Chiedere i documenti e trovare la morte: come perdemmo Emanuele Petri

Ventuno anni fa il colpo di coda delle Brigate Rosse. Già sconfitte dalla Storia e dallo Stato. Riesumate da giovani dalla vita mesta, in netto contrappunto con gli orrori che seminarono

Piero Cima-Sognai

Ne elegantia abutere

Tutte le storie di vita del terroristi sono meste, in netto contrappunto con gli orrori che seminano nel mondo. Ma quella di Nadia Desdemona Lioce lo è particolarmente. Non c’entrano il fatto che sia una ex assistente sociale o che in clandestinità ci fosse arrivata in un periodo nel quale l’Italia non era più sotto la cappa cupa degli anni di piombo “canonici”. No, c’entra il fatto che la Lioce e quelli intruppati come lei decisero di fare cadaveri riesumando un cadavere: quello delle Brigate Rosse.

Nadia Desdemona Lioce

Il filone di origine era quello dei gruppi sedicenti sandinisti che alla fine degli Anni ‘80 resistettero, non al potere, ma alla Storia. Il movimento studentesco de La Pantera infuriava nelle università contro l’allora ministro Antonio Ruberti. Ma si era già capito tutto.

Capito che quelli che da quei moti erano tracimati a fare gli sparatutto erano anacronismi viventi, ma non per questo meno folli o pericolosi. Come Mario Galesi ad esempio che con la Lioce era in clandestinità sfigata sul treno Roma Firenze il 2 marzo del 2003.

L’ennesima giornata di dovere

Emanuele Petri

Emanuele Petri ed i suoi colleghi Giovanni Di Fronzo e Bruno Fortunato tutto questo non lo sapevano, prendendo servizio attivo su quel convoglio. Sapevano solo che quella era l’ennesima giornata in cui piegare doverosamente la vita al dovere. Erano di scorta viaggiatori su quel Regionale e dovevano vigilare sulla loro sicurezza in quanto team Polfer. Certo, che l’eversione rossa avesse tirato di nuovo fuori la sua mano scheletrica dalla fossa in cui stava sepolta lo sapevano. Ma più come fruitori delle cronache che come operatori direttamente chiamati a farvi argine strategico.

Meno di 200 chilometri più a sud, a Cassino, era diventato sindaco da due anni Bruno Vincenzo Scittarelli e la Procura locale lì si stava sì occupando di terrorismo, ma di altra matrice. L’11 settembre 2001 negli Usa aveva spinto i tre magistrati delegati, Ionta, Cantelmo e D’Ambruoso, ad istituire piccole task force agili.

Cosa succedeva a Cassino in quei giorni

L’Aula della Corte d’Assise di Cassino

Quella cassinate era composta dalla Polizia Giudiziaria dei Carabinieri ed il procuratore Gianfranco Izzo l’aveva sguinzagliata per la città a caccia di nordafricani legati al salafismo combattente. Erano per lo più macellai halal che gestivano giri di documenti falsi per agevolare l’ingresso dei connazionali in Italia ed Europa. Seguendo quel filone si arriva ad armi e denaro contante per i terroristi islamici. Raccolti attraverso militanti nascosti tra Cassino e Gaeta, inviati poi ai vertici della cellula integralista italiana che si trovano a Treviso. I sospetti sono contenuti nell’inchiesta avviata dal sostituto Franco Ionta che ipotizza il reato di associazione sovversiva. Nel registro degli indagati c’è una lunga serie di nomi, tra i quali quello di un camionista che da anni abita a San Giorgio a Liri. 

Il colpo grosso arriva dopo poco tempo. La parola d’ordine era “Al Takfir Wal Hijra“: esilio ed anatema. Lui aveva aggiunto anche un altro comandamento: la discrezione. Solo attenendosi in modo rigido a quella regola un uomo di 38 anni è riuscito a sfuggire per dieci anni alla caccia che gli hanno dato i poliziotti ed i servizi segreti di Italia, Francia e Algeria. Il suo esilio in Ciociaria è stato interrotto dagli investigatori della Digos di Frosinone e dell’Ucigos di Roma con gli agenti dei servizi segreti del Sisde. Lo hanno aspettato davanti al suo appartamento di via Tasso a Cassino, gli hanno notificato l’ordine di cattura internazionale con il quale deve scontare venti anni in carcere per terrorismo, traffico di armi, sabotaggio e incendio di mezzi pubblici. 

