Internazionale: protagonisti della settimana XLII nel mondo

I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

I protagonisti della settimana sulle pagine degli Esteri. Per capire meglio cosa accade nel mondo

UP

NICOLAS DE RIVIERE

Meriterebbe un monumento solo per il piglio con cui ha cazziato i membri del consiglio di Sicurezza dell’Onu e per il merito che nelle pieghe di quel piglio ha infilato. E il merito è: è in atto un’escalation clamorosa e burbera fra le due Coree e la sola cosa che sa fare l’Onu è votare ferme quanto gelatinose risoluzioni di condanna, reprimende mirate sui singoli Paesi ma senza guardare il quadro d’insieme.

Foto: Mylaèle Negga

Ma cosa sarebbe successo? Nulla, a parte un missile nucleare nuovo di pacca testato dalla Corea del Nord il giorno stesso in cui la Corea del Sud testava un missile balistico nuovissimo di pacca. L’unica differenza fra i due Paesi, nucleare a parte, è che a Pyongyang hanno lanciato un missile brandeggiabile da un convoglio ferroviario, mentre a Seoul hanno lanciato un missile eiettabile dai sottomarini.

E Nicolas De Riviere, ambasciatore francese all’ONU, ha dato il quadro d’insieme: “Si tratta di una grande minaccia bilaterale – ha detto – una minaccia che viola chiaramente tutte le risoluzioni del Consiglio, anche perché nel caso della Corea del Nord l’ogiva tester scarica è caduta all’interno della zona economica esclusiva del Giappone, mentre nel caso della Corea del Sud la stessa è stata lanciata prima della ufficializzazione del nuovo programma di riarmo, che è soggetto a vaglio Onu”.

Poi l’affondo finale: “Possibile che nessuno si accorga che due Paesi divisi solo da una linea di parallelo si stanno riarmando come mai prima?“. Insomma, il sunto è che nel gioco a chi ce l’ha più lungo e nella distrazione generale indotta dalla pandemia e dalle faccende mainstream in Afghanistan il potere-dovere dell’Occidente di calmierare il pentolone degli stati bipolari sta cedendo terreno. E proprio nel caso delle due Coree la distrazione potrebbe risultare fatale.

Perché lo ha detto proprio un francese? Perché a differenza di potenze sburone come Gran Bretagna e Russia, a cui entro certi limiti piace far sapere che la loro argenteria buona solca i flutti dei mari, la Francia ha un sottomarino nucleare di classe Le Triomphant nelle acque al largo della Corea da ormai un anno. Solo che non lo usa come il piercing ostentato dei tamarri, ma come discreta sentinella per vedere se in qualche parte del mondo sale la febbre. E adesso il dottor De Riviere ha dato la diagnosi ai parenti scemi del malato e ha detto basta con gli impacchi: è ora della penicillina.

Cassandra e Grandeur.

L’ONU

La sede delle Nazioni Unite a Ginevra. Foto: Tom Page / Flickr

Essere albini nel mondo occidentale significa solo avere problemi con la radiazione solare e con qualche cretino imbottito di droga e vino nel parchetto sotto casa. Essere albini in Africa significa rischiare la morte, la mutilazione o nella migliore delle ipotesi una vita di mortificazioni e di scherni. E in Africa, dati dell’Oms alla mano, il rapporto fra popolazione “normo-pigmentata” e popolazione affetta da albinismo è molto più contratto. In Tanzania ad esempio, c’è una persona albina ogni 1480 persone con pigmentazione regolare, nel resto del mondo la media è di una persona ogni 22mila.

E il problema vero è che dove il rivolo della genetica scava nicchie di singolarità lì arriva la piena della “cultura” che perseguita quella singolarità stessa. E’ una cultura che maschera il suo cinismo con la cipria ipocrita della tradizione; da noi ne sanno qualcosa i gatti neri e, per converso etico, la povera Joy Ehikioya, che per laurearsi è dovuta fuggire dalla Nigeria e venire a Trento.

