Quel monte che bussò ed il colonnello di Roccasecca che “fece” il Vajont

Sessant'anni fa una strage che per troppo tempo fu chiamata tragedia. E nella quale ebbero ruolo l'uomo e un'Italia che non vogliamo più

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Il lessico del disastro del Vajont è ricchissimo di snodi in cui si incrociano parole chiave che hanno preso il tono merlettato delle metafore grevi. Abbiamo una montagna che “bussò” alle case dell’uomo che per amarissima ironia della sorte – quella per cui in onomatopea bussare suona come “toc-toc” – si chiamava Toc. Abbiamo un’onda “tricuspide”, a tre capocce, che fece il salto sulla valle di Longagone. E abbiamo una marea di termini tecnici come “bacino, incoerenza, fragilità strutturale”.

Nella storia spunta e giganteggia anche un colonnello di Roccasecca che fu tra i soccorritori e il quadrilatero della mistica di un’Italia che sa soccorrere ma non sa prevenire è chiuso, blindato.

Grazie al lavoro di menti tenaci e brave abbiamo anche un sacco di teatro su quella tragedia: quello del Vajont forse è stato il disastro più sceneggiato su palco di tutti, anche a contare le sciagure foreste. Il dato è che il Vajont ce l’abbiamo tutti inciso nell’anima a punta di coltello, anche quelli che ne seppero dopo.

Non tragedia ma strage fatta dall’uomo

L’invaso del Vajont nell’estate del 1963

Insomma, abbiamo tutti gli elementi di contorno per sviare dalla verità e per certificare, in mistica emotiva, contorni e contenuti di una immane tragedia. E sbaglieremmo tutti perché quella del Vajont non fu una tragedia, ma una strage. Strage determinata dall’incuria e dall’avidità umana. Lo dicono gli atti giudiziari, lo avevano dipanato le indagini e ce lo rimanda la memoria storica.

Non tanto di quanto accadde quel 9 ottobre del 1963 al confine tra Friuli e Veneto, piuttosto di quel che non venne fatto succedere nei mesi e nei giorni che precedettero il salto della frana che ammazzò 1910 persone, quasi 500 delle quali sotto i 15 anni.

Poi di ciò che si provò a seppellire dopo, come se di cose sepolte in quella storia non ve ne fossero già abbastanza, “cose” che una volta erano vive. E’ anche vero che forse per nessun’altra strage come per quella del Vajont la coscienza critica degli italiani si è addestrata e perfezionata sul terreno infido del nesso eziologico tra la fame degli uomini e le sgroppate assassine della natura.

L’onda nera che ammazzò quasi tutti

Ma la natura c’entra molto poco, con i morti di Longarone, Codissago, Erto, Crasso e Castellavazzo. La natura segue le leggi della fisica e il segreto sarebbe quello per cui gli effetti di quelle leggi andrebbero previsti, contenuti ed azzerati dalle opere dell’uomo. Ma come si fa in questa terra ingorda ed impunita a tenere una squadra in mano senza sbirciare nella tasca che del lavoro di quella mano attende la messe? In Italia è accaduto troppe volte che le due mani lavorassero distratte perché quella che opera lavora per quella che intasca, risparmia, copre i costi o non vede strutture vecchie.

Questi sono giorni di dolore in cui il loop tragico di un paese in perenne credito di sicurezza ha preso l’eco altissima delle urla del cavalcavia di Mestre. Lì non c’è una verità giudiziaria perché non c’è ancora una verità storica, ma uno dei segmenti del suo tratteggio è quello di un guardrail paleolitico in un posto contemporaneo.

Sul Vajont ci sono dunque due direttrici di lettura: la prima è quella della tragedia in sé, con 270 milioni di metri cubi di roccia che sprofondano a velocità sottostimata dall’uomo in un invaso. E che provocano un’onda altissima che diventa un Canguro Nero. Letteralmente scavalca una diga sui cui ancoraggio c’erano dubbi certificati ma inascoltati e di abbatte su ciò che sta sotto, a valle.

