Internazionale: protagonisti della settimana XLIII nel mondo

I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

UP

ROMA

Il cameo sborone ci stava tutto e birba chi non è d’accordo: quella che si è appena chiusa è stata la settimana giusta per dire che Roma e ciò che Roma simboleggia sono al centro del mondo e del mainstream internazionale. E lo sono senza che noi italiani ci si debba ingolfare col solito ritornello farlocco del “Caput mundi” a fare da esaltatore di sapidità. 

Foto: Carlo Lannutti / Imagoeconomica

Perché oggi Roma e l’Italia del mondo non sono il vertice, ma l’epicentro dialettico, lo sono per le faccende del G20 appena terminato.

E partendo dall’assunto che un G20 che vede seduti allo stesso tavolo Narendra Modi ed Angela Merkel è molto più delicato di una concione unilaterale di Traiano alle legioni che lo avrebbero applaudito anche se avesse detto che nella carbonara ci va la panna l’orgoglio ci sta tutto. 

Perché? Perché dal 1800 in poi il segreto di una faccenda ben riuscita è la capacità di mediare, non di disporre. Che poi mediare significhi anche creare una No Fly Zone in cui se un piccione rutta un Eurofighter lo nebulizza è a suo modo bello anch’esso.

Traiano non aveva bisogno di telefonare a Vladimir Putin ed assicurarsi la sua presenza almeno da remoto. Questo malgrado come interlocutori sul caso di specie ci fossero Joe Biden che lo ha chiamato assassino e Boris Johnson che gli ha spedito la Royal Fleet a fare pernacchie davanti alla Crimea.

Mario Draghi invece lo ha fatto e ci è riuscito, tenendosi moderatamente cheta perfino la versione più cannibale di sempre della Cina.

Ed anche a fare immediata ammenda da comparazioni pazzoidi il senso di quieta autorevolezza con cui oggi vediamo Roma epicentro del G20 ci fa stare benone. Perché se il G20 sia un consesso di avvoltoi o un decollo di falchi o un volteggio di colombe a dire il vero non lo sa nessuno, ma sappiamo tutti che se il G20 lo ospiti hai l’occasione per contribuire a decidere chi volerà in quel cielo. E a contare in quali cieli scrutiamo oggi non è poco.

Roma capoccia.

SCOTT MORRISON

Scott Morrison

Lo vedevano tutti come una specie di liberal grullo sperso fra koala e canguri e invece è un marpione a 24 carati. Scott Morrison sulle agenzie internazionali ci compare solo quando la “sua” Australia va in fumo per gli incendi infernali o per i lockdown innescati dal Covid. Eppure, anche a fare la tara ad un mainstream antipodista che mette quelle zone non proprio al centro delle questioni occidentali Morrison si è preso il posto più figo sul palco mondiale. 
Perché?

Perché è stato lui, da un mese a questa parte, a spingere Joe Biden e Boris Johnson ad inaugurare una nuova Alleanza Pacifica che gli portasse in dote una partita di sottomarini nucleari grossa come l’autoparco di Cristiano Ronaldo. 

Come ha fatto? Semplice: ha agitato bene in alto lo spauracchio di una Cina che del mondo è fattore chiave in ogni ambito. Poi ha fatto balenare tutto l’appeal di avere basi nucleari ad uno sputo dai mari che il naviglio mandarino solca. Lo ha fatto per fare paura e fare affari. 

E nel farlo Morrison ha fatto diventare idrofoba la Francia, antica socia in affari e padrona assoluta di quelle acque con i suoi battelli di classe “Le Triomphal” che cinturano la Polinesia. Poi ha messo lo spleen in pancia ad un’Europa speranzosa nel rinnovato vigore atlantista dell’amministrazione Biden, che invece ha dribblato la Nato e si è fatta un club tutto suo con i brexer britannici e i cugini del Commonwealth

Ma Morrison ha fatto di più: perorando come un matto per quella “cosa a tre” ha gettato le basi per un balzo in avanti dell’industria cantieristica militare australiana, per il lavoro e per il credito politico che dalla sua creazione discende, un balzo mannaro che canguri miei scansatevi.

La Cina ha protestato perché non vuole sentirsi come l’America con Cuba, l’Europa ha protestato perché si sente come la ex reginetta della classe spodestata dalla new entry figa e la Francia ha protestato perché ha perso miliardi e territorio di caccia. 

Tutti a protestare contro lui, Scott il liberal, quello che da giovane faceva gli spot pubblicitari e che oggi ha studiato il copione talmente bene da essere passato da comparsa e regista.

Canguro atomico.

DOWN

BIJOY BANIA

Bijoy Bania

Dagli embedded fino ai foto reporter indipendenti, c’è una regola universale che riguarda gli addetti all’informazione che operano in zone di guerra o di forte tensione sociale: lì ci si sta come i documentaristi in mezzo al pasto dei leoni. Cioè? Non si interviene se non in casi limite.

Casi come il rischio per la propria incolumità o la possibilità di salvare una vita invece di documentarne la dipartita. 

Insomma, chi racconta e in certi posti deve starci non fa mai massa critica con gli orrori che quei posti fomentano e significano. 

