Il grosso equivoco della Santanchè: “nera” fuori, azzurra dentro

La parabola politica di Daniela Santanchè conteneva già tutti i presupposti per l'inchiesta giornalistica che l'ha colpita in questi giorni

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Il “glamourismo noir” le si addice da sempre e di quello spartito là ha suonato tutti i possibili accordi. Prima Alleanza Nazionale, poi Forza Italia ché si dovrà pur campare in guaine di seta cruda sopra la testa della plebe. Poi, dopo una piccola Canossa in Pdl, sorella d’Italia ché tutto sommato quelle cose te le fa fare tutte e due insieme. Daniela Santanchè è nella bufera esattamente per questo motivo. Non perché le sue presunte azioni da imprenditrice coatta siano già pietra angolare di atti giudiziari. E neanche perché ad essere sinceri ed ove le avesse compiute sono già gravi perché deprecabili.

No, Daniela Santanchè è nei guai mediatici e politici per altro. Perché essere Daniela Santanchè e non aspettarsi robaccia di ritorno dopo averne lanciati quintali contro tutti i terzi possibili è da tonti o da ipocriti. Ma dato che lei non è affatto una tonta, se lo aspettava.

Giorgia Meloni doveva saperlo

Insomma, per dirla con Irwine Welsh, “gli antipatici devono fare meno cazzate degli altri. Perché poi quando butta male non troveranno mai la comprensione che gli serve”. E questo Giorgia Meloni doveva saperlo. O quanto meno doveva esercitare prima e meglio il diritto istituzionale di vertice, di venirlo a sapere prima che si andasse a danno.

Lo è perché in politica l’ipocrisia è sempre e da sempre boomerang. Oggi lo lanci, domani ti arriva sui denti e con gli imprenditori sono guai più grossi che con i testardi retrò. E comunque vada il danno c’è già. La ministra del Turismo non può invocare neanche l’empatia di chi sulla gogna ci è finito dopo anni di discreta appartenenza e profilo basso nel proclamarla.

Solo le aquile andine e i gruppi doom-metal hanno urlato più di lei quando c’era semplicemente da dibattere. E solo un gonzo non vedrebbe nella sua parabola politica il perfetto compimento di una cosa che in Italia sta accadendo ormai da anni. Cosa? Che la destra sociale e legalitaria ha concesso deroghe grosse alla destra sorniona e liberal. E che quest’ultima si è strusciata addosso ai “duri e puri” per questioni di numeri. Quando i voti sono iniziati ad arrivare dalla “ggente” invece che dai Ceo.

Il segreto: capire l’andazzo

Daniela Santanché (Foto: Giulia Palmigiani © Imagoeconomica)

È il “guaio” della democrazia, che pesca dove già servite ci sono più idee uguali. Non dove ve ne sia una magri buona da sviluppare, come il giornalismo Seo-friendly, via. La crasi è stata culturale prima che politica. E per gran parte il prodotto semi lavorato è Fratelli d’Italia nella sua versione poco di lotta e tutta di governo.

E’ roba ibrida ma sghemba, che non ha la bellezza dei meticciati ideologici belli e dei mix giusti. Ma che almeno per ora zoppica ogni volta che una delle due anime tenda a scegliere il passo da tenere. E la Santanchè, che non è simpaticissima ma che è molto intelligente, ha capito l’andazzo. E da “nera nera” è passata azzurra, dove si è accasata con il meglio delle sue skill meneghine e mechate. Il tutto per poi tornare al “nero maddechè” di un Partito che di sociale ormai ha solo una fronda di mezzi matti messi all’angolo perfino dai loro. Gonzi prima usati come il nos nelle auto e poi additati di essere i soli revanscisti del bigoncio. Quelli che sanno solo “guardare dietro”. Il che in turbo liberismo è peccato originale.

Per la ministra la Patria è un valore ma il fatturato è un dogma, in un universo (non tanto) parallelo dove il berlusconismo è la radice forte e il melonismo ne è il germoglio acerbo in talea. Lei non tollera i clandestini e nel farlo è sincera, ma lo è altrettanto quando si deve far retrocedere i concetti rispetto al profitto. O quando si deve lasciare il Twiga per evitare un conflitto di interessi che sarebbe dovuto essere precondizione ad escludere e non situazione da sanare e alla via così. Il suo è un vestito nero ma con quell’immancabile fodera azzurra che fa tanto moda e detta pure il modo. Un modo di vivere e concepire la politica un po’ come fine nobile, un po’ come mezzo terragno, e senza che mai l’uno prevalga sull’altro.

