Un anno fa morivano in una sola persona un uomo che aveva un progetto ed un artista che aveva un sogno. E che lo hanno realizzato, per tutti noi
Pietro Spagnoli non mi aveva mai convito della sua concezione dell’arte, su quella mi aveva semplicemente vinto. Si era giocato la briscola di Dioniso invece che quella di Apollo. Lo aveva fatto senza strategie, senza dialettica da imbonitore, senza referenze. Parlavamo per ore di come lui intendesse il bello ed andavamo d’accordo perché eravamo amici, perciò alla fine ammainavamo le bandiere estetiche. E salivamo assieme sul cocuzzolo di una empatia a prescindere che alla fine ha permesso a Pietro di vincere.
Su lui io ero stato pigro, ed avevo visto la cifra stilistica senza prima testarne il rigore. Perciò in esordio concimavo la diffidenza senza capire che era superficialità. Succede, ma al contrario, come per gli arcobaleni o le lune grosse nei cieli estivi. Alla fine lo sai, che se li rimiri e li equalizzi al tuo cuore stai guardando l’infinito e sognando. E ti viene voglia di picchiare o compatire sinceramente chiunque ti venga a dire altro. Che quelli sono solo rifrazione di spettro e satelliti freddi di luce riflessa, ad esempio.
Il canone superato e Veroli “complice”
Ecco, con Pietro Spagnoli io cercavo il rigore scientifico, il Canone di Policleto e Burckhardt dove già c’era stato il decollo verso un Piano Superiore. E Veroli era stata aggravante ed attenuante al contempo della mia visione mipoe. Veroli tanto bella da essere regola aurea e tanto ricca da suggerire che dalle regole, nell’arte, si deve derogare, sennò è scienza della riproduzione. Ci ha salvati l’amicizia, che a ben vedere è la massima espressione dell’arte, di quell’arte che scappa dai canoni e non si rannicchia nei dettati.
Ma fui aiutato da un episodio, succede sempre così, quando le nostre prospettive sono piccine. Ad un certo punto e dopo aver messo a parto cose immense come il Building Peace e il suo Mite, la casa museo Mac ed il Mite, museo delle terre intra terre erniche di Veroli, Pietro deragliò. Non me lo spiegai se non con l’aneddotica su Picasso, quell’impulso. Quella per cui il Maestro decise di spiegare che lui alla sua sintesi ci era arrivato per illuminazione progressiva, e non per ignoranza dell’anatomia. E disegnò roba da trattato scientifico.
E come Picasso, Pietro fece una serie di quadri di vita vissuta a Veroli in cui comparvero figure, e case, e monumenti. Erano bellissimi, magici. Ne aveva altri, ma fu la prima volta che lo vidi rigorista. E con loro apparve quasi sprezzante una pignoleria fotografica talmente immensa che alla fine capii cosa avesse voluto dirmi quando parlava di essenza. Ci arrivai per contrappasso visivo, e fu una botta forte. Capii che non solo avevo un amico, ma un amico geniale. E capii anche un’altra cosa: che Pietro Spagnoli aveva un progetto, una visione.
Come Picasso: sapeva ma non esibiva
Senza perdere inutile tempo a contemplarlo e a dire che qualcosa non andava, per Pietro il mondo andava rivisto. E bisognava mettere a fucina ogni lampo, ogni conato produttivo, ogni intuizione, sennò la cosa restava concettuale e l’Arte si svaccava nella contemplazione buffona del sé. La sua non era somma, era sintesi, superamento.
A me di Pietro piacevano molte cose che faceva e tutto del modo con cui le faceva. Perché lui il canone non lo aveva scacciato, lo aveva solo reso sistemico ma non ci aveva contaminato la sua ubris. Lo aveva fatto con quel modo praticone e rinascimentale con cui ogni vero Artista si cimenta e si sbreccia mani e cuore. Hai un’idea che è bella ma che resta bella a metà fin quando non la metti a giogaia del fare.
Gli etruschi e la pasta “renfurnata”
Se non fossimo stati amici lo avrei invidiato. Perché lui aveva il dono della concretezza su un piano che per noi saputi salmodianti e vigliacchi è semplicemente inconcepibile. Il nostro è il piano della cultura copiata, il suo era il piano della coltura ferace. Quando un anno fa Pietro era morto al mondo reale ma non a quello che aveva creato pensai e scrissi di cosa ci univa.
Ci univano molte cose, alcune sceme, altre ancora di più. L’amore-odio per il cinema d’essai che a volte “te le abboffa”. La passione per i salatini lunghi a stecco ed a forma di pretzel con l’aperitivo del tardo pomeriggio. L’Arcadia, la pasta “renfurnata” con il coccio che ti pela la pelle e la simbologia nell’arte etrusca. Era anche un filino sordo, ma era un signore. Perciò lui, accarezzando il cane Giotto o guardano Ornella, sorrideva perplesso. Poi un po’ rosso di gota ti faceva capire che non aveva afferrato tutto e che gli dispiaceva non averlo afferrato.
Il che a pensarci bene è il complimento più grande dell’universo perché di solito alla gente piace solo quello che esce dalla sua, di bocca. A Pietro Spagnoli invece piaceva pescare negli intelletti. I suoi colori nei quali intingere, la sua tavolozza, il suo piano da lavoro erano le cose e le persone che gli capitavano. Le metteva a servizio del trittico magico “cuore-testa-non so che cacchio è ma c’è” e faceva cose bellissime. Non creava, faceva. E nel suo fare ci vedevi spiegato tutto il mondo che non sapevi spiegare ma che volevi ti fosse spiegato a puntino. In purezza di emozione, non in aridità di compendio. E oggi che Pietro non fa più ricordarlo fa bene. Bene per quel chi ha lasciato e male perché, maledizione, ci ha lasciato.