Le parlate dell’amore e le parlate dei non luoghi, quelle che valgono davvero

Retaggio di antica ignoranza invece che prova di antica saggezza: il rischio dei dialetti dequalificati e il ricordo di un giorno in Spagna

Lidano Grassucci

Direttore Responsabile di Fatto a Latina

Leggo, su queste colonne, un bellissimo articolo di Roberta di Domenico sulla legge regionale a difesa delle lingue locali (non mi piace usare il termine dialetto). Il Lazio finalmente recepisce il bisogno di difendere una ricchezza: perché ogni parola ha dentro una lunga storia che l’ha determinata, resa utile. E questo l’ha resa d’uso ai parlanti. (leggi qui: E il dialetto ciociaro arrivò in Regione Lazio).

Parlo in italiano, scrivo in italiano, ma… Quando mi arrabbio, quando le cose della vita vanno nel profondo, quando torno dai miei amici, quando debbo ricordare con loro il nostro ricordo, parlo nella mia lingua. Quella che mi identifica con la mia terra. 

In Spagna a litigare con Giangavetto

La consegna del sasso (Foto: Compagnia dei Lepini)

Una volta ero in Spagna con il mio amico Giangavetto (Giancarlo Massimi, oggi consigliere comunale di Sabaudia, già assessore a Sezze, già sindaco di Civitella Alfedena), fermi alla fermata del bus piena di gente. Naturalmente avevamo litigato e stavamo litigando, in lingua… .

Una coppia di signori, marito e moglie, italiani, commentano il nostro litigare: “Questi non sono italiani, ma manco spagnoli” fa lui. Lei chiosa: “secondo me sono portoghesi”. Ci venne da ridere per questa buffa identità, per questa unica diversità.

Poi, un’altra volta, litigammo in quello che gli architetti chiamano “non luogo“, essendo uguale in ogni parte del mondo. Davanti al bar interno, eravamo a Latina, gli astanti sentendo la nostra lingua si allontanarono, un poco schifati. E pensando che eravamo figli di qualche flusso di immigrati da qualche monte della Carpazia.

Invece? Parlavamo noi la lingua di questo luogo, loro non avevano terra, loro quella del non luogo. Ci accorgemmo che eravamo “stranieri a casa nostra” che come noi solo gli aborigeni australiani.

Stranieri a casa nostra e perciò feriti

Ci sentimmo feriti, ci consideravano e ci considerano retaggio di antica ignoranza e non portatori, come è vero, di antica sapienza. Noi abbiamo una lingua in più, gli altri una identità in meno.

Certo la nostra lingua, una di quelle del Lazio meridionale, non sarà mai più la lingua d’uso in questi posti. Non la parleranno più i ragazzi, era la lingua di comunità agricole, coese, dove l’alternativa era il latino per via dei bisogni della fede. Ma noi restiamo fino a che saremo in vita ad usarla non orgoglio, senza sentirci primi ad altro, ma mai meno. Ad usarla tra noi per sentirci amici.

I nostri suoni sono stati per secoli gli unici suoni oltre al canto delle rane. E agli inni al signore nella lingua della Chiesa, di questo pezzo di mondo.

Il Lazio dei mille colori tra cui il nostro

Il Lazio è mille colori, noi abbiamo il nostro. Chiudo con una espressione che identifica la nostra idea di comunità: “se era bono era i nostro ha iscito malo è gli nostro ugualo”. Che vuol dire che noi siamo orgogliosi di chiunque di noi è stato nella vita una brava persona, ma anche chi ha commesso errori è sempre dei nostri.

Foto © Pietro Perciballi

Ecco, in italiano, in latino, c’è il bene e il male distinto e separato, da noi la vita così com’è, e in italiano non suona, in inglese non è previsto.

E dentro c’è il buon Samaritano, il Dio della misericordia, e la solidarietà contro ogni avversità: la nostra lingua è questo, nulla di più nulla di meno.