«Guida tu Lucia’»: il giorno che ammazzarono Calvosa

L'Italia degli anni '70, le sue tensioni e gli Anni di Piombo, la storia di Giuseppe Pagliei, agente di scorta del Procuratore Fedele Calvosa. Il tragico omicidio di entrambi durante l'attentato a novembre 1978. E la commemorazione delle ore scorse

Alessio Porcu

Ad majorem Dei gloriam

«Guida tu Lucia’ che così impari subito la strada»: Giuseppe Pagliei lascia il volante della Fiat 128 blu e si accomoda sul sedile di destra. E forse tira un sospiro di sollievo, conta i giorni: quelli che mancano alla fine di quel servizio. Tira una brutta aria in Italia, i ragazzi hanno iniziato a giocare con le pistole ed a spararsi tra loro accusandosi di essere di fascisti e comunisti a seconda del fronte.

Solo l’anno prima l’allievo sottufficiale di Polizia Settimio Passamonti viene freddato da due colpi di pistola; a Torino ammazzano il presidente dell’Ordine degli Avvocati Fulvio Croce puntando a far saltare il processo al nucleo storico delle Brigate Rosse. A Milano, nel mezzo di una manifestazione, dei ragazzi tirano fuori le pistole e sparano sulla polizia uccidendo l’agente Antonio Custra.

Non è solo roba da grandi città: anche in provincia di Frosinone iniziano a sentirsi i botti delle bombe e l’odore della polvere da sparo. All’inizio dell’anno viene ammazzato a Cassino l’ex maggiore dei carabinieri Carmine De Rosa diventato responsabile della vigilanza interna alla Fiat di Piedimonte San Germano. Quei ragazzini imbottiti di ideologia si sono messi in testa di fare la rivoluzione: sparando a dirigenti d’azienda, uomini in divisa, magistrati. Chiunque rappresenti un simbolo dello Stato costituito è un bersaglio. E Giuseppe Pagliei, classe 1950 da Giuliano di Roma, la divisa la indossa da dieci anni.

Padre di due figli

Ma che ne sanno quei ragazzini di cos’è la rivoluzione? Loro la fame non l’hanno vista: molti vengono da famiglie borghesi, gente che il pranzo e la cena l’hanno sempre avuti senza problemi. Mica come Giuseppe Pagliei: lui è nato nel 1950 e quelli erano ancora anni segnati dalla fame in provincia di Frosinone. Soprattutto a Giuliano di Roma. Mica come a Cassino: lì con la storia dell’abbazia distrutta c’era stata una mobilitazione mondiale. I vincitori avevano forse anche un senso di colpa per avere ridotto in polvere senza motivo quel monumento di fede, cultura, storia che tirò su San Benedetto da Norcia. Loro lo tirarono giù e lo fecero tomba di migliaia d’innocenti che erano certi di trovare lì un rifugio.

Forse anche per questo avevano mandato tutti quei soldi per ricostruire Montecassino. “Com’era e dov’era” disse il padre abate a Giulio Andreotti. Ci lavoravano a centinaia in quella specie di fabbrica di San Benedetto: muratori, scalpellini, manovali, artisti, falegnami, stuccatori. Partivano a piedi da tutti i Comuni vicini, i più fortunati avevano la bicicletta. Lavoravano, portavano il pane a casa e mangiavano. Mica come a Frosinone, Giuliano di Roma, Patrica, Villa Santo Stefano, Alatri: lì la ricostruzione se la fecero i cittadini, aiutandosi l’uno con l’altro e scambiandosi le giornate di lavoro: oggi rialziamo casa tua, domani la sua, dopodomani la mia…

Arrivato per Giuseppe il momento di fare il soldato, in Italia cominciano i movimenti studenteschi, la ribellione. Giuseppe Pagliei decide di arruolarsi. Non militare. E nemmeno carabiniere. No, troppo pericoloso: le mamme ciociare non avrebbero mai permesso e poi si finiva lontano. Guardiacarcere, ecco. A guardare chi sta già dentro. Pericoloso si, ma il servizio si fa vicino casa. Si arruola nel 1968 Giuseppe Pagliei. E lo mandano a fare servizio nel penitenziario di Frosinone, nella parte alta del capoluogo, accanto ad una chiesa ed attaccato al Distretto Militare.

