Il morbo grillista, in base al quale bisogna urlare il più possibile ma solo le cose che vanno male, sta infettando Frosinone. E’ il capoluogo più inquinato d’Italia, il più disoccupato nel Lazio, il più intasato d’auto, l’acqua si paga più cara che nell’oasi di Ghadames nel Sahara, l’aria puzza più che a Mumbai di sera, i suoi cittadini russano più forte che nel resto d’Europa.
La moda di parlarci male addosso ci ha fatto dimenticare quanto sia stata immensa l’operazione capitanata da quel gentiluomo d’altri tempi che risponde al nome di Maurizio Stirpe, portando questa specie di capoluogo in Serie A, collocandolo accanto a nomi come Juventus, Inter, Roma e via calciando nella rete della Champions. A qualcuno la retrocessione avrà pure fatto piacere: avere una squadra nell’olimpo del Calcio nazionale era un’anomalia che non consentiva di parlare male proprio di tutto.
Questa passione per farci del male da soli sta impedendo a molti di accorgersi che tra poco non ci sarà più lo stadio Casaleno. Era una cattedrale nel deserto, eretta a monumento dell’inefficienza e dello sperpero di denaro pubblico, totem ingrigito sul quale celebrare l’incapacità di generazioni d’amministratori, obelisco alla vittoria della burocrazia sulla capacità di fare.
Quell’orrore è rimasto lì talmente tanti anni che oramai sembrava normale. E forse lo è in un’Italia nella quale si fanno le dighe dove non c’è acqua da regimentare, cavalcavia autostradali che si afflosciano dopo l’inaugurazione, tratti autostradali per collegare il nulla. Il Casaleno è la normalità in un’Italia nella quale le centrali nucleari stavamo pensando di farle solo quando i francesi dovevano smantellare le loro ormai obsolete e non sapevano a chi appiopparle, l’Alta Velocità l’abbiamo fatta per unire Napoli a Milano dimenticando che siamo in Europa e se passi le Alpi sei a Parigi in dieci minuti.
In questo Paese nel quale va bene solo quello che funziona male, dove occorrono quattordici mesi per farsi approvare una carta per avviare i progetti preliminari per un’opera, non ci siamo accorti di un’altra gigantesca anormalità che andava maturando sotto il nostro naso. Forse più grande del Frosinone in Serie A.
Nessuno si è accorto che a Natale inizierà il trasferimento dal glorioso Matusa al nuovo Benito Stirpe lì dove c’era il Casaleno: in solo un anno e mezzo, quel monumento all’inefficienza, all’incapacità, al bizantinsimo burocratico, è diventato uno stadio tra i più moderni, facendo una cosa riuscita finora solo a Torino con lo Stadium (Cairo per favore fammi presto il Filadelfia n.d.A.), al Friuli di Udine. E ora pure al Benito Stirpe di Frosinone. Che piaccia o no, due persone che nemmeno si stanno troppo simpatiche, Nicola Ottaviani e Maurizio Stirpe, in 17 mesi sono riuscite a fare ciò che è stato impossibile per 34 anni.
Ma noi ci accorgiamo solo di quello che va male.
E’ per questo che faremo finta di nulla, nessuno dirà grazie a nessuno dei due, penseremo che gli è andata bene se qualcuno non li ha ancora inquisiti per avere fatto troppo presto. Allora, in questo Paese dove tutto funziona al contrario, lanciamo una proposta: il Casaleno diventi monumento nazionale, simbolo vivente di ciò che non è la Ciociaria, a sfregio incrollabile di coloro che hanno come passatempo e massima gioia il solo parlarne male.