In quasi tutta l’Africa, a voler comprendere le migliaia di declinazioni etnico-culturali, l’albinismo è considerato sintomo certo di affiliazione con la stregoneria nera e con il mondo del male. I Samburu del Kenya chiamano gli albini “zeru zeru”, cioè spiriti, mentre i Kikhuyu li definiscono “ndege”, uccelli da carogna. I Bantu del sud li chiamano “fisi”, iene, e le popolazioni Ovambo danno patenti specifiche ai “sangon”, ai loro stregoni, per perseguitarli.

Perseguitarli come? Li mutilano delle gambe sotto al ginocchio e/o degli organi sessuali, li abbruciano, li ammazzano a colpi di “panga”, lo spaventoso machete africano. In Ruanda, quando il Paese esplose in una immensa bolla di sangue, i Tutsi affetti da albinismo venivano accecati dei loro occhi rossi e lasciati a marcire nei “boma” di spine con la testa avvolta da uno stomaco di capra cucitole intorno, ancora vivi ma legati.

Ragazza affetta da albinismo a Papua Nuova Guinea

Insomma, c’è un’Africa primordiale che ancora oggi, nel 2021 d.C., paga pegno alle sue credenze barbare e che nel nome delle stesse ammazza più di quanto non ci dicano le distratte cronache internazionali mainstream. Nel 2019 (fonte East African) i morti ammazzati perché albini, o storpi o affetti da sindromi comportamentali sono stati censiti in oltre diecimila. E gli autori perseguitati in punto di diritto? Trecento.

Arriva come una boccata di ossigeno perciò la risoluzione che l’Onu ha preso contro quelle atrocità impunite.

Il documento, approvato senza bisogno di votazione e messo a mozione dal Kenya e dai 54 stati membri dell’Africa Group, prevede la formazione di un team di censimento ed eradicazione delle credenze popolari, che avrà il supporto di una App elaborata dalla Lancaster University. Il presupposto etico è l’insindacabilità del diritto alla vita, orgogliosamente e vigorosamente affermata oltre le specificità culturali dei popoli, quello operativo è la “mappatura” delle zone dell’Africa più a rischio.

Il tutto con interventi di squadre che opereranno su due piani e purtroppo su un range temporale lungo: quello della modifica culturale delle pessime abitudini dell’Africa rurale e quello della denuncia alle polizie dei reati già commessi e censiti. Perché in un mondo dove chi è troppo nero rischia la pelle in America e chi è troppo bianco la rischia in Africa bisogna smettere di guardare e mettere ordine. Subito.

Non uccidete la colomba bianca.

DOWN

PUL-E-CARKHI

Foto: Shawn Graham

Un carcere è posto bruttissimo perfino quando lo Stato che lo governa gli assegna un ruolo di recupero alla società. Figuriamoci poi se è un carcere a cui chi comanda dà il compito di resettare semplicemente la vita di chi ci entra. Ecco, Pul-E-Carkhi appartiene alla seconda categoria ed è sommatoria di altre, poco invidiabili skill.

Stiamo parlando della principale prigione di Kabul (presente Kabul o già è passata?), prigione che una volta era piena di talebani incarcerati con gli afghani legittimisti a fare i carcerieri ed oggi è piena di afghani legittimisti carcerati con i talebani che fanno i carcerieri. Talebani che sono diventati secondini dopo aver visto il lato di quelle celle buie da cui, con gli zigomi sfasciati dalle bastonate, si riceve la gamella col brodo di ratto.

A dirla tutta il nuovo ordine in Afghanistan ha solo invertito i termini ma non ha alterato la polarità malefica del luogo. Racconta Al Jazeera che una settimana fa un comandate talebano giunto in ispezione al carcere ha spiegato al suo codazzo di ceffi che lui era stato in prigione proprio lì per 12 anni ed ha perfino indicato la cella in cui era detenuto, poi è entrato dentro e ha brutalizzato con la canna dell’AK il poliziotto che la occupava da detenuto.

