La manovra ed i Partiti alle prese con la “coperta corta”

La manovra sarà un bagno di realtà per il Governo. Giorgetti ha già detto basta alle chiacchiere estive e messo in chiaro che si dovranno fare rinunce. In un quadro che ricorda tanto quello nel Comune di Frosinone

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Quello della sintesi politica è un concetto che resta bello e tondo fin quando lo enunci. Tuttavia quando provi a praticarlo nel concreto da una posizione di comando allora sono per lo più dolori. Lo sono perché in un contesto collegiale (a più Partiti per intenderci) trovare la quadra è la faccenda più maledetta del mondo.

Ne sa qualcosa Riccardo Mastrangeli a Frosinone, che per equalizzare gli atavici dissapori in Comune tra Fratelli d’Italia e Lega ha dovuto fare mirabilia. A livello provinciale i deputati Nicola Ottaviani (Lega) e Massimo Ruspandini (FdI) non ci stanno a fare massa critica e comune su moltissimi temi.

Non è un problema di antipatia né di differente visione: è un problema di leadership. O se preferite, lo scontro per chi tiene il timone. Si spiega così la divisione dei due Partiti alle scorse Provinciali di Frosinone, si spiega così la differente strategia per la designazione del presidente della società pubblica Saf, si spiegano così le attuali divergenze sulla designazione del candidato sindaco di Cassino.

E quando quel mood guardingo approda nelle stanze di governo la cosa diventa difficile da gestire.

Come a Frosinone ma a Roma: cioè più grande

Giorgia Meloni

A quel punto ci sono solo due strade propositive: o creare il mastice che tenga uniti i labbri della ferita o cercare soccorso in altre parrocchie nel caso le cose vadano malemale. Ecco, Giorgia Meloni si trova in una situazione omologa ma gigantessa rispetto alla prima per forza di cose evidentissime. La premier è, appunto, premier di una Nazione e deve fare i conti con molto più di roba come il Bus Rapid Transit che sta facendo fibrillare il cuore della maggioranza ciociara.

Perciò e nell’imminenza della ripresa a tutto tondo dell’attività politica la presidente del Consiglio ha deciso di tirare le somme. E come ogni diligente seguace dell’aritmetica che si rispetti, prima ancora ha deciso di mettere in colonna gli addendi. In quello specifico caso i conti non sono solo metafora figa, a contare che in ballo ci sono due snodi cruciali: la manovra economica e la “coperta corta” per attuarla.

La Meloni è come quei capi indiani che lottano come ossessi contro un nemico più forte e contro i nativi arruolati come guide: da un lato c’è lei che è espressione di un singolo Partito ma somma di istanze plurime. Dall’altro ci sono i singoli Partiti, incluso il suo, che in vista delle Europee cercano di infilare in manovra quanta più roba possibile tra i desiderata delle segreterie. Per fare cassa al voto e per aumentare il peso specifico negli equilibri di governo.

Pochi “sghei” e tante richieste: come la mettiamo?

Giancarlo Giorgetti

Governo che però non ha uno sgheo di più di quanto non serva a fare una manovra si e no dignitosa. Niente lista della spesa dunque e birba chi esagera, con Giancarlo Giorgetti molosso come non mai nel tenere i cordoni della borsa.

Efficacissimo come mai prima, il ministro ha messo in chiaro la situazione: «Chiacchiere come nel calcio d’agosto. Andranno fatte delle rinunce». Cioè i soldi non ci sono, non si potrà fare tutto ciò che è stato promesso. Ci sono scelte del passato recente che si sono rivelate un disastro: il Reddito di Cittadinanza ha fatto camminare i consumi ma non ha prodotto ricchezza; se quei soldi fossero stati usati per azzerare le tasse sui nuovi assunti oggi ci sarebbero migliaia di nuovi posti con gente che produce; il bonus edilizia fatto in quel modo ha solo ottenuto l’effetto di far lievitare a dismisura i costi delle materie prime. Il problema non è solo di ordine pratico.

Il problema è politico, più che organico all’Esecutivo e Meloni lo sa, perciò ha issato una dead-line al 4 settembre. Per paradosso non proprio beneaugurante il 4 settembre del 1886 un capo indiano vero, Geronimo, alla fine si arrese al generale Miles dopo aver fatto vedere i sorci verdi per 28 anni all’esercito Usa.

Tagliare ma dove: e soprattutto a chi

Giorgia Meloni con il Consiglio dei Ministri

La faccenda va inquadrata bene e Meloni deve equalizzare due grandi blocchi concettuali. Le singole istanze dei Partiti con la linea di governo. E deve farlo con 25-30 miliardi di ‘budget’ parte dei quali è già messa su binari di spendita obbligati. Più o meno 9 miliardi infatti sono destinati alla proroga del taglio al cuneo fiscale e sul ritorno dei paletti del Patto di stabilità dopo le freezone del lungo periodo Covid.

Poca roba e già mezza assegnata, insomma. E soprattutto roba che non consente una manovra politicamente identitaria.

Come una sorta di diskjokey la premier dovrà equalizzare queste istanze con le risorse per attuarle. Ed equalizzare non significa solo mettere a regime, ma anche tagliare. Cioè togliere ossigeno pubblicistico ai partiti che mai come adesso ne hanno bisogno per allargare il loro plafond elettorale in vista del 2024. E c’è un problema nel problema: la Meloni non è immune da questa sub-directory partitica perché essa stessa è (anche) leader di un Partito.