Il pretesto per morire

La Fiat 128 dell’attentato a Calvosa (Foto: Rodrigo Pais / Archivio Alma Mater)

È sveglio il ragazzo. Chi comanda capisce che è sprecato a stare su un muro a camminare avanti e dietro con una mitraglietta a tracolla o in Sezione a vigilare sulle celle. Lo passano a fare la scorta. Ad un magistrato. Al procuratore della Repubblica di Frosinone. Si chiama Fedele Calvosa e viene da Castrovillari. È un uomo tutto d’un pezzo ma disponibile, umile, alla mano. Riceveva chiunque chiedesse Giustizia. Una volta da lui andarono due vecchiette: le ricevette, le ascoltò e poi le mandò via alzando la voce. Avevano osato portargli un regalo, roba di poco conto ricavata dalla terra: lui lo rifiutò e si offese.

Uomo di equilibrio, era stato a Ceccano come pretore. Poi a Roma. E quando il Csm lo promuove a Procuratore chiede come sede Frosinone: gli piace la gente della terra di Ciociaria. A Patrica ha costruito il suo piccolo mondo. Sta in una villetta immersa nel verde della campagna a qualche chilometro dal centro. È un calabrese diventato ciociaro. Si è sposato, ha messo al mondo due figli che studiano all’università.

La pagina del Corriere sul delitto De Rosa a Cassino

Non c’è terrorismo a Frosinone. Non è come Cassino. Però l’aria comincia a farsi pesante. Ed accanto ai casi di mariti che rincasano ubriachi ed ammazzano di botte le mogli, ai furti di bestiame, alle violazione dei confini, le case tirate su in maniera abusiva dalla sera alla mattina, iniziano ad arrivare i primi casi di lotta operaia. Uno. Il primo ed unico: 19 operai di una fabbrica tessile della zona accusati di “violenza privata. In pratica? Di avere organizzato un picchettaggio con cui impedire l’ingresso in fabbrica ai colleghi.

Fedele Calvosa li convoca con quello che all’epoca si chiama mandato di comparizione. Non lo sa ma con quei 19 mandati firma un ventesimo atto: la sua condanna a morte. Perché è il pretesto per metterlo nel mirino delle Formazioni Comuniste Combattenti.

Guida tu

I rilievi dei carabinieri sul luogo dell’attentato (Foto: Rodrigo Pais / Archivio Alma Mater)

Giuseppe Pagliei capisce che la tensione sta salendo anche a Frosinone. E che la sua posizione di scorta del procuratore Calvosa lo espone ancora di più di quanto lo esponga già da sola la sua divisa.

Tira un sospiro di sollievo quando dal Ministero gli comunicano che non dovrà più guidare la macchina del procuratore. Manderanno un impiegato civile così lui potrà o tornare in ufficio. Oppure rimanere con il magistrato ma con tutt’è e due gli occhi spalancati su quello che accade ed una mano sulla Beretta. Non più gli occhi sulla strada ed il cambio meccanico della Fiat 128. Il fonogramma è chiaro: quell’otto novembre 1978 era l’ultimo giorno come autista, dall’indomani toccava a Rossi.

Quel mattino dell’otto novembre 1978 Il Pci annuncia che il compagno Enrico Berlinguer avrebbe parlato la sera in Tv, c’e aria di elezioni ed a Palazzo Chigi c’è Giulio Andreotti. L’Italia ha scoperto da pochi mesi di avere una Nazionale che può puntare ai mondiali: è appena arrivata quarta in Argentina dove ha debuttato un ragazzino di 16 anni chiamato Maradona. La radio dice tutte quelle cose mentre Giuseppe Pagliei prende il caffè, saluta la moglie ed infila la pistola nella fondina. Lei gli dice di fare attenzione lui la tranquillizza. Ora non è più da solo.