O non dovrebbe farla, perché poi ci sono i tipi come il fotografo Bijoy Bania, che è stato formalmente incriminato per quello che ha fatto un mese fa nel distretto di Darrang, che è in Assam, che è in India, che è terra bipolare di scontri fra indù e musulmani. 

Proprio in occasione di una campagna di sgombero nella zona Sipajhar, un blitz operato dalla polizia su input del bellicoso Partito di destra ultra nazionalista Bjp, Bania ha dato il peggio di sé. Sta tutto in 72 secondi di video che avevano fatto il giro del mondo: durante lo sgombero che è costato la casa e una manica di randellate a circa 1000 famiglie musulmane un uomo aveva abbozzato una protesta. Si chiamava Moinul Haque ed era un contadino di 33 anni. 

Era” perché, come documenta il video, appena i poliziotti lo avevano visto correre verso di loro con un bastone avevano riposto i taser e messo mano al piombo, stendendolo nel sanguinaccio della melma in mezzo alla risaia che l’uomo stava difendendo. Ecco, Bania era entrato in azione in quel momento. 

Fotografando un’uccisione ingiustificata? No, saltando egli stesso addosso all’uomo ancora morente con la coccarda rossa del sangue spillato dai colpi ben visibile in petto e iniziando a prenderlo a calci ed a calpestarlo. E il video è implacabile ed inequivocabile: l’uomo era praticamente morto sotto gli occhi del fotografo che continuava a prenderlo a calci e solo l’intervento di un poliziotto lo aveva fatto desistere da quell’accanimento agghiacciante. 

Bania, che era stato assoldato dal governatorato locale per documentare lo sgombero, era stato arrestato dopo la diffusione del video su Twitter ed era partita un’imbarazzata inchiesta sul suo compenso e sul suo ruolo da reporter. Inchiesta che è culminata con la sua formale incriminazione per omicidio notificatagli in queste ore.

Il sovrintendente della polizia di Darrang, Susanta Biswa Sarma, ha dichiarato a The Indian Express che in quelle tragiche circostanze i suoi uomini “hanno fatto quello che dovevano fare“. 

Tuttavia alla domanda se anche Bania avesse semplicemente fatto il suo dovere e soprattutto se avesse agito su input della polizia ha fatto rotolare dalla bocca un ipocrita “no comment“. Perché quando perfino chi racconta gli orrori degli orrori diventa attore c’è da farsi una domanda e girarla subito a chi potrebbe avere la risposta, e se risposta non c’è allora la riposta è arrivata, ed è una riposta che fa schifo.

Obiettivo macellaio.

WANG YI

Wang Yi (Foto: Kleinschmidt / MSC)

Prima di essere nominato ministro degli Esteri della Cina Wang Yi è stato direttore dell’Ufficio Affari di Taiwan, forse uno degli spot più attivi, cruciali e meno conosciuti dei servizi nella infinita galassia delle barbe finte planetarie. E proprio per questo Yi è uno che conosce benissimo il linguaggio a doppia cifra dei marpioni pericolosi.

Sarebbe quella particolare forma di comunicazione con cui si dice una cosa e si sottintende sempre il peggio del peggio che quella cosa potrebbe innescare. 

Insomma, Wang Yi, che lombrosianamente ha l’occhio della mangusta, è un minacciatore seriale, patentato e spaventosamente efficace. Quando perciò su Associated Press il nostro ha avvisato gli Stati Uniti che il deterioramento dei rapporti tra Pechino e Washington potrebbe minare gli sforzi per combattere il riscaldamento globale e il cambiamento climatico non ha parlato a caso.

Spieghiamola ché si è appena usciti dal G20 e ci si è immersi nella COP26: le prime avvisaglie della linea “ancor più bulla” di Pechino si erano avute con l’incontro fra Wang e il delegato Usa per il clima John Kerry. Nel frattempo Joe Biden, che a tempismo è imbattibile, se ne era uscito bullo ed aveva chiaramente detto che gli Usa avrebbero difeso Taiwan dal fiato del Dragone.

Il titolare degli Esteri aveva messo in piedi un piccolo capolavoro malevolo di comunicazione, asserendo segaligno che “la cooperazione per il clima non può essere separata da un contesto generale più ampio“. Che significa? Che la nuova linea muscolare dell’amministrazione Biden in antitesi alla linea filocinese di Trump è stata notata ed è piaciuta pochissimo. Poi, sornione e parabolante, Wang l’ha buttata in metafora, asserendo che gli sforzi congiunti delle due parti sul cambiamento climatico sono da immaginarsi come una accogliente “oasi”. 

E infido ha calato il daimon: “Ma intorno all’oasi c’è un deserto e anche quell’oasi potrebbe essere desertificata molto presto“. La chiosa è stata a metà fra l’invito e l’ultimatum: “La cooperazione sul clima non può essere sostenuta senza un miglioramento delle relazioni bilaterali, perciò gli Usa smettano di considerare la Cina una minaccia e un rivale e di arginare il suo sviluppo in tutto il mondo“. 

Tradotto dal serpentese: “Vuoi la stretta di mano sul clima planetario? Bene, muto allora su quello che del pianeta io mi prendo“.

Il prezzo del green.