Il processo-farsa quasi prescritto

La valle spazzata dall’onda

E sotto ci sono paesi, case, uomini, donne e bambini che dormono o stanno per andare a dormire. Quasi 2000 di loro a dormire ci sono andati per l’eternità dopo quella gigantesca spazzata di acqua ruggente, fango, roccia e detriti. Il resto ha alzato la testa stupito ed ha visto la Desolazione dove poche ore prima c’erano solo le piogge che avevano accelerato una tragedia annunciata.

La seconda, eccola: ne scaturì un processo ai vertici di Sade-Enel che si chiuse due settimane prima della prescrizione: perizie, commissioni di inchiesta tardive, prove provate e prove occultate.

E poi presunte omissioni ed omissioni certissime, con il Ministero dei Lavori Pubblici e la catena di comando amministrativa che non furono mai così “italiane” come allora. Tutto lo starter-pack sempiterno di un Paese fanfarone, negligente e funambolo tra profitto ed approssimazione andò a massa in quella vicenda.

“Forze potenti si muovono contro di noi”

Ed era una vicenda, quella giudiziaria, che per sua insita natura poggiava tutta sul valore probatorio delle perizie. E su quelle il sindaco di Longarone Giampietro Protti la disse chiara, a mani alzate: “Potentissime forze si muovono contro di noi. Abbiamo cercato per tutti gli Atenei e non abbiamo trovato un docente, uno solo, disposto a redigere la perizia di parte per conto del Comune. Ci furono 11 rinvii giudizio ed il processo venne trasferito a L’Aquila.

Già, perché per non farsi mancare nulla il dibattimento sulla strage del Vajont fu il primo ad essere celebrato in altra sede per legittimo sospetto ante litteram. Belluno in quei mesi puzzava di ingerenze forti e ci si spostò a sud.

In molti casi si andò a transazione, succede in un Paese dove invece di urlare la verità ti compri il silenzio su di essa con quattro soldi a vedove schiantate. Succede con gli aguzzini del “primum vivere” e con una sentenza di primo grado che in pratica decretò un giorno di carcere per ogni morto. Poi, sul filo di lana della prescrizione, arrivò la sentenza definitiva di Cassazione.

Il 25 marzo 1971 furono condannati Alberico Biadene (dipendente Enel-Sade) a cinque anni e Francesco Sensidoni (dipendente del ministero dei Lavori Pubblici) a tre anni e otto mesi. Per loro tre anni di condono e amen, il Vajont venne cassato anche in punto di giustizia dopo quello di Legge.

Le condanne e le storie che nacquero

Il colonnello pilota Quirino Giannitelli

Ma quello che non sapeva nessuno è che quella storia generò storie, storie di soccorritori e storie di memoria fortissima. Da Roccasecca uno dei primi ad arrivare sul luogo della mattanza fu il colonnello Quirino Giannitelli.

Ufficiale dell’Aeronautica Militare Italiana, pioniere del volo con la Squadriglia dei ‘Lanceri Neri’, poi passate Frecce Tricolori ed istruttore della scuola piloti dell’Aeronautica Militare. Morì l’otto settembre del 2021 Giannitelli: il sindaco Giuseppe Sacco lo commemorò con commozione sincera perché era stato un uomo in gamba ed un militare di pregio.

Quello che Giannitelli vide e su cui i magistrati indagarono divenne materia per opere teatrali (quella di Paolini su tutte), film, ricostruzioni e docu-fiction. Divenne un’impalcatura talmente forte di memoria che a 60 anni dalla strage i documenti sul Vajont sono stati inseriti nel Registro della Memoria del Mondo. Assieme alla pulizia etnica fatta in Canada sui nativi, all’Olocausto ed ai manoscritti della Persia antica che spianava popoli come birilli.

Io non c’entro

Tutte cose in cui l’uomo ha provato a dire “io non c’entro” oppure “eseguivo gli ordini”. Tutte cose che sanno di spregio hegeliano ed ipocrita a verità e vittime.

Cose che hanno provato ad eludere la memoria di ciò che non dovrebbe accadere più. E che non ci sono riuscite. Perché i morti guardano i vivi e quel che fanno, e i vivi quello sguardo lo sentono. Dietro la schiena. Di sera. Come quando il monte Toc bussò.