Dopo la presa “soft” di Kabul, gli studenti coranici ormai fuori corso hanno liberato tutti i detenuti mentre le guardie del governo scappavano ed oggi c’è un non ben definito “comitato” che gestisce la struttura. Pul-e-Charkhi ha una inquietante storia di violenza, di esecuzioni di massa e di torture. 15 anni fa lì vennero scoperte fosse comuni e celle di tortura, alcune addirittura risalenti ai governi sostenuti dai sovietici della fine degli anni ’70 e degli anni ’80.

Sotto il governo sostenuto dagli Usa poi il posto era sovraffollatissimo: i suoi 11 blocchi di celle possono ospitare 5.000 detenuti ma il numero medio degli stessi negli anni ruggenti del governo “legittimo” non era mai sceso sotto i 12mila, tipo noi insomma. E il problema è esattamente quello: che chiunque tenga alla cintola le chiavi di quelle celle in quei corridoi ci porta a spasso l’odio delle società che non sanno più scattare in avanti sul sentiero della morale.

Un secondino è per sempre.

WHOOPI GOLDBERG

Whoopi Goldberg. Foto: Stand Up for Rainforest Action Network

In Sister Act del 1992 si fingeva una suora per sfuggire alla vendetta di Vince che faceva affari loschi. Nella realtà autunnale del 2021 deve fingersi contenta malgrado una citazione in giudizio da 50 milioni di dollari per affari loschissimi che avrebbe condotto lei. Decisamente la vita della pluripremiata e bravissima Woopi Goldberg non manca di sale. E il sale stavolta non le viene né dal cinema, men che mai dal gossip dello showbiz, ma dal bancale di danè che una società, la Prism Capital Partners, esige dalla sua Woopi Inc.

Spieghiamola potabile: nel 2006 l’amministrazione del New Jersey promuove un progetto di riqualificazione del centro della città di West Orange e sceglie la Prism Capital come società affidataria del servizio. Il progetto prevedeva la riqualificazione della superficie di 21 acri su Main Street nella periferia della contea di Essex e di “rinnovare lo storico Thomas Edison Battery Building e i terreni circostanti con migliaia di piedi quadrati di spazi commerciali e centinaia di unità abitative“. Chi lo dice? Un’inchiesta tignosissima e magistrale del portale New Jersey Patch.

Ad un certo punto però e senza apparente motivo alla Prism viene revocato l’appalto e la cosa muore, in operatività e in sessappiglio mainstream. Flashback, dissolvenza ed arriviamo all’anno scorso, quando all’improvviso la stessa amministrazione assegna d’ufficio quegli stessi lavori ormai vecchi come il cucco anche in protocollo operativo ad un gruppo di società.

Durante la pandemia infatti i coefficienti immobiliari di quel settore sono saliti alle stelle e l’affare ha ripreso birra. E chi ti spunta fra le società affidatarie? Proprio la Woopi Inc, che a suo tempo venne già accusata dalla Prism di aver “complottato per far cacciare il primo esecutore dei lavori”.

Pare, ma sarà il processo a stabilirlo, che all’epoca l’appeal hollywoodiano dell’attrice su alcuni dirigenti pubblici abbia avuto un ruolo determinante nel far cadere la Prism in disgrazia, nel dimenticatoio e fuori dai coefficienti dell’opera. E in questi giorni alla Goldberg, che della Woopi Inc. è amministratrice, è arrivata una cambialona da cinquanta testoni con annessa citazione in giudizio. E dalla citazione in giudizio alle citazioni filmografiche il passo è breve: insomma, dal Colore Viola al Colore Verde dei dollari Woopi ci ha messo poco a virare, e stavolta la sua popolarità rischia davvero di diventare… un Ghost.

Sorella in chiesa, badessa in comune.