Penne, fucile ed occhiali: quando l’estate è stagione di caccia ai giudici

La riforma della Giustizia più come loop politico calibrato al momento che come organica visione. E i rischi ci sono tutti, basta volerli vedere

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Nei Paesi seri, come seri volevamo essere una volta noi, la Norma di solito anticipa la società. E mette in casella di Diritto quello che nella vita potrebbe succedere. Che significa? Che il potere legislativo e quello esecutivo producono delle regole di rango a cui poi il potere giudiziario si attiene. Più pratico: Parlamento e Governo fanno le leggi che la magistratura applica.

I giudici le applicano dopo che il Parlamento le ha messe a varo e ne ha studiato congruità e aderenza alla società. E se la Consulta non si mette di traverso, è un amen. Ovviamente ci sono casi in cui la storia usura le norme più vecchie e quelle vanno cambiate in corso d’opera, ma parliamo di un casella concettuale diversa.

E’ il timing che è importante. Perché ad una Legge fatta in circostanze neutre, senza l’usta del momento, puoi dare l’ampio respiro che dalla Legge ci si aspetta. Cioè togli ad essa quella scomoda sensazione di averla “settata” al momento giusto per sanare una cosa che ha colpito uno dei “tuoi”. E su cui sei strategicamente costretto a fare piagnisteo di danno ecumenico.

I referendum e la crociata “fallita” di Ottaviani

Matteo Salvini con Nicola Ottaviani (Foto Massimo Scaccia / Giornalisti Indipendenti / Ciociaria Oggi)

Un anno fa c’erano stati i referendum proposti dalla Lega e dai Radicali per riformare alcune parti della Giustizia ritenute cruciali. Ecco, quell’esercizio di democrazia diretta in purezza era andato a franare in un mostruoso flop.

Anche a Frosinone c’era stato il giusto grip. Nicola Ottaviani ad esempio, da sindaco uscente e coordinatore provinciale del Carroccio che in queste ore ha tenuto conclave frusinate, disse sul tema cose serene e per certi versi condivisibili. Però aleatorie alla prova dei fatti.

“Nessuno vuole dire che l’impianto processuale sia un sistema da cestinare. Tutto è perfettibile. Ci sono riforme sicuramente da portare avanti e una strada di definizione è quella referendaria. Ma il referendum è un punto di arrivo o di partenza? Può essere uno dei punti di partenza.

Il discorso però era ed è un altro e non è di merito. Riformare la Giustizia quando se ne sente esigenza etica e sociale è una cosa, già difficile in sé. Tuttavia provare a farlo quando in ballo ci sono gli umori diretti della politica è un’altra. E non è cosa sempre proficua per la società, tanto che se la chiami in causa direttamente con il voto, la società, quella poi non agisce. Perché il tema è astruso. E perché la giustizia è bicipite: a volte ti serve com’è, altre la invochi come vorresti che fosse.

Il caso scuola Consulta-fine vita

La Corte Costituzionale Foto © Paola Onofri / Imagoeconomica

Senza contare poi che quando come in Italia accade il contrario, cioè che una sentenza anticipi una legge e spinga le Camere a farla, scoppiano casini immensi. Chi non ricorda il giudicato della Consulta sul fine vita di fine 2019 con cui le toghe furono costrette a fare norma senza che fosse stata predefinita una legge di riferimento? Il Parlamento non aveva trovato mai il tempo per farla e i giudici furono costretti a cazziarlo benevolmente per far colmare il vuoto. Non è ancora accaduto del tutto, per inciso.

Ecco, oggi invece il Governo, in piena e regolamentare fregola da riforma della Giustizia, il tempo per modificare una norma lo ha trovato e come. E vuole intervenire esattamente con quel “timing” di cui sopra. Quello cioè per cui una legge la si cambia nel momento esattamente successivo a quando ha fatto “danno” alla linea dell’esecutivo. E giù di penna quindi per spiegare che sì, l’imputazione coatta è cosa da riformare o abolire o che il concorso esterno in associazione mafiosa è fuffa.

Mettere bene a fuoco cosa si vuole cambiare

Elly Schlein

Regola antica vorrebbe che prima di impugnare la penna e trasformarla in un fucile si debbano inforcare gli occhiali. Magari per vedere meglio cose che si sanno già ma che forse non sono perfettamente a fuoco. Come con il caso Delmastro, ad esempio.

Il recap lo rubiamo ad Elly Schlein che per una volta ci ha fatto l’onore di essere sintetica, non è partigianeria a prescindere quindi la nostra, ma solo esigenza di sintesi. “Noi per primi come Pd abbiamo denunciato il fatto che Delmastro abbia utilizzato informazioni riservate per far attaccare le opposizioni in aula da Donzelli. E c’è un ministro, Nordio, che ha detto che quelle informazioni non erano riservate quando procura e Gip le hanno definite tali. E’ un atteggiamento grave del governo.