Il recap sull’inchiesta di Report

Daniela Santanché (Foto: Paola Onofri © Imagoeconomica)

Senza sbilanciamenti di sorta che guastino l’equalizzazione perfetta di un personaggio destinato a sopravvivere ai suoi errori, comunque vada con le sue società, con l’inchiesta di Report e con il fascicolo su Visibilia.

Editoriale Domani, in un pezzo sontuoso, ha sciorinato l’elenco delle cose non bellissime in punto etica. Cose che la trasmissione tv ha attaccato come freccette sulla schiena della Santanchè. Che sul caso nega tutto ed ha scatenato i legali. “Alti guadagni per i manager, lei ed ex consorte, e dipendenti licenziati; cene regali per chi comanda e fornitori finiti sul lastrico con buona pace del made in Italy. Un tassello dell’ideologia sovranista sacrificato sull’altare della bella vita dei padroni del vapore”.

Il cardine, senza inutili pelosità giustizialiste, è quello: la padronanza intesa non come competenza, ma come esercizio di una delega di potere. Delega che una volta trovava nella politica il suo argine e che oggi trova in tanta politica il suo compimento. Chi comanda deroga, a volte in maniera clamorosa, altre in sbavatura millimetrica. Tuttavia deroga perché a derogare è stata la regola etica prima ancora della norma. Lo fa dai principi di mutua correttezza del rapporto datore di lavoro-lavoratore, lo fa nel nome di quel “cumendismo” velato di nylon e salsedine da cala sarda e aragostelle “bynight”. Quel cesarismo danareccio che non lancia segnali, che magari non viola alcuna legge ma urla pernacchie come Sordi ne “I Vitelloni”. Una volta, tanto tempo fa, la Santanchè aveva così bisogno di una sponda legalitaria per patentarsi da integerrima che pare volesse fondare un partito con Tonino Di Pietro.

Padronanza e padroni

Ma la bella vita, che non è cosa deprecabile, e l’ombra scura di barba agricola dell’ex Pm non andavano d’accordo e la stortura morì prima di nascere. Allora erano arrivati i proclami di destra in una destra che almeno un doppio petto decente e sartoriale se lo era messo grazie al dopo Fiuggi. Nel 2008, rammenta infido Nello Trocchia su ED, ad un comizio milanese la futura ministra disse, anzi, urlò cose. “Rivendico con orgoglio di essere fascista, se fascista vuol dire cacciare a pedate nel sedere i clandestini e gli irregolari, se fascista vuol dire che la patria deve essere di chi la ama”.

Divenne megafono di una destra statalista giusto in tempo per accorgersi che Stato e liberismo isterico a volte “pomiciano” e a volte se le danno. Perciò girò la giacca double-face, verificò che fosse comunque griffata e da nera tornò azzurra. Lo fece come sottosegretaria nel governo Berlusconi silurato dal giochini Ue dello spread. Attenzione: la Santanchè è tutt’altro che l’unica ad aver cambiato idee, tessera o prospettive, in Italia il salto della quaglia è così tanto sport politico nazionale che le quaglie vere vanno a scuola in Parlamento.

Ma il suo è un caso più eclatante perché le tinte della condotta della nostra sono sempre state tinte forti, nette, sfacciate quasi. Ed il suo basculare tra due colori di una tavolozza unica non ha goduto della rassegnata sordina che si concede ai sistemi, quanto piuttosto del clamore che si dà ai loro “pasdaran” più accesi. Due colori per tenere a bada due storie e un equivoco grosso per una pasionaria con la passione per i danè, e alla fine un colore unico quando la storia è diventata una sola.

Quella di un governo che ha fatto benissimo a piangere e giubilare così tanto il Cav. Perché quelle non erano lacrime di discendenti lontani nel tempo e da esso resi saggi. Quelle erano lacrime di figli cresciuti benissimo nel mito di un Papà che ha fatto razza. Razza padrona.