D’Antona e Biagi ammazzati dalle NBR

Massimo D’Antona

Il quadro italiano era a doppio binario, sul fronte del terrorismo. Nel 1999 e nel 2002 qualcuno aveva ammazzato due giuslavoristi, Massimo D’Antona e Marco Biagi. I due docenti universitari erano consulenti di governi che le Nuove Brigate Rosse avevano deciso di combattere con il piombo e non con la libertà di opinione. Ed erano morti sotto valanghe di proietti sparati dritti da un universo parallelo dove la Storia Criminale ancora resisteva.

Accadde tutto come succede in certe situazioni filmografiche inverosimili, da sceneggiatura ardita, dove si passa dalla prassi barzotta ed annoiata al turgore horror in pochi secondi. E dove non hai tempo per modellare neanche la tua espressione facciale al nuovo scenario. Lo avrebbe raccontato amaramente bene in Corte di Assise Fortunato, cosa accadde dopo la fermata alla stazione di Camuccia-Cortona. “Verso la terza-quarta vettura io e Di Fronzo ci fermammo per identificare una persona, mentre Petri era andato avanti ed era entrato in uno scompartimento“.

Fu roba di pochi secondi, con il tempo pigro a contrarsi improvvisamente in tempo veloce, veloce e folle. Emanuele Petri uscì dallo scompartimento avanti tenendo dei documenti in mano.

Il film dell’orrore: colpi di pistola

Erano quelli della Lioce e di Galesi, terroristi delle Nuove Brigate Rosse ed assassini latitanti di D’Antona e Biagi. Ed erano falsi, la Questura di Firenze avrebbe confermato i sospetti del baffuto sovrintendente.

Poi fu tutto a scatti: Galesi che puntava una pistola alla gola di Petri, i colleghi che estraevano le loro, di pistole. Il terrorista che intimava ad essi di consegnarle “a lei” ed uno degli agenti che lanciava la sua arma sotto ad un sedile. Lei era Nadia Desdemona. Poi i colpi: quello che raggiunse Petri alla gola e lo uccise, quello che raggiunse Galesi all’addome e lo ammazzò, altri colpi concitati uno dei quali colpì uno dei poliziotti.

Ed alla fine lei, la Lioce, che cercava inutilmente di sparare con l’arma gettata a terra da uno degli agenti, scarrellando freneticamente quella ‘92 FS e tirando il grilletto. Ma invano: c’era la sicura innestata e la leva di sparo non si muoveva indietro. Alla fine la donna venne immobilizzata ed arrestata, con il treno fermo a Castiglion Fiorentino. A terra, sul pavimento stretto dello scompartimento, due morti: un poliziotto e il terrorista che lo aveva ucciso. Erano Emanuele Petri e Mario Galesi.

Il turno che Emanuele non doveva coprire

Alla Polfer di Terontola Emanuele non ci aveva messo molto, a farsi voler bene da tutti: era pignolo sul lavoro ma gioviale nei rapporti umani. Era grosso di stazza ma “falso orso”, perché quella polpa che aveva addosso alle ossa faceva più bonomia che impressione. Dalla scuola di Trieste, dove era entrato nel 1973, quando gli anni di piombo ringhiavano già cupi, era passato a Roma, poi a Firenze ed Arezzo.

Aveva una moglie, Emanuele, a Tuoro sul Trasimeno, nel Perugino, e quando morì aveva 48 anni. Aveva un figlio di 23 anni che faceva il poliziotto come lui ed aveva un cuore grande che silenziava il suo borbottare. Il borbottare rassegnato di chi quel giorno, il giorno in cui lo avrebbero ammazzato, non doveva essere in servizio. Petri aveva sostituito un collega carabiniere che aveva gravi problemi di salute. Succede così, tra le divise: qualcuno che ha le tue stesse grane, i tuoi stessi sogni e la tua stessa vita tenace se la passa male e tu ti prendi per un po’ la sua croce sulle spalle. E quella croce la porti a metà tra rassegnazione, mezza bestemmia e sensazione di aver fatto la cosa giusta.

Poi, quando muori, non ti chiedi perché lo hai fatto, non ne hai il tempo e il tuo corpo non te ne concede facoltà. Si spegne tutto e tu diventi altro dalla vita, in un giorno di pioggia debole che ti accompagna dove non arriva più nulla. E dove il nulla lo possono esorcizzare solo quelli che si ricordano di te. Della Medaglia d’Oro al Valor Civile Emanuele Petri, e del giorno terribile in cui lo perdemmo.