Insomma il fatto è noto: abbiamo un sottosegretario alla Giustizia che divide la camera a Roma con un parlamentare collega di Partito. E che la sera, magari sbriciolando del sushi, gli “soffia” informazioni sul caso Cospito. E da Andrea ad Andrea la cosa il giorno dopo finisce in Parlamento dove l’Andrea due usa quelle informazioni per sputtanare alcuni avversari politici.

Senza cadere nel trappolone del merito la cosa va avanti in procedura. Perciò alla fine un Gip ribalta il lavoro della Procura che in quella condotta non ci vede profili penalmente rilevanti e procede con l’imputazione coatta. Cioè a prescindere dall’indagine di parte requirente tal quale.

Il caso Delmastro e subito “apriti cielo”

Apriti cielo: il destra centro ci mette il carico da mille ed imbarca il caso sul vascello della riforma della giustizia già in agenda. Il centro-sinistra ci vede l’ennesima porcata. E in sintesi risorge, mai davvero morto, l’antico conflitto italiano tra politica e toghe del dopo Tangentopoli.

Spersi nei giudizi “etici” abbiamo dimenticato di riflettere su due aspetti che implicano domande precise. L’imputazione coatta è legale? E certo che si, lo ha ribadito anche l’Anm, che però ormai non è più parte terza ma da tempo sta nella casella (s)comoda di parte in causa, parte partigiana.

Il segretario Salvatore Casciaro è stato stringatamente bravo quasi come la Schlein. “Nel caso del sottosegretario Delmastro non si è trattato di una sostituzione del giudice al pm, ma del doveroso controllo che il giudice esercita sul suo operato. Un giudice che valuta gli elementi di prova e si orienta autonomamente non si sostituisce al pm, fa solo il suo mestiere di giudice. Con la terzietà che lo contraddistingue”.

Cosa può fare un Gip e perché può farlo

(Foto: Bruno Weltmann © DepositPhotos)

Insomma, la polpa è proprio questa: accusare formalmente un indagato a prescindere dalla Procura si può fare. E siccome lo si è fatto a carico di un membro del governo il suddetto governo può solo battere la strada di non farlo fare più cambiando la legge. Esattamente nel momento di crono in cui la stessa è “contro” il suo interesse generale, ma agitando il vessillo pop per cui va cambiata per tutti i cittadini. Ma siamo sicuri che l’interesse dei cittadini, cioè la perfetta equalizzazione tra norma e società, sia quello di impedire ad un Gip di imputare qualcuno anche per sua sola decisione?

In molti casi infatti la facoltà della toga terza di esercitare lo “jus corrigendi” è servita a portare a dibattimento casi in cui l’azione di raccolta prove del magistrato era stata debole. E siccome il Codice Vassalli dice che solo lì, in dibattimento, matura la prova a carico spesso andare a “forzare” l’azione penale è stato utile.

Ma il problema è un altro e va ammesso che la questione è controversa da tempo. Lo è perché in Italia il processo è accusatorio e Procura e Gip dovrebbero anche procedere con azioni connesse e consequenziali pur dall’alto di diverse funzioni.

Giuridichese stretto e sapienti arruolati

Il problema non è roba da giuridichese stretto e tale sarebbe rimasta se la faccenda avesse riguardato un Laqualunque. Il problema è che se non fosse scoppiato un caso-scuola sul piano sensibile ed “alto” della politica la politica quel caso non lo avrebbe messo proprio in agenda.

Quindi la vicenda Delmastro non è affatto il paradigma di una politica che “serve” la società con leggi buone, ma quello di una politica che “serve a se stessa” e poi contrabbanda la pubblica utilità del suo servizio. E lo fa arruolando magari frotte di giuristi studiatissimi che dicono la loro con un favor legittimo, ma che non abbranca il focus della questione.

Che un giudice potesse discostarsi dalle conclusioni delle parti, cosa che accade spessissimo in dibattimento, prima del caso Delmastro era roba di cui fregava pochissimo. Perciò quello che aleggia in questi giorni sull’estate italiana non è un caso di rango ma un caso di ring. Il ring sempiterno nel quale, nel nostro paese, chiunque stia alla cloche vuole seguire solo le sue rotte.

Senza che nessuno gli indichi con quali strumenti agganciarle. Perché se qualcuno lo fa o qualcosa lo fa emergere si parte di penna. E si imbraccia il fucile. Senza mettere prima gli occhiali.