La nebbia per coprire i soldati e il vento per fare eroi: a Montelungo

Ottanta anni fa, nel dicembre 1943, le forze italiane combatterono strenuamente contro le truppe tedesche nella Battaglia di Montelungo. Segnò un importante riscatto morale e militare per l'Italia durante la Seconda Guerra Mondiale

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Chiunque conosca, perché ci vive o per vulgata, la parte in cui la Bassa Valle del Liri si raccorda alla Valle del Volturno sa due cose. Che quelle sono le terre di confine tra Lazio e Campania, segnatamente tra Cassinate e Casertano. Poi che lì c’è sempre vento. Vento forte, teso, sparato addosso ai paesi dalla “canna di fucile” della stretta delle Mainarde. Un budello che lo lascia passare dalle rotte balcanico-adriatiche dopo che scorre lungo l’Appennino. E che ne amplifica la forza per compressione tra le pareti di roccia. Alzi la mano chi è di queste parti e non ha mai sentito Isoradio declinare rassegnata: “Vento forte tra San Vittore e Caianello”.

Ecco, 80 anni fa fu proprio quel vento che consegnò alla Storia i primi eroi italiani che, dopo Cassibile e il “tutti a casa”, combatterono contro gli ex alleati tedeschi. E facendolo morirono. Vincenzo Dapino, generale comandante di quella unità costituita in fretta e furia il 28 settembre, ebbe parole roboanti. E descrisse il suo I Raggruppamento Motorizzato così: “La prima grande unità celere dell’Esercito Italiano alla riscossa. Chiamata ad operare per ricacciare dal suolo della Patria le tracotanti truppe germaniche”.

I riscatto morale dei “cobelligeranti”

Il generale Vincenzo D’Apino a Monte Lungo nel periodo 8-16 dicembre 1943

Da quelle parole colava via tutta la retorica patriottarda di ciò che all’improvviso era diventato nemico, ma anche qualcos’altro. Il bisogno sincero di un riscatto morale e militare che sarebbe arrivato. Tragicamente e dopo 10 giorni di una delle battaglie più furiose e macellaie della Campagna d’Italia. A cimento per Montelungo erano stati chiamati soldati raccattati dalle caserme di addestramento, o già sganciatisi dalle unità originarie dopo l’8 settembre.

La massa finale fu somma di queste unità: il 67° Reggimento Fanteria, il LI Battaglione Bersaglieri e l’11° Reggimento Artiglieria. Con essi altre unità divisionali alle dipendenze della V Armata americana tra cui due reggimenti di fanteria Usa, il 142mo ed il 143mo. Fra essi anche la First Special Service Force, i diavoli neri americano-canadesi. Incursori addestrati appositamente tra i taglialegna per ingaggiare i nemici nel corpo a corpo con un pugnale fatto apposta per loro.

Lo scopo dei nostri era sfondare la Winter Line che faceva da barriera compensativa e di ritardo strategico per la linea Gustav, quella che aveva in Montecassino il suo caposaldo. E con quell’azione assicurarsi il controllo di Casilina e linea ferrata scardinando la stretta di Montelungo.

Ma quella non era solo una stretta, quello era un immenso poligono con un punto di fuoco terminale talmente stretto che a sparare nel mucchio si sarebbero fatti morti a centinaia anche ad essere miopi. E i tedeschi della Panzergrenadier Division tutto erano meno che orbi. Le alture sovrastanti e che facevano bordone alla collina erano punti di tiro ideali: monte Sammucro, che guatava gli abitati di San Pietro Infine e San Vittore. Poi monte Maggiore.

Due terrazze per il tiro al piccione

Mignano Montelungo (Foto © AG IchnusaPapers)

Era come se ci fossero delle immense terrazze affacciate su una linea di transito larga meno di due chilometri al cui centro campeggiava la collina di Montelungo, a sua volta munita. All’alba del 7 dicembre 1943 i soldati avanzarono, coperti dalla nebbia. Dopo essersi incolonnati a Presenzano, i reparti smontarono dagli automezzi ed iniziarono a procedere fin quasi sulle prime balze di quella enorme pietraia che era la collina. Il tutto mentre l’artiglieria iniziava a coprire il chilometro in avanti. All’improvviso e come qui accade non meno di 200 giorni l’anno, il vento. Soffiò teso ed improvviso, dissolse la nebbia a sbuffi e scatti.

Ed offrì ai difensori tedeschi lo spettacolo nitido di centinaia di fanti italiani che a capo chino si avviavano a salire il primo gradone. Fu un macello, incentivato dal fatto che le cime laterali non erano state ancora prese e che da esse il tiro di mortaio e di obici da 88 fu micidiale e facile, quasi da principianti. A pagare più di tutti furono i giovanissimi bersaglieri del LI che coprivano il fianco sinistro, quello più esposto perché in gradiente di tiro incrociato tra le cime indietro e quella di Montelungo. Cogliere il nemico d’infilata è un termine gergale che rende poco l’idea di quello che succede in quei casi.

