, Tommaso Miele è e resta toga di gigantesco calibro, istituzionale ed etico. Di lui si ricordano affermazioni che presero la compattezza del granito. Come quella con cui spiegò senza mezzi termini per cui la Giustizia deve mettere al centro il cittadino e non sé stessa. Quella visione non autoreferenziale e “di bottega” è lente di massimo rango. Lo è in una branca del Diritto in cui sorvegliare la contabilità delle pubbliche amministrazioni non può mai prescindere dall’analisi delle circostanze che quelle colonne di cifre le hanno partorite.

Il problema è complesso, perché molto spesso certe “zone d’ombra legalizzate” sono proprio il frutto di una scarsa chiarezza. E quella miopia normativa poi va a gravare su amministratori che sono chiamati a scegliere tra il coraggio della condotta e la paralisi della paura. Tra “paura della firma” e necessità di modificare il Codice degli appalti Miele era quindi diventato alfiere di un Diritto plastico ma non sguaiato. Diritto in cui andavano battute le “sacche di impunità per chi è chiamato a gestire le risorse pubbliche alimentate con il sacrificio dei cittadini”.

Il giudice “umano e senza alterigia”

Marcello Degni (Foto: Stefano Carofei © Imagoeconomica)

E da cui trarre memento sul fatto che “un giudice è pur sempre un essere umano e non deve giudicare con l’alterigia del migliore”. Qui la parte empirica finisce e cominciano le dolenti note. A suonare forte lo spartito ci ha pensato in esordio Luciano Capone de Il Foglio. Che ha twittato: “Marcello Degni, il magistrato della Corte dei Conti attivista di sinistra, sarà valutato dal Consiglio di presidenza per le sue dichiarazioni contro il governo Meloni. A giudicarlo ci sarà Tommaso Miele, presidente aggiunto, che insultava Matteo Renzi.

La chiave di Sol della parte analitica della vicenda sta tutta qui, ed è chiave di bronzo. In passato Miele era finito lui stesso al centro di un caso mediatico per alcuni “suoi” post non proprio teneri contro il leader di Italia Viva. A suo tempo la toga di rango spiegò che “l’account è il mio ma quei tweet non sono miei. Non è stato un hacker. L’unica cosa che posso dire è che spesso lasciavo l’iPad in giro in ufficio. E altri magari parlavano con la mia bocca: utilizzavano il mio profilo per attaccare Renzi”.

Le accuse, la difesa e il caso Renzi

Ma il fumus sul caso resta tutto. E in punto politico, sarebbe quello per cui a valutare una condotta gravata da forte irritualità sarebbe stato chiamato un “noto” ancorché presunto fautore proprio di quella condotta medesima. Un po’ come se a giudicare un amante del turpiloquio venisse chiamato Cruciani, via. E trattandosi di aspetti delicatissimi in cui il rigore della contabilità di uno Stato sarebbe stato messo a cottimo dal livore politico addirittura auspicando un esercizio finanziario provvisorio la faccenda si è fatta spinosa assai. E il gravoso incarico che toccherà al presidente aggiunto della Corte dei Conti di origini frusinati è diventato un caso nel caso.

Roba quindi che non cheta il clima, ma che semmai, in questa Italia polarizzata e dossierante, lo mette e peppiare ancor più forte. Il problema non è di merito anche il merito lo invoca. Piuttosto è legato anche alla sola memoria letteraria di quei post di cui Miele aveva ricusato la paternità. Eccone uno: “E’ tornato sulla scena il cazzaro di Rignano sull’Arno. Ancora parla. Ha la faccia come il…”.

Mancando il merito sull’attribuzione oggettiva va da sé che l’equazione giudicante-giudicato ci passi, secondo letture partigiane ma non del tutto cassabili, come farlocca in partenza.

Qual è il rischio procedurale

E lo è anche in punto di merito procedurale. Perché con questi presupposti è possibile che si inneschi un meccanismo al contrario che è la negazione del Diritto ad ogni livello. Quello per cui, un giudicante che si senta osservato speciale per pregressi omologhi a quelli del giudicato di specie, alla fine è “costretto” ad esagerare. Cioè a mettere il carico sanzionatorio da mille su quest’ultimo per sconfessare ogni lettura di possibile comparaggio. E’ un’ipotesi di scuola legata al rango professionale ed etico di chi è chiamato a sconfessarla, quindi si tiene bassa e senza sicumera sul solo valore enunciativo.

Insomma, in una questione che vede coinvolta le terzietà potrebbe mancare la sua sua madre naturale: la serenità di giudizio. Nel 2020 fu proprio Il Foglio a fare florilegio dei post attribuiti a Miele. “Italiani in futuro ricordatevi chi è Renzi: arrogante, presuntuoso, prepotente, incapace, bugiardo: che non si accosti più a Palazzo Chigi”.

Il Riformista spara a palle incatenate

La sintesi di Paolo Pandolfini su quel Riformista di cui oggi Renzi è master and commander è stata agra. Non del tutto condivisibile ma meritevole di una pacata riflessione semmai. “Con questo solido pedigree di chattatore senza freni, Miele, componente di diritto del Consiglio di presidenza della giustizia contabile, il supremo organo della magistratura contabile, sarà dunque chiamato a valutare”.

Cosa? “Se i post del collega Degni siano compatibili con lo status di un magistrato della Repubblica. O non, piuttosto, con quello di un frequentatore del bar dello Sport al terzo Campari”.

La legge, il “bar dello sport” e una certezza

(Foto: Bruno Weltmann © DepositPhotos)

L’allusione in iperbole etilica è che quel “bar” possa avere altri avventori o addirittura titolari propensi allo “sconto”. Tuttavia nelle cose partigiane che chiamano in causa il Diritto manca quasi sempre un dato cruciale.

Ed è quello per cui la Legge non conosce altra esistenza se non l’ambito della sua applicazione, anche al netto di sottili imbarazzi che la stessa a volte implica. E’ stata scritta per non flettere e per non perdere grip neanche quando le si butta sulle spalle l’abito di ossimoro velenoso.

E da questo punto di vista riporre molto più che una timida speranza nel fatto che il giudice Miele tutto questo lo sappia, lo applichi e lo viva è quanto meno legittimo, a considerarne il battage. Perché a prescindere da tutto ognuno di noi, giudici inclusi, è molto più della somma dei suoi (eventuali) errori.

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