I corpi di Pagliei e Calvosa (Foto: Rodrigo Pais / Archivio Alma Mater)

Da qualche giorno c’è l’autista civile Luciano Rossi, impiegato ministeriale che dovrà presto sostituire Pagliei. “Guida tugli dice lasciandogli il volante: deve imparare il percorso di quello che pare essere un servizio di routine. Il Procuratore siede dietro. Il vecchio orologio ingiallito dal tempo segna le 8.30 quando Antonio rallenta correttamente davanti ad un incrocio per dare la precedenza prima di imboccare la Morolense. La Monti Lepini è ad un passo: non ci arriveranno mai. Il commando terrorista esce da un’auto ed inizia a sparare: uccide subito Pagliei e Calvosa, Rossi cerca di scappare a piedi ma lo ammazzano con un colpo in faccia.

Terroristi inesperti. Un colpo ferisce uno dei componenti del commando. Non si lasciano feriti, potrebbero parlare: lo abbattono con un colpo alla nuca.

La commemorazione

Il presidente della Provincia Luca Di Stefano riceve il ministro Matteo Piantedosi

A commemorare quelle sequenze di 45 anni fa oggi è intervenuto il ministro della Giustizia Matteo Piantedosi. In un’iniziativa tenuta presso l’auditorium diocesano Paolo VI di Frosinone.

Parla di “un contesto storico macchiato dal sangue di tanti, troppi innocenti” il sindaco di Frosinone Riccardo Mastrangeli. Ricorda che “Il popolo italiano nella sua stragrande maggioranza ha preso con forza le distanze da chi avrebbe voluto trascinare l’Italia fuori dal novero delle nazioni libere e democratiche. Ed è oggi quello stesso popolo, e il popolo della nostra provincia, che oggi ricorda e onora il sacrificio di Calvosa,  Pagliei e Rossi”.

Manda messaggi in codice il procuratore della Repubblica Antonio Guerriero. Ricorda che “Fedele Calvosa era un mite, un servitore dello Stato lontano dalla politica, equilibrato. Il dovere gli impose scelte dalle quali non poteva derogare. E fece il suo dovere nonostante fosse consapevole che avrebbe potuto pagare con la sua stessa vita. Come poi avvenne”.

Capiamo la giustizia quando siamo vittime di ingiustizia. Avere speranza nella giustizia significa che le istituzioni non devono superare i loro compiti” ha detto il Procuratore.    Poi, rivolgendosi alla politica ha detto “abbiate una visione lunga” riferendosi alla necessità di tutelare l’indipendenza della magistratura. “Costruiamo una Giustizia credibile – ha aggiunto il magistrato – . I magistrati devo avere una visione lontana dalla politica. Ma la politica deve capire che senza magistratura il sistema va a rotoli. Questo è il momento della coesione”.

La proiezione di Calvosa

Quello di Calvosa non è un ricordo fine a se stesso ma una nostra proiezione verso il futuro” ha detto il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. “Per me è una grande emozione anche di carattere personale. Quella di Calvosa fu un vicenda che segnò molto anche me: alcuni terroristi che parteciparono all’agguato erano della mia città, Avellino. Tanti interrogativi mi posi all’epoca e li ritroviamo nell’attualità di oggi” ha detto il ministro. 

Piantedosi ha ricordato che la sobrietà deve fare parte della magistratura: “Le cerimonie  sono un momento di analisi e di vicinanza. Però ci devono proiettare al futuro. Cosa ci hanno insegnato i fatti avvenuti qui nel 1978? La figura di Calvosa ci viene trasmessa con la propria sobrietà di magistrato. Che ebbe un’importanza notevole nel lasciare un’Italia migliore grazie al suo esempio ed ai suoi principi”.

Per Piantedosi “Calvosa dimostrò che era possibile in quegli anni il rispetto verso il prossimo e non una giustizia basata sull’autoritarismo”.

Infine il focus su Frosinone e la sua provincia. A distanza di 45 anni. “La Provincia di Frosinone è un territorio che ha suo intrinseco valore, ha una sua saldezza che si basa si presupposti della vita civile senza dimenticare il suo dinamismo imprenditoriale: continua ad essere un riferimento. Essendo un crocevia tra la Campania e Roma è comunque un luogo su cui si tiene alta l’attenzione per evitare contaminazioni. La Ciociaria rappresenta uno dei territori più importanti del sistema Paese”.

Anche grazie al sacrificio di Calvosa, Pagliei e Rossi.