Top e Flop, i protagonisti di venerdì 9 giugno 2023

Top & Flop. I fatti, i personaggi ed i protagonisti delle ultime ore. Per capire cosa ci attende nella giornata di venerdì 9 giugno 2023

TOP

ABDELHAFID KHEIT

Abdelhafid Kheit

L’Italia vera, quella che qualcuno aveva definito “il Paese reale”, sta in gran parte anche qua, in nomi “foresti” che appartengono a cittadini che foresti non sono. Gente che è figlia di una visione composita della società in cui funziona bene il raccordo fra i luoghi da cui si viene ed il luogo in cui si vive, si ama e si lavora. Abdelhafid Kheit è il presidente della Comunità islamica in Sicilia. È Imam di Catania. Ed è uno che sulla questione dei migranti ha più skill di quasi tutti quelli che sul tema scrivono bugiardini da mesi, a volte da anni. E quasi sempre dalle “farmacie” politiche o istituzionali.

Kheit ha colto l’occasione della visita-lampo di Giorgia Meloni in Tunisia nel segno di una campagna “estera” per dare una nuova rotta alla questione per dire cose di grandissimo buon senso. Cose che inquadrano la faccenda nel campo largo dell’attenzione alla persona. E nell’ineluttabilità di un processo che va gestito, non avversato.

E ha detto, spiegando bene da che parte sta ma anche da quale non starà mai. “Il nostro augurio è che le parti tunisine e italiane continuino a cooperare nel campo della lotta alla migrazione irregolare. Con misure efficaci e politiche mirate per poter porre fine a questa tragedia. Io sono convinto che l’immigrazione sia un fenomeno antico e complesso, impossibile da impedire, nonostante alcuni politici cerchino di ridurlo a un mero slogan elettorale”.

Kheit ha parlato di un concetto che sembra essere sfuggito, se non in occasionali gargarismi, sia a Roma che a Bruxelles. “Vorrei sottolineare l’importanza di costruire un approccio globale alla cooperazione nel campo della migrazione andando oltre il solo approccio della sicurezza. Quest’ultimo infatti rimane limitato in termini di efficacia come abbiamo già potuto vedere”.

E l’imam queste cose le ha dette da italiano. Tanto italiano che la chiosa è stata questa, a suggello della sua avversione, sia e di molti altri, una concezione troglodita in cui si è popolo solo per investitura di una storia immota. Una storia che peraltro e specie con la nostra penisola non c’è mai stata: “Il nostro governo sta premendo, nell’UE, per fornire aiuti urgenti alla Tunisia e prevenire un possibile collasso economico, oltre a cercare di raggiungere un accordo con il Fondo Monetario Internazionale per accelerare il prestito in sospeso”.

Italiano che prega ad est.

ANGELO OGBONNA

Angelo Ogbonna con la maglia del West Ham (Foto operations@newsimages.co.uk © DepositPhotos.com)

Meno tragico della Scelta di Sophie, la celebre pellicola tratta dall’omonimo romanzo di William Styron in cui una donna ebrea deve decidere se abbandonare al suo destino la figlia per salvare l’altro figlio. Non meno lacerante la scelta all’Eden Arena di Praga: tra un’orgogliosa Fiorentina d’altri tempi che ha portato il calcio italiano ai massimi livelli europei ed un West Ham in cui c’è tutta la favola tricolore cresciuta a Cassino con il nome di Angelo Ogbonna.

La cronaca dice che è stato il ragazzino cresciuto nell’A.C. Montecassino ad alzare la Conference League. La storia non racconta cosa c’è dietro a quell’urlo di gioia. C’è la sintesi dell’Italia del nostro tempo e che la politica non è ancora capace di vedere, ferma a ragionare su cose ormai passate. Perché Angelo Ogbonna, il campione che alza la Conference League è un ragazzo italiano, nato in Italia, cresciuto a Cassino nell’italianissimo quartiere San Bartolomeo. E lo è anche se figlio di due migranti nigeriani.

Gente che ha attraversato l’inferno per la speranza di un sogno. Ed una volta raggiunto un centimetro di terra tricolore ha iniziato a costruirlo quel sogno: lavorando, educando i figli, mandando Angelo a prendere a calci un pallone nel Montecassino anziché lasciarlo davanti al televisore. Dietro a quella coppa c’è un ragazzino che ha talento nei piedi, viene notato e segnalato: ed alle giovanili del Torino ci arriva con i suoi piedi e non cercando scorciatoie.

C’è un ragazzo che oltre ai piedi ha anche una grande testa. Perché sono tanti i talenti nati su questo territorio ma bruciati presto sull’altare della vanità: per diventare un campione non bastano le gambe ma serve pure il cervello. E Angelo lo ha avuto. Cervello e carattere. Che lo porta a prendere una laurea in Giurisprudenza mentre corre dietro al pallone a Torino e prima di imbarcarsi nell’avventura della League inglese.

Piedi, cervello… e tigna: quella sì tutta ciociara. C’è anche quella dietro alla coppa alzata l’altra sera. Perché Angelo ha 35 anni che è un’età critica per un calciatore, perché lui di quel West Ham è stato anche capitano e poi non lo è stato più perché nell’autunno 2021 ha subito un brutto infortunio: la rottura del legamento crociato del ginocchio destro. Una condanna per molti, una sfida in più per Angelo. Che l’ha vinta.

