La macchina da scrivere Olivetti M40 (Il Duro del weekend)

Luciano Duro

Narratore e Sognatore

Luciano Duro
di LUCIANO DURO
Narratore e Sognatore

 

Prendi un attestato di dattilografa – dicevano a mia sorella, appena diplomata – è sempre buono, ti aiuterà a trovare un lavoro”.

Le dattilografe, le famose signorine con gli stivali sexy dentro gli uffici di una volta, erano le schiave della tastiera. Le dita andavano da sole, come un pianista che conosce a memoria lo spartito. Interrompevano solo per aggiustare, senza alzarsi dalla sedia, la gonna e coprire le gambe dallo sguardo malizioso del maschio, eccitato da quella postura, che generava strani pensieri. L’ufficio era una sorta di catena di montaggio, i colpi dei polpastrelli sulla tastiera erano decisi ma leggeri, perché se si picchiava forte, qualche tasto poteva incepparsi.

Quel ritmo incalzante, dava l’impressione della pioggia che batte, fitta, sui vetri della finestra e il suono del campanellino quando si tirava la leva del carrello, per andare a capo, ricordava qualcosa di mistico, come il sacrestano che richiama l’attenzione per dare inizio alla funzione religiosa. Era inoltre comune l’utilizzo della carta carbone che consentiva di ottenere più copie conformi all’originale con una sola operazione di battitura. I documenti affollavano gli archivi all’inverosimile, prima di finire nelle discariche se si riteneva non fossero importanti. Chi saprà mai quanta storica documentazione sia finita al macero!

L’attore Tom Hanks ha studiato un programma da applicare al computer che riproduce i suoni della macchina da scrivere, sentiva la necessità e la nostalgia di quelle sensazioni acustiche che come una musica aumentavano la creatività.

Nel 2001 è stato battuto all’asta il rotolo su cui Jack Kerouac scrisse a macchina la prima stesura di “On the Road”. Era il 1951, il cantore della “Beat Generation”,sostituì il foglio A4 con un rotolo di carta lungo 36 metri. Lui era velocissimo non poteva perdere “l’attimo fuggente”, doveva dare forma concreta a pensieri sciolti e la macchina da scrivere correva sulla strada come l’auto di Dean Moriarty uno dei protagonisti del romanzo. Costruiva le sue storie, di getto, così volavano sui tasti del sax le dita di Charlei Parker, improvvisando scale armoniche colme di lirismo ed intensità, stessa poesia, raccontata con strumenti diversi.

Conservo a casa una Olivetti M 40, modello “post bellico” regalatami da un’amica di mia madre, su quella ho imparato a scrivere con sole due dita, avevo 11 anni, quanta energia occorreva per battere sui tasti ormai vecchi e duri, per sollevare il carrello, per imprimere le maiuscole. A volte il nastro si torceva all’interno del rotolo, dovevo smontarlo e rimetterlo a posto, si sporcavano le mani e di conseguenza anche i fogli già battuti e ricominciavo da capo.

Gli errori non mancavano, il correggere era difficile e spesso il lavoro impresentabile, specialmente se erano più copie. Ricorrevo allora alla gomma da cancellare, tonda e sottile, poi al correttore Pelikan e da ultimo verrà il “bianchetto”. Era una vera battaglia, che si combatteva tra cumuli di fogli strappati sul pavimento, poi finalmente, dopo tanti tentativi, producevo qualcosa di decente, orgoglioso di portarlo a scuola ben confezionato, affinché i miei componimenti avessero un abito professionale.

Avevo ottenuto il permesso di battere a macchina i compiti a casa, avevo espresso la volontà di voler far da grande il giornalista e quella vecchia macchina da scrivere mi dava la presunzione di esserlo. Dopo tante insistenze il maestro cedette alla mia richiesta.

Non fu una buona idea perché agli errori di ortografia si sommavano quelli di battitura ed i risultati furono spesso disastrosi.

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