Perché nessuno vuole comprare Videocon

Troppo grossa, troppo obsoleta, in un'area che non offre servizi tempestivi ed efficaci. Ecco perché nessuno vuole comprare lo stabilimento ex Videocon

Alessio Porcu

Ad majorem Dei gloriam

Non è una questione di soldi. Nessuno vuole la Videocon e non ci saranno offerte  nemmeno una volta abbassato il prezzo. Il bando per la reindustrializzazione andato deserto ieri non andrà meglio nemmeno la prossima volta.

Nessuno vuole Videocon perché è una balena spiaggiata che nulla ha di interessante, niente che possa attrarre un investitore.

 

TROPPO GRANDE

È un’area immensa: 168mila metri quadrati sono come 22 campi di calcio. E di questi, ben 73mila (cioè quasi dieci campi di calcio) sono coperti. Dopo la Fiat Chrysler Automobiles di Piedimonte San Germano è la seconda area produttiva per dimensioni in tutta la provincia di Frosinone. Tra le prime nel Lazio. Solo per accendere il riscaldamento bisogna mettere mano ad un patrimonio. In questo momento, al mondo non ci sono settori produttivi che abbiano bisogno di spazi simili

 

TROPPO OBSOLETA

Due delle fabbriche che stanno lì intorno sono finite nel mirino di grossi investitori stranieri. Cosa avevano di più allettante, stabilimenti come Saxa Gres (finita nel portafogli di un fondo londinese) e Siderpali (comprata dal principale operatore turco)? La prima aveva impianti in condizioni eccellenti e maestranze che sono state capaci di rimetterle in funzione in una notte o poco più, dopo due anni di fermo produttivo. La seconda aveva una serie di commesse non indifferente da poter riattivare.

Videocon non aveva né la prima né la seconda. I macchinari erano obsoleti già quando i francesi di Thomson andarono via e lasciarono lo stabilimento agli indiani di Videocon, letteralmente regalandoglielo e lasciandogli pure i soldi per governarlo alcuni anni.

A dirla tutta, Vdc aveva qualcisa di molto interessante e che la rendeva appetibile. Al suo interno possedeva una clean room: una camera sterile che la rendeva appetibile per la produzione di apparati elettronici o di semilavorati farmaceutici. Ma non è stata messa nel conto: nessuno sa in che condizioni sia dopo che per anni non è stata più sterilizzata (un processo che in media si fa una volta al mese). Inoltre la struttura ha subito un incendio stranissimo: un cortocircuito all’interno di un impianto dove non c’è più da anni l’allaccio all’energia elettrica, dove i ladri hanno saccheggiato quasi tutto il rame dei cavi negli impianti. Come sia stato possibile che si sviluppasse un cortocircuito è un mistero che i carabinieri stanno tentando ancora di risolvere.

 

POSIZIONE ININFLUENTE

Uno dei punti di forza reclamizzati nel bando per la vendita è la posizione strategica: a due passi da Roma e Napoli, vicina all’autostrada ed alla ferrovia.

Roba da anni Ottanta.

Oggi, a Londra, le infermiere di tutti i centri prelievi dei laboratori analisi e delle Asl prendono i campioni di sangue ai pazienti, il pomeriggio vengono caricati su un aereo che li porta in India, l’indomani mattina i risultati sono già sulla posta elettronica dei laboratori londinesi. In un mondo globalizzato, nel quale solo una percentuale ridicola della componentistica Giulia e Stelvio proviene da fabbriche dell’indotto Fca, quanta importanza può avere la posizione geografica?

 

SERVIZI PESSIMI

I servizi a disposizione delle imprese sono pessimi. Quelle che attraversano l’area industriale di Anagni non sono strade: sono una vergogna alla quale viene dato il nome convenzionale di strada.

Ottenere un’autorizzazione ambientale in provincia di Frosinone significa infilarsi in un un’impresa degna di Kafka e del suo Castello. Dove nessuna certezza è disponibile per chi investe. E dove è concreto il rischio che si paracadutino i carabinieri forestali mandati da un magistrato di Roma al quale passa in mente di intepretare in maniera innovativa le norme ambientali.

 

IL PREZZO? NON CONTA

Non è una questione di prezzo.

Ad Anagni, chi comprerà avrà un vincolo: quello posto dall’ articolo 63 della legge 448/98 sulla reindustrializzazione dei siti dismessi. Cosa dice? Dice che nell’ex Vdc bisogna farci produzione.

Per capire. Sergio Marchionne, quando ha rimodernato lo stabilimento di Cassino (grande per produrre Giulia e Stelvio, ha messo mano a quasi 2 miliardi di euro. Rimodernare per mettere in produzione un’area come quella ex Vdc significa mettere mano ad un patrimonio.

Di fronte a cifre simili, gli 8 milioni scarsi che costa l’area sono bruscolini.

 

LA VIA D’USCITA

La via d’uscita c’è. E passa per un immenso atto di coraggio del presidente Asi Francesco De Angelis: ripensare in maniera moderna i volumi industriali disponibili nella ex Vdc. Perché l’ipotesi di “Cluster di piccole e grandi aziende (chimico-farmaceutico, aerospaziale), smart factory con la possibilità di insediamenti industriali 4.0” non ha attratto nessuno.

Solo un generale ripensamento della strategia industriale del Lazio e dell’intera provincia di Frosinone potrà rendere appetibile quella zona.

Così com’è è solo una balena spiaggiata.