Ma la vera sfida vinta, la vera coppa sollevata, è l’umiltà di Angelo: il campione lo incontri ancora oggi a San Bartolomeo a salutare gli amici d’infanzia che a Cassino sono rimasti. Dicendo così a tutti i ragazzini che corrono dietro ad un pallone: nessun obiettivo è troppo lontano se lo si vuole raggiungere veramente. È questa la vera coppa.

Scusaci Fiorentina.

FLOP

GIORGIO MULE’

Giorgio Mulé (Foto: Carlo Lannutti © Imagoeconomica)

Questi sono giorni tremendi per il Governo Meloni, giorni in cui la questione di fiducia, strumento ormai in predicato di abuso e non solo nell’attuale esecutivo, ha messo sigillo certo e suggello un po’ sghembo al braccio di ferro tra chi vuole attuare il Pnrr “franco-controlli”, almeno quelli concomitanti, e chi quei controlli è stato chiamato ad esercitarli in punto di Costituzione.

Al di là del risultato in politica vige una regola non scritta che vale soprattutto quando “passano” in punto di legittimità questioni scabre come la lana di vetro. Faccende cioè che non sono immuni da scie polemiche di sostanza. Ed è una regola che prima, molto prima, la conoscevano tutti. La applicavano con la serena fermezza di chi indossa il giubbotto di kevlar dove impattano al suolo le parabole delle granate.

È la regola del silenzio, o quanto meno del profilo basso. Quando porti a casa un risultato con prologo e coda controversa conviene sempre che di quello che hai ottenuto ne parli poco. Pochissimo e senza ridondanza. Il rischio in caso contrario è che la piaga resti aperta ed il normato prenda le nuances della furbata giusta solo in punto di diritto. Ma opinabile in punto di opportunità . Tra pesi e contrappesi di una democrazia moderna e matura.

Giorgio Mulè questa regola però la conosce poco e a differenza di Raffaele Fitto che in quanto parte diretta in causa per mandato ministeriale il valore del silenzio ex post lo conosce, ha rincarato la dose dopo il risultato alla Camera. E ha detto: “La necessità di inserire la norma sui controlli della Corte dei Conti sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza nel decreto legge sulla Pubblica Amministrazione risiede nell’essenza stessa del Pnrr che deve essere attuato con velocità ed efficienza, perché le opere vanno terminate entro il 2026“.

Il vicepresidente della Camera e deputato di Forza Italia ha detto una cosa giustissima, per certi versi inattaccabile. Ma non per questo meno passibile di una discrezione argomentativa che mai come oggi serve a tener buono il mainstream. Ma lui no, lui ha fatto come il Jep Gambardella di Sorrentino: lui non vuole partecipare alle feste, lui vuole il potere di farle fallire. Spiegando: “La magistratura contabile con il decreto Pa non viene esautorata di alcun che, inoltre è bene tenere presente che nel nostro Paese esistono anche i controlli della Guardia di Finanza e delle Procure Antimafia”.

Poi ha chiosato giocandosi la matta della doppia lettura. Con coda di slogan praticone. Una cosa che di solito fanno quelli che sono sicuri di avercela fatta ma non di aver fatto tutto come andava fatto: “Vigilare è giustissimo ma l’Italia non può permettersi perdere i fondi del Pnrr perché ci sono tanti soggetti diversi che verificano tutti le stesse cose“.

Scarta la caramella lontano dallo scaffale.

GIUSEPPE CONTE

Giuseppe Conte

Adesso è tutto chiaro. È diventato evidente il motivo per cui orde di truppe cammellate a 5 Stelle nei mesi scorsi si sono messe pazientemente in coda ai gazebo del Partito Democratico per votare Elly Schlein come Segretario nazionale ed affondare la candidatura di Stefano Bonaccini che aveva vinto la conta nei Circoli.

Nessuna strategia di avvicinamento. Nessuna volontà di dialogare e per questo avere una persona vicina alle loro posizioni. Macché. Il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte ha votato Elly Schlein Segretario del Pd proprio per metterla li a farle fare ciò che sta facendo. E poi passare loro all’incasso.

Perché è chiaro cosa sta accadendo da alcuni mesi a questa parte. Il Partito Democratico parla a vuoto come un mantice bucato: addosso alle destre che guidano il Paese non sta arrivando nemmeno un soffio d’opposizione. Altro che bufera. Zero sostanza. E mentre il Pd mette in campo l’elogio del nulla Giuseppe Conte approfitta dei loro banchi vuoti per partecipare all’elezione dei nuovi vertici Rai, manda l’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede al Consiglio Superiore della Giustizia Tributaria, occupa la casella della Vigilanza.

Il Pd? Una banda di liceali nel giorno d’assemblea di istituto. Finito l’effetto novità innescato dall’elezione di un nuovo Segretario si scopre ancora più fragile di prima per totale assenza di struttura, di idee e di sostanza. Giuseppe Conte? Un abilissimo giocatore delle tre carte, roba da far impallidire la retroguardia democristiana di un tempo.

E fino a quando il Pd continuerà a fare a lui gli occhi languidi e non ai suoi elettori, l’esito sarà chiaro: a governare il banco dell’opposizione resterà Giuseppe Conte facendo votare al congresso del Pd.

Il banco vince sempre.