Significa che ogni colpo ha praticamente sempre un obiettivo assicurato perché la linea di fuoco e quella su cui il fuoco arriva sono perpendicolari o tendenti al parallelo, come un angolo a 90° che si chiude a compasso. E quando la linea di fuoco è di artiglieria accadono cose che è meglio non vedere mai: corpi che saltano in aria a due-tre, membra che volano staccate. Ed onde d’urto che da sole fanno schizzar via elmetti e teste anche a 10 metri dal punto di impatto.

Si sale lanciando bombe a mano

Il sacrario di Mignano Montelungo (Foto © AG IchnusaPapers)

I soldati del 67mo “Legnanoed i bersaglieri sopravvissuti si fecero largo a suon di bombe a mano. Per i primi valeva il decalogo di Papà Lamarmora, quello che invita alla “ginnastica fino alla frenesia”. Per i secondi il motto “E vincere bisogna”. Un contrattacco tedesco però li ributtò giù. Fermiano solo un attimo la scena. A Montelungo non ci fu nulla di retorico e quell’episodio non ebbe alcun orpello di “appalto scenografico” per un’Italia che si riscattava dalle vecchie alleanze. E che aveva bisogno di un epos forte da cui ripartire. No, a Montelungo le cose andarono esattamente così e quelli che vi combatterono e morirono picchiarono davvero come forsennati.

Tanto forsennati furono che dopo i primi 4 giorni di battaglia ci furono istanze di comando centrale a desistere. Ma quelli di Montelungo se l’erano legata al dito, la prima rintuzzata “crucca”. E ci riprovarono, stavolta con il saliente sempre più coperto perché nel frattempo le alture circostanti venivano conquistate quota per quota. Ad un certo punto di creò una situazione paradossale, per cui Montelungo e Monte Maggiore vedevano i tedeschi in difficoltà ma con gli stessi che tenevano duro nel vicino San Pietro Infine.

Una porta aperta, ma solo a metà

(Foto © AG IchnusaPapers)

La porta era mezza aperta ma il cardine resisteva. Uno specialista come Fabrizio Carloni spiega in ordine ad armamento ed equipaggiamento italiano che esso era “quello standard del Regio Esercito”. Cioè “con gravi carenze specie nelle munizioni, nel vestiario e nei mezzi di trasporto”. La sola cosa che non mancava ai nostri erano i pezzi leggeri da 47/32, agili, su ruota e buoni solo per la copertura di accompagnamento. Ma incapaci di bucare corazze e privi di “ali di protezione”, che lasciavano quindi esposti gli artiglieri. Poi le bombe a mano, le “ananas” fornite dagli Usa.

Ma la cosa che davvero non mancò lì, a Montelungo, fu il cuore. Non tanto il cuore pulsante e riscattato da una Nazione risorta, quella è retorica ex post. Ma solo il cuore grande di italiani che si scoprirono ottimi soldati, capaci di tigna e di morire seguendola. Morire in 79.

Alle 9.15 del 16 dicembre quei matti, matti loro e gli ufficiali inferiori che li guidavano, tornarono a salire per la nona volta. Fu un inferno più infernale che mai. Si presero addosso di tutto: shrapnel di mortaio, tiri dritti di 88, raffiche di Mg-34 e 42 e Model 34 a “palombella” davanti le gambe. Ma loro spinsero, spinsero malgrado ogni metro fosse un chilometro e malgrado a terra ci fossero ormai più budella che pietre. Poco dopo mezzogiorno smisero di salire semplicemente perché di salire non c’era più bisogno. La collina era finita.

In vetta e nella storia

La tomba del generale Umberto Utili (Foto © AG IchnusaPapers)

Erano in vetta, col fiatone e gli occhi dei pazzi, molti di loro ancora urlanti in mezzo alle nuvole di cordite amara e gialla. I tedeschi erano andati via, falcidiati ed in ripiego verso San Vittore e poi Montecassino. E loro, i fanti italiani di Montelungo, quelli che non meritavano l’appellativo di alleati ma di “cobelligeranti”, ce l’avevano fatta.

Ottanta anni esatti fa. “Quando era per i fratelli smarriti vanità sperare, follia combattere, primizia di credenti, noi soli quassù accorremmo. Invitti per te cadendo Italia. Se più della vita ti amammo il monte della nostra fede dove sepolti eloquenti restiamo affida tu, con i nostri nomi, ai fratelli rinati per sempre“. Così, sulla lapide sta scritto così. All’ingresso di quel posto dove morirono 79 italiani. 79 soldati.