Il Partito di maggioranza della maggioranza alla guida della cui segretarie politica non a caso ha messo sua sorella, cioè una giannizzera fidata in una caserma con troppi colonnelli e poca truppa; una iscritta al Partito dall’età di 17 anni, con alle spalle 31 anni di militanza, molti dei quali trascorsi in quel precariato che è l’attività di organizzazione per la Politica. È per questo che conosce benissimo tutto, tutti e tutti i fatti.

Le parole oltre i fatti

Giovanbattista Fazzolari (Foto: Alessia Mastropietro © Imagoeconomica)

Faccenda complicata quindi, alla quale Meloni ha messo anche una seconda toppa. Per migliorare la comunicazione tra Palazzo Chigi e Parlamento, roba carentissima, ha scelto un uomo in particolare.

E’ Giovan Battista Fazzolari. Il suo sarà un compito difficile perché in particolare quello che gli toccherà oliare sarà il canale tra palazzo Chigi e Via della Scrofa, cioè tra lei come premier e lei come leader politica. Quella linea con due terminal di fiducia, Arianna-Fazzolari, dovrebbe garantirle in teoria maggior fluidità di azione. Il che ha fatto urtare non poco l’area di Fabio Rampelli che teme l’isolamento progressivo in una riserva, per allargare sempre più l’area fatta di destra europea e sempre meno di destra nostalgica.

Intanto e per il 4 settembre Giorgia Meloni ha dato appuntamento ai capigruppo di maggioranza e ai due vicepremier Matteo Salvini e Antonio Tajani. Ci sono tanti e tali di quei dossier che, anche a considerare una saldezza di fondo del Governo, il rischio è che si faccia notte e senza sintesi garantite.

L’esempio: autonomia sì, ma anche “ni”

Giorgia Meloni con Matteo Salvini

Un esempio per tornare alla dicotomia Lega-Fdi? Salvini e Calderoli vogliono, fortissimamente vogliono, l’autonomia regionale, ma Fratelli d’Italia la considera una “tafazzata”. Non è questione di principio ma di bacini elettorali: il Carroccio ha i voti per lo più al Nord, dove la riforma è vista come la cura. FdI prende voti soprattutto al Centro Sud, dove la riforma è vista come la malattia. E non è finita: il “blitz” di Meloni sulla tassazione agli exraprofitti della banche è una cambiale in sospeso che i Partiti vogliono incassare.

La premier se ne è intestata la maternità e Salvini è andato a traino, ma nelle segreterie c’è un movimento trasversale che di quella “scoppola” avrebbe fatto volentieri a meno. In un Paese dove politica ed economia viaggiano a braccetto ormai da decenni lo hanno imparato tutti, che toccare le banche significa giocare col fuoco.

Il primo effetto pratico di quella scelta è stata l’irritazione degli eredi Berlusconi. Che non hanno ancora escluso la possibilità di scendere in campo come fece papà Silvio. Colpire le banche significa colpire la cassaforte di famiglia Mediolanum. Per questo Forza Italia lavora a quattro emendamenti per modificare la tassa sugli extra profitti. Antonio Tajani punta ad escludere dalla nuova imposta i rendimenti dei titoli di Stato e le piccole banche, fare in modo che sia un una tantum non replicabile, renderla deducibile.

Renzi “ha la scusa” ma sono tutti filo-banche

Matteo Renzi (Foto: Sara Minelli © Imagoeconomica)

E di questa scuola di pensiero Matteo Renzi è un po’ il totem più visibile, il “parafulmine”, in un certo senso, ma non è affatto il solo. Il Def è quindi ancora uno scoglio, più che un traguardo, con il Mef di Giorgetti a fare guardiania e la politica in purezza che fa come i lupi che scavano sotto il recinto per addentare qualcosa. Il primo Consiglio dei Ministri dopo la pausa estiva servirà in un certo senso a prendere le misura non tanti ai rapporti di forza nel governo, quelli sono già noti e squadernati sul tavolo.

No, il Cdm servirà a capire con quanta intensità e su cosa si dovrà andare a discutere il 4 settembre. Anche perché non mancano i temi accessori: l’emergenza migranti, Pnrr, e delle riforme. Definiamo “accessori”: sono temi cruciali ma hanno il dono di avere una omologazione preventiva su quasi tutte le frequenze dei Partiti di maggioranza. Perciò verranno usati come “grimaldello” per far emergere le vere divergenze, quelle di cassa e di segreteria.

Si proverà a marciare uniti insomma, tutti. Cioè tre Partiti con rapporti di forza squilibrati, tre appetiti elettorali differenti, un governo, due Camere e una manica di scontenti col sorriso di circostanza di chi vuole un pezzo di scalpo.

Miseria e Nobiltà: gli spaghetti sotto il tavolo

Con il piatto che piange e i commensali che sbavano la situazione è molto simile alla iconica scena di Miseria e Nobilità, nella versione cinematografica con Totò. Qualcuno vuole sbafarsi di spaghetti sotto il tavolo ma la musica è quella di una forchettata a ciascuno.

Senza troppi spaghetti in tasca però. Senza esagerare, con la giusta musica in “adagio”. E con Meloni alla consolle: una mano sull’equalizzatore ed un’altra sulla sua tessera. Cercando di capire quale